| Cordelia | settembre 2025 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di settembre 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#REGGIO EMILA

CRONIQUES (Peeping Tom/Gabriela Carrizo)

Sembra davvero formula esausta, esplosa, fuori misura, oggi, quella dei Peeping Tom, nel recente Chroniques (firmato dalla sola Gabriela Carrizo per cinque interpreti: Simon Bus, Seungwoo Park, Balder Hansen, Boston Gallacher e Charlie Skuy) visto in prima italiana al Festival Aperto de I Teatri di Reggio Emilia. Qui tutto è troppo, anche il poco. Tutto è troppo introspettivo, cupo, nero. Tutto è troppo lento, troppo statico, troppo dilatato, fermo. Il fondale bianco/nero troppo Gustave Dorè. Le rocce in scena sono troppo di gommapiuma, i sassi troppo risibilmente morbidi (si sa mai si faccia male qualcuno); troppi wagnerismi (ma senza Wagner), troppo effetto-Spartacus che sbatte contro scogli in nome dell’oppresso comunque troppo muscolare. Troppe solite cadute, troppe carambole, troppe tuniche sollevate per mostrare distorsioni dei piedi (che fanno troppo pretini che giocano a calcio di Giacomelli, seppure tutti storpi e inetti) con troppo poche acrobazie disarticolate. E i soliti troppi preparativi di scena che allagano il tempo, e la pazienza. Troppi cluster di frecce tuonanti e spade laser e bazooka ammazza-tutti con troppe pistole inoffensive per troppe morti farlocche e pantomime circensi, con il sonoro troppo da playstation. Sisifo (se c’è) è troppo sofferente ed Ercole (se c’è) troppo senza bivio; troppo inutile fumo a riempire lo spazio di un’atmosfera di cui poco si capisce il bisogno. Troppo poco leggibili anche questi droni senza volo che combattono a terra con tre schierati pigmei. Troppo anonime e fuori posto queste nere comparse che introducono fin dall’inizio (e troppo presto spariscono) rigidi copricapi che sono bacili di barbiere. Nel Chisciotte di Cervantes è «l’elmo di Mambrino», mirabile emblema della pluralità dei mondi (1605: una profezia nell’eresia!), ma oggi, al tempo di Gaza, una vera banalità, perché troppo presto abdicati al mero valore del loro utilizzo. Infine, troppo poco questo Elvis sdrucito e povarètt del finale in playback su I can’t stop loving you (ma non se la poteva imparare?): ecco tutta questa furbesca cronaca di niente amore per il mondo, e pochissime idee per la scena, è già tutta la feroce irrealtà di oggi che sta sotto gli occhi di tutt*: ma in scena sembra davvero tutto il troppo poco che è. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Valli, Festival Aperto. ideazione e regia Gabriela Carrizo regia Gabriela Carrizo in co-realizzazione con Raphaëlle Latini creazione e interpretazione Simon Bus, Seungwoo Park, Charlie Skuy, Boston Gallacher e Balder Hansen assistente artistica Helena Casas composizione sonora Raphaëlle Latini scenografia Amber Vandenhoeck assistente alla scenografia Edith Vandenhoeck disegno luci Bram Geldhof ideazione costumi Jana Roos, Yi-Chun Liu consulenza artistica Eurudike de Beul produzione tecnica Filip Timmerman assistenza tecnica Clement Michaux ingegnere del suono Jo Heijens collaborazione speciale Lolo y Sosaku tirocinanti Laura Capdevila Millet, Ivo Hendriksen si ringraziano Franck Chartier, Uma Chartier dipinto sullo sfondo di Seungwoo Park

#FORLI'

UNO SPETTACOLO ITALIANO (N. Fettarappa, N. Borghesi)

Provate a tenere insieme il teatro anarcoide di Niccolò Fettarappa e quello politico (civile?) di Nicola Borghesi, provate a dar loro un compito: quello di riesumare la satira politica attraverso un linguaggio tutto teatrale in cui si vorrebbero fondere le tirate di Borghesi con i surrealismi, la visione caustica e demenziale di una certa scuola romana le cui ombre (Rezza, Timpano, Danco) sono ben visibili dietro la performatività e l'anti recitazione di Fettarappa. Ecco Uno spettacolo italiano, prodotto da Ert e visto a Colpi di Scena. Qui la struttura scenica è simile a quella della Sparanoia, pochi oggetti e uno spazio quadrangolare che poi verrà chiuso con le bandierine dell'Italia (d'altronde lo spettacolo comincia con l'inno cantato da tutta la troupe). Anche la forma drammaturgica è tipica del teatro dell’artista romano (ora anche artista associato al Piccolo): si procede per sketch attorno a un’idea complessiva: essere di destra oggi e perché questa postura può colonizzare anche il pensiero e le opere di chi la pensa diversamente. Indietro, in mezzo al palco campeggia il mezzobusto di un sottosegretario, è questa la linea narrativa prioritaria: Borghesi è un regista che pur di diventare popolare e avere la possibilità di allestire nei grandi teatri accetta la censura, soprattutto accetta di il pensiero della destra rispetto al teatro, ovvero l’intrattenimento a tutti i costi, la refrattarietà per la complessità e la ricerca. Sul patibolo il teatro in cui “non si capisce niente”; si ride, a tratti molto, stigmatizzando i miti della destra (le forze dell’ordine, l’utilizzo delle armi, il populismi...), ma anche quelli della sinistra, con qualche tentativo di far incuneare il discorso verso ulteriori profondità, come nello sdoppiamento di Borghesi con l’operaio che lamenta il disequilibrio sociale tra la sua condizione e quella dell’artista. Il tentativo forse non va oltre la macchietta da fustigare, si rimane sulla superficie di una satira sferzante, divertentissima, e mi sembra che nel panorama del nostro teatro ci sia bisogno anche di questo graffio, della possibilità di riflettere sul nostro io politico attraverso una scena che si comporta come le comic strip di un fumetto punk autoprodotto. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Testori, Colpi di Scena 2025: un progetto di Niccolò Fettarappa e Nicola Borghesi, drammaturgia e regia Niccolò Fettarappa e Nicola Borghesi con Niccolò Fettarappa e Nicola Borghesi luci Tiziano Ruggia consulenza spazio scenico Andrea Bovaia contributo intellettuale di Christian Raimo assistente alla regia Roberta Gabriele capo elettricista Sergio Taddei fonico Alberto Tranchida scene costruite nel Laboratorio di Scenotecnica di ERT produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Agidi, Sardegna Teatro

MISURARE IL SALTO DELLE RANE (Carrozzeria Orfeo)

Dopo anni di distopie sociali e cruente, di basi spaziali e città affogate nella merda Carrozzeria Orfeo torna con una novità teatrale, sempre dalla penna di Gabriele Di Luca, ambientata negli anni ‘90 in un piccolo borgo montano. Dai grandi temi globali, dal mondo che deve salvarsi a una storia semplice in cui è presente anche un risvolto da cronaca nera (che nel teatro del gruppo mantovano si trasforma in dark comedy): una giovane donna, Iris (Marina Occhionero come sempre misurata ed efficace) arriva in un paesino, situato dall’altra parte del lago, perché proprio nel lago aveva trovato una bottiglia in cui una ragazza anni prima spiegava i motivi della propria morte. Nella cittadina di pescatori la attenderà Betti (da sottolineare l’interpretazione di Chiara Stoppa, credibile e poetica) che vive con la coriacea zia Lori (Elsa Bossi, che forse deve ancora trovare una misura per non cadere in certi stereotipi). Il viaggio di Iris sarà un viaggio di amicizia e affetto con le due donne che inaspettatamente avrà un epilogo di vendetta. Da apprezzare il tentativo di Di Luca di cercare una scrittura asciutta e non bulimica come accadeva dei testi precedenti. La scena è molto realistica, di un realismo però solo rappresentativo e non simbolico-drammaturgico: una vecchia casa è minuziosamente riprodotta sulla scena. Permangono certi stereotipi televisivi e cliché anche nella drammaturgia: «forse in un silenzio così pieno di grazia si può riuscire a sentire il battito del proprio cuore.», dice Iris al suo registratore appena arrivata. Nulla viene lasciato al mistero, tutto è troppo raccontato, come in certe serie tv dove allo spettatore viene lasciato pochissimo spazio di azione. Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti hanno una capacità evidente di lavorare nei dialoghi, nella direzione degli attori (che parte dalla fase di scelta), con una regia rigorosa, tutte caratteristiche che potrebbero aprire alla possibilità di lavorare - con un’idea contemporanea - con la grande drammaturgia novecentesca o soprattutto con certe scritture anglosassoni più recenti. Chissà che un passaggio nei classici non possa svelare nuove strade. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Testori, Colpi di Scena 2025: drammaturgia Gabriele Di Luca regia Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti con Elsa Bossi, Marina Occhionero e Chiara Stoppa assistente alla regia Matteo Berardinelli musiche originali Massimiliano Setti scene Enzo Mologni costumi Elisabetta Zinelli direzione tecnica e luci Silvia Laureti – macchinista Cecilia Sacchi realizzazione scene Atelier Scenografia Fondazione Teatro Due realizzazione costumi Atelier Sartoria Fondazione Teatro Due produzione Fondazione Teatro Due, Accademia Perduta/Romagna Teatri, Teatro Stabile d’Abruzzo, Teatri di Bari e Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival in collaborazione con Asti Teatro 47

#MILANO

K(-A-)O (di Kenji Shinohe)

K(-A-)O: un titolo spezzato da una parentesi, un cortocircuito sottile fra segno e significato, fra superficie e profondità. Sul palcoscenico della sala Fassbinder del Teatro Elfo Puccini, all’interno del palinsesto 2025 di Hystrio Festival, un cerchio di luce delimita la scena: al centro un ragazzo, calzetti alti, pinocchietto, camicia con cravatta e blazer rimodulano il rigore, ma è un rigore giocoso, incapace di prendersi completamente sul serio. C’è la delicatezza dei movimenti minimi in questa sperimentazione performativa, pizzichi, pizzicotti, gestualità da mimo incidono il volto di Kenji Shinohe, segnandolo e contemporaneamente respingendo qualsiasi traccia emotiva, come se la maschera plastificata del volto contenesse e rifiutasse insieme ogni sentimento. La tensione fra artificio e autenticità si fa subito percepibile: dietro il sorriso rigidamente costruito o lo stupore accentuato emerge difatti una malinconia sottile, un interrogativo inesauribile sulla relazione fra immagine e identità, fra ciò che mostriamo e ciò che realmente siamo. Shinohe costruisce in questo senso una partitura scenica precisa, che attinge tanto al teatro mimico quanto alla danza contemporanea, trasformando ciò che appare quotidiano o ripetitivo in materia drammaturgica. Eppure, la visione richiede attenzione, un atto di resistenza da parte di chi osserva, poiché la forza dello spettacolo non risiede in un effetto immediato o spettacolare, ma nella lenta sedimentazione del senso, nella capacità di far affiorare interrogativi profondi sul rapporto dell’uomo contemporaneo  con la comunicazione digitale. “Cosa significa essere tristi? Cosa significa piangere? Come ci si sente?” In K(-A-)O il futuro appare “lungo, profondo, oscuro e indescrivibile”. La naturalezza negli interrogativi finali, nella semplicità del loro assunto, lascia spazio a una riflessione vera sulla fragilità dell’essere umano, sospeso tra l’esigenza di esprimersi e la mediazione costante dei propri segni. (Andrea Gardenghi) Visto al Teatro Elfo Puccini all’interno di Hystrio Festival 2025, Milano. Crediti: di e con Kenji Shinohe, luci di Cristina Fresia, produzione Fondazione Sipario Toscana. Premio Eolo Awards 2025 per l’uso creativo dei diversi linguaggi della scena

ANTICHAMBRE (di e con Élie Autin)

«Spazî indomesticabili»: e dio solo sa quanto Milano oggi ne abbia bisogno. Uno di questi è senz’altro il festival Le Alleanze dei Corpi (l’edizione di quest’anno ha un chilometrico titolo lynchiano: Slow Dancing Parties. Dark Fantastic Dreams). È tutto dedicato all’aurora come soglia e varco, ma ci sono capitato in una giornata scura e uggiosa: il programma previsto open air nel Parco Trotter è stato ripensato all’interno di un ex-pastificio di viale Monza (un precoce profumo, immaginario?, mi ha raggiunto tutto il tempo). Qui, giusto un veloce saluto a Giuseppe Comuniello e Diana Anselmo che chiudevano un laboratorio, e subito fra le sedie piazzate mi immergo in un talk dal titolo Aurore. Pratiche di attraversamento dell’orrore a cura di Lavinia Hanay Raja e Maria Paola Zedda (tra gli interventi, l’antropologa Alexia Papapietro sulle ossa come «referenti assenti» che chiedono empatia, e l’ispanoamericanista Anna Boccuti sulle sparizioni che sono apparizioni). Poi siamo scesi nel ventre dell’edificio per ascoltare l’intensa lettura di Daniela Cascella ispirata a Dell’Aurora di Maria Zambrano (attraversata e riscritta, «aurora ora, ancora, rosa», con mente barocca e cuore nietzschiano). Non si fa in tempo a riemergere che si corre ad Archive (in via Arquà 15) per Antichambre, installazione performativa di Élie Autin (black e queer artista multidisciplinare tra coreografia, modelling, performance e arti visive). Immersa in una vasca smaltata bianca, circondata da mille candele accese, in una panoplia di gioielli, ci attende sulle note d’organo della più nota Toccata e Fuga bachiana (BWV 565). Il clima è quello di un rito bacchico, tra voluttà e desiderio: lei ci osserva che la osserviamo, mentre conquista lo spazio a larghe falcate, non prima di essersi simbolicamente nutrita di un po’ di pane (che poi fa girare tra noi). Autin guizza per ogni dove combinando pose e immagini di seduzione. Questa frenetica anticamera è allora ciò che si annuncia, sulla soglia, lo spazio che precede e resiste, attenua e lenisce, ciò che non è immediatamente accessibile (la stanza del potere). L’unica vera trasformazione è dunque quella che fa da sé, già in anticamera, e anticipa, senza sottomettervisi, «l’inaccessibile». (Stefano Tomassini)

Visto ad Archive, Le Alleanze dei Corpi. di e con Élie Autin

#ROMA

INHALE, DELIRIUM, EXHALE (di Miet Warlop)

Un’enorme fatica, compiuta dai performer, dalle maestranze e anche dal pubblico, in Inhale Delirium Exhale, “lo spettacolo non spettacolo”, “la danza non danza”, dell’artista e coreografa belga Miet Warlop presentato in prima nazionale la scorsa settimana al Romaeuropa Festival. Se nei primi venti minuti, mezz’ora, il pubblico del Teatro Argentina si lascia attraversare – come auspicato nelle note di regia -  dai movimenti fluidi dei 6500 metri di seta che riempiono non solo il palcoscenico ma strabordano anche in platea; dopo questo lasso di tempo inizia, invece, una parabola discendente dell’attenzione e si passa a un insofferente senso di noia, di ripetizione. Del resto, Miet, artista rappresentante del Padiglione Belga per la Biennale di Venezia 2026, lo dichiara apertamente: «Non mi interessa ripetermi, ogni opera è un nuovo inizio». Eppure, la fruizione di questa imponente scultura scenografica, fatta di rotoli di seta e cachemire che vengono tirati, avviluppati, gonfiati, soffiati, sparati in aria, sembra non iniziare mai. È una lunga attesa, una prova di resistenza sia per chi la compie - lodevoli gli sforzi fisici e tecnici dell’ensemble - che per chi guarda. Probabilmente una visione non frontale ma circolare, agevolata dalla possibilità di muoversi intorno allo spettacolo, come fosse una vera e propria installazione – tra le opere più caratterizzanti la poetica di Warlop – avrebbe, chissà, restituito di questo lavoro di arte visiva il suo carattere libero e liberatorio, giocoso, effimero. Al contrario, infatti, in quei circa sessanta minuti, cerchiamo davvero di abbandonarci al soffio di vitalità, di seguire senza sovrastrutture analitiche il dilatarsi di forme imprevedibili in continua trasformazione; di respirare, osservando il dinamismo di queste onde tessili agitate dalla marea e dalla musica, sinuosa, di DEEWEE; ma non riusciamo, infine, a cogliere di questo movimento né il suo aspetto coinvolgente, né il suo significato, che vada dunque oltre la prodezza tecnica e si faccia veicolo di senso. (Lucia Medri) Visto a Romaeuropa Festival, Teatro Argentina: Ideazione, scenografia e regia: Miet Warlop Musica; in collaborazione con DEEWEE; Interpreti: Milan Schudel, Emiel Vandenberghe, Margarida Ramalhete, Lara Chedraoui, Mattis Clement, Elias Demuynck; Scenografia: Miet Warlop in collaborazione con Mattis Clement; Costumi: Miet Warlop in collaborazione con Elias Demuynck sotto la supervisione di Tom Van Der Borght

FLAMMENWEFER (Hotel Pro Forma, Blixa Bargeld, Iki)

La seconda replica di Flammenwerfer vista al Teatro Argentina per Ref25 avrebbe meritato un rumoroso sold-out: viene da pensare che il pubblico romano tema la sperimentazione, l’ibridazione più vera, quando insomma mancano le etichette univoche. Opera d’arte totale quella di Hotel Pro Forma che combina le arti visive con la musica contemporanea interpretata dal gruppo vocale Iki e dall’autore delle musiche e dei testi, il mitico berlinese Blixa Bargeld (alfiere della musica indipendente, fondatore dei Einstürzende Neubauten e chitarrista e autore nei Nick Cave and the Bad Seeds). Bargeld scrive una sorta di antologia poetica dedicata al pittore svedese Carl Fredrik Hill e ogni capitolo ha una propria partitura e delle liriche: se fosse un disco sarebbe un concept album. Hill, era un artista ottocentesco morto per suicidio a poco più di sessantanni, dopo aver ricevuto la diagnosi di schizofrenia paranoide ha dipinto migliaia di tele; dunque per ogni quadro la scena - che grazie a un velatino e a un altro fondale retrostante di proiezione ha una profondità suggestiva - si colora dei tutmulti pittorici dello svedese, di quel tratto angosciato e tremebondo, della furia dei colori e del nero. Psicosi, alterazione sensoriale, allucinazioni, ansia, paranoia, sono alcuni dei titoli delle scene, lo spettacolo di Hotel Pro Forma, diretto da Kirsten Dehlholm e Marie Dahl, è un’esplorazione dei labirinti della mente, lì dove può annidarsi la malattia, ed è un viaggio anche nell’arte di un autore toccato e poi distrutto dalla patologia che evidentemente ha influenzato anche la sua arte. Nella scena dedicata ai “pensieri apocalittici” non ci sono parole da cantare c’è solo un’attesa colma di paura, nella luce blu il coro è fermo (i costumi inizio Novecento, notevoli, sono di Henrik Vibskov), le gonne lentamente si gonfiano, palpitano quasi fino a scoppiare. Siamo nel labirinto, nelle paure e nella sofferenza, ma anche di fronte alla grandezza creatrice, umana e sovrumana: «dal principio di questo pianeta, il cielo non si è mai ripetuto / le nuvole non sbagliano / Nessuna ripetizione».(Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Argentina, Romaeuropa Festival : SUL PALCO Blixa Bargeld e IKI IKI: Johanna Sulkunen, Guro Tveitnes, Kamilla Kovacs, Randi Pontoppidan e Jullie Hjetland, sostituta per Anna Mose. TEAM ARTISTICO Regia, testo e drammaturgia: Kirsten Dehlholm, Marie Dahl Musica originale, testi e performance vocale dal vivo: Blixa Bargeld Musica selezionata: Nils Frahm (La musica di Blixa Bargeld e Nils Frahm è eseguita separatamente.) Costumi e scenografia: Henrik Vibskov Lighting design (design luci): Jesper Kongshaug Video design: Magnus Pind Composizione vocale: Marie Dahl Sound design (progettazione sonora): Erik Medeiros Arrangiamento vocale: IKI, Simon Christensen Concept: Hotel Pro Forma

MICROCLIMA (di Alessia Cristofanilli)

Il microclima è la circostanza ambientale specifica che permette un certo tipo di sviluppo, quindi tutte le caratteristiche che, pur essendo attorno a un essere vivente, ne determinano l’intima condizione. Microclima, al Teatro Vascello scritto e diretto da Alessia Cristofanilli, è un habitat che si estende in obliquo sul palco, strutture sottili di ferro verde a comporre una geometria scheletrica che compie la metratura, arredata, di una casa. Ovunque, piante. E una famiglia di cinque persone. Quasi sei. Il contesto casalingo è dunque l’elemento dominanti dei dialoghi tra Edda (Sylvia Milton) e Rud (Federico Gatti), attivisti che ancora credono nell’impegno e nella libertà d’azione, pur dovendo venire a patti con l’economia globale che riverbera nella conta delle mandorle per la colazione, nelle lotte quotidiane per crescere i propri figli senza rinunciare a ciò in cui si crede. Come nel precedente Da qui non è mai uscito nessuno, Cristofanilli consegna al pubblico un testo denso che intende discutere la condizione sociale della contemporaneità, per cercare di capire che fine facciano nel tempo i valori, le idee, su cui è fondata un’esistenza. Dalla dimensione privata al contesto civile le parole dei due personaggi affondano nella difficoltà di interpretare il cambiamento del tempo, vivono tenendo fede a sé stessi, ma qualcosa come un parassita per le piante – motivo per cui dal vivaio che gestiscono hanno dovuto creare in casa una serra – si è diffuso tra le pareti, nelle parole e nei silenzi che il figlio grande, Olmo (Francesco Morelli), porterà alla luce. Il dialogo tra i due, che spesso si fa monologo diretto all’esterno, è ricco e ben scritto, ma rischia di mostrarsi eccessivamente verboso, rimandando per un tempo lungo di giungere al punto a cui si vuole arrivare, lasciando così poco spazio verso la fine per coglierlo pienamente. Qual è il confine tra il compromesso e la libertà? Questa è la domanda che scava la famiglia da dentro e allarga ancor di più la condizione di precarietà, così che dopo tante parole resta in casa solo il vuoto pneumatico delle piante e il suono di una radio che, nel silenzio, si sintonizza appena. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Vascello. Crediti: scritto e diretto da Alessia Cristofanilli; con Federico Gatti, Sylvia Milton, Francesco Morelli; movimenti di scena Alberto Bellandi; scene Eleonora Ticca; costumi Nika Campisi; assistente ai costumi Marco Di Maggio; light Designer Chiara Patriarca

MAMMA ROMA (di Fabio Morgan)

Panni stesi – altrove si chiama bucato, qui no – che il vento tira da una parte all’altra, a lambire il grigio dei muri tutti uguali che solo in cima avranno un tocco di colore, una sorta di cupola in terrazzo – il vano fontane, forse – di colori pastello blu, giallo, verde, come un’illusione del colpo d’occhio ad ignorare il grigio. Eccola l’immagine di questo Mamma Roma – Tragedia popolare in cinque atti firmato da Fabio Morgan e sviluppato in dialogo con gli abitanti delle case popolari di Torrevecchia. I caseggiati ATER fanno da sfondo allo spettacolo, ma allo stesso tempo ne sono parte integrante, da un lato per la raccolta di storie, dolorose o divertenti ma in tutto umane, dall’altro perché è impossibile non figurarsi quelle storie in un luogo diverso da questo che ci appare di fronte. Ecco, forse è questo il punto fondamentale della relazione che Morgan – alla regia assieme ad Ariele Vincenti – cerca con il capolavoro omonimo di Pier Paolo Pasolini del 1962, film epocale che vede una donna combattere contro la proprio condizione di partenza, eleggendo la casa ad elemento che possa affrancarla dalla povertà e portare lei e suo figlio, tutta la sua famiglia, a un livello più accettabile di rango sociale. Attorno, seduti sui gradoni dell’anfiteatro al centro dei cortili, è pieno di ragazzini; a loro è dedicata questa storia un po’ schematica di donne coraggio in abiti moderni e uomini per lo più sbagliati vestiti anni Settanta, all’idea di famiglia come contesto che porta i concetti di bene e male a doversi ogni volta riscrivere, alla trasmissione di colpe che superano le generazioni, come è nella tragedia classica, alle figure genitoriali che determinano il futuro di chi ne prende esempio: la storia è per questi ragazzini che però seguono svogliati, scorrono la timeline dei loro social, si fanno selfie annoiati da postare, combattono tra il desiderio di andarsene e quella flebile volontà di restare, accogliere lo stimolo di un’attenzione continuamente da riconquistare. Sono i ragazzi e le ragazze a non saper sfruttare l’occasione o lo spettacolo non sa bucare con la poesia e l’intensità il cuore di chi vi assiste? Mentre calano la sera e gli applausi sulle ultime grida un po’ posticce dello spettacolo, il dubbio affiora come l’ombra dei palazzi grigi sul grigio della strada, ma una speranza gialla verde e blu da sopra gli edifici scende, per una sera, a invadere lo spazio e immaginare davvero, com’è il nome del centro di aggregazione giovanile nella storia, un Bronx a colori.

(Simone Nebbia) Visto presso ATER Torrevecchia. Crediti: Direzione artistica e drammaturgia Fabio Morgan; con Lorenzo De Mico, Elena Giovanardi, Diego Migeni, Daniele Miglio, Sarah Nicolucci, Francesca Pausilli, Ariele Vincenti, Riccardo Viola; con la partecipazione di Nicola Donati, Claudio Grisogoni e Sara Russo; Regia Ariele Vincenti, Fabio Morgan; Aiuto regia Emiliano Morana; Costumi Giovanni Schiera

#TORINo - Torinodanza

RISE (ideazione e coreografia di Daniele Ninarello

C’è un sipario sul fondo della sala, sbarluccicante, tutto una cascata di striscioline che accolgono e divampano il colore delle luci che di volta in volta vi si adagiano. Ma l’avvio di Rise di Daniele Ninarello per Torinodanza è dilatato…, eppure questo suggestivo impatto, con le forze che sappiamo messe in campo, sembrerebbe chiedere subito dinamica. Dan Kinzelman si approssima lento al suo desk e maneggia, al solito, microfoni strumenti e laptop: più volte ascolteremo lunghi suoni subito campionati che nel ripetersi e accavallarsi comporranno un pezzo da sé, in un tempo però senza mistero (non se li poteva preparare a casa?). Poi lentamente entrano le danzatrici e i danzatori che oggi più ci piacciono, con costumi sbarluccicanti come le striscioline che attraversano, esibiscono subito sorrisi, costruiscono flussi di movimento aggreganti come quelli di una comunità, eppure non si toccano mai, in un movimento libero prevalentemente circolare, semplice ed elementare, tutto sempre uguale dentro al quale perdersi e sparire per ritrovarsi nell’altro: è la misura di questa gioiosa carambola. Se il suono ha il suo lungo spazio solistico, nessun* de* performer danzanti resta mai invece nel silenzio del suo corpo, sempre costretti nel flusso di un anda-e-rianda tra il suono e questo sipario di strisce luminose (nel corridoio del retro nessun contrappunto visivo o rinforzo di forme). Vi sono dei potenti controluce che pure avrebbero potuto fermare il tempo e porre un problema (Nicola Cisternino e poi Erica Bravini provano qualche controritmo che subito si perde): tutto scorre senza intoppi, l’allegra brigata si infoltisce di nuovi progressivi ingressi («un gruppo di giovani performer incontrato in un laboratorio di ricerca») e la scena si affolla e si addensa (in circolo come una giostra, o da parete a parete come colletti bianchi il lunedì mattina). Kinzelman entra e si muove per la scena e con il sassofono sposta e destina la massa dei corpi danzanti, ma il ritmo non riesce ipnotico, solo ripetitivo: conta l’andare non la mèta. La formula è semplice, esausta, ma già altre volte proposta efficace da Ninarello. (Stefano Tomassini)

Visto alle Fonderie Limone per Torinodanza. Ideazione e coreografia Daniele Ninarello danza Marina Bertoni, Vera Borghini, Erica Bravini, Nicola Simone Cisternino, Pietro C. Milani e con i/le partecipanti al workshop Parade Alice Bosco, Arianna Buffo Blin, Veronica Daidone, Francesco Delle Donne, Rachele Ferraro, Caterina Giolitti, Baptiste Elia Hotz, Amal Koudya Costanza Mobilia e Isaac Ace Munn musiche originali composte ed eseguite dal vivo Dan Kinzelman assistente alla creazione Elena Giannotti disegno luci Marco Santambrogio tecnica Lucia Ferrero. durata 1h

TÉMOIN (coreografia Saïdo Lehlouh)

Sono tantissimi (una ventina) e tutti scompagnati, con mille personalità, mille stili che cozzano tra loro, senza mai conflitto, in cerca invece di un punto comune di incontro, di arrivo, una unione del possibile. Cosa può un collettivo? Se lo chiede Saïdo Lehlouh in Témoin con il suo Collectif Fair-e visto a Torinodanza. Fin da subito vi è un effetto luci bianco/nero (molto spesso è un controluce) come per non lasciare nulla all’illustrativo: i colori sono solo nei corpi. Nel vasto spazio della Sala Grande alle Fonderie Limone, continue figure sui bordi della luce restano ai margini, corrono sui margini, sempre a mezzo di un’ombra che acchiappa; in scena, c’è un gruppo che si aggruma e sdipana continuamente mescolando, come da programma, «hip hop, break, waacking, freestyle, krump, electro o top rock». I confini dello stile hip hop sono quindi largamente sovrastati da mille differenti abilità dei performer: Lehlou parla di danzatori autodidatti che attraverso un lavoro di anni sull’improvvisazione si fànno, in scena, «testimoni del proprio tempo». Nessuna singolarità qui è sacrificata all’imperativo del gruppo, anzi: anche nei brani solistici, questi corpi sono ‘strizzati’ ossia resi al massimo grado della loro sostanza, senza esposizione né esibizione alcuna. Un dialogo anche aspro che aggrega e associa senza prevaricazioni, con l’unico obiettivo di generare e trasformare quel che c’è, quel che resta, quel che si può fare, quel che può diventare. Non esiste un filo narrativo, non una traccia che riconduca a più espliciti significati ciò che accade. È un mistero che resta sospeso, in tutta la forza (difficile non riconoscerlo) di una ecologia politica che sottrae ai corpi ogni imperativo di dominio. Il finale è pensato, per me feroce da togliere il fiato: mentre tutti si dissolvono fra la platea, uno solo resta al centro della scena, credo non tanto come una singolarità che redime il tutto, ma forse come l’eletto di turno? corpo sacrificabile? testimone scomodo? Combatte da solo contro i fantasmi del suo tempo, mentre il sipario lentamente si chiude, e ci separa per sempre da lui. (Stefano Tomassini)

Visto alle Fonderie Limone per Torinodanza. Coreografia Saïdo Lehlouh, assistenti alla coreografia Mehdi Baki, Evan Greenaway, Karim Khouader aka Karim KH, interpreti Ndoho Ange, Mehdi Baki, Audric Chauvin, Marina de Remedios, Jerson Diasonama, Johanna Faye, Evan Greenaway, Théodora Guermonprez, Linda Hayford, Marvin Kemat aka Zulu, Karim Khouader aka Karim KH, Odile Lacides, Timotkn, Mattéo Raoelison aka Rao, Mathias Rassin aka Thias, Émilie Ouedraogo Spencer aka Wounded, Raphaël Stora, Clarisse Tognella, Lorenzo «Sweet» Vayssière, luci Tom Visser, Gwendal Malard, musica Mackenzy Bergile (compositore), Raphaël Henard (drammaturgo musicale), stile Johanna Faye, costumi Lydie Tarragon Collectif FAIR-E / CCN di Rennes e della Bretagna Co-produzione Théâtre de la Ville (Parigi), Théâtre National de Bretagne (Rennes), Maison de la Danse (Lione) Le Cratère – scena nazionale (Alès), Charleroi Danse centro coreografico della Wallonia (Bruxelles) Château Rouge (Annemasse), tanzhaus nrw (Düsseldorf), Residenze Théâtre de la Ville (Parigi) – Espace Cardin Théâtre National de Bretagne (Rennes) – sala Gabily CCN di Rennes e della Bretagna. photo © David Le Borgne. durata 1h

#FORTE MARGHERA - Venere in teatro

MATRIOSKA (di Chiara Frigo)

Chiara Frigo compie (incredibile) 50 anni (nessun* proprio lo direbbe), e allora si è imposta come da sé l’idea di una sorta di retrospettiva, una raccolta dei materiali che si sono sedimentati nel tempo, tra i lavori, tra le danze. Addirittura improvviso anche un assolo, tanto libero quanto devoto (alla danza, al danzare). Dove? A Venere in teatro, tra il pubblico che qui a Forte Marghera all’inizio della durational dal titolo Matrioska (2022) è preso singolarmente, e accompagnato per mano in un one-to-one suggestivo che è dono e incontro. Lungo il bellissimo padiglione 29 del Forte, accompagnata dalla bravissima violinista Laura Masotto, che da una pletora di cavi e pedaliere tira fuori meraviglie, Frigo poi ribalta (insieme ad altre presenze che corrono e scorrono in appoggio alle azioni) ogni assunto celebrativo: come in un gioco di scatole che si possono inserire ed estrarre a piacimento, così le azioni si inseriscono nella temporalità dello spazio ed estraggono memorie più o meno riconoscibili dagli oggetti qui esposti. «La Matrioska, nella sua tradizione, è un cerchio magico che si apre con un pezzo chiamato “madre” e si chiude con un pezzo chiamato“seme”»: così l’archivio del corpo torna a generare la vita del presente (e a celebrarla, oggi, in un genetliaco danzante). Tutto è ciclico, scandito da un ritocco di una campana tibetana, che designa transizioni e ripartenze. In avvio di questo più che necessario festival, quest’anno ancora più nutrito, e che ora si conclude con questa inedita coincidenza, Frigo aveva già presentato A Human Song, un lavoro performativo di comunità, esito finale di un workshop che si concluderà nel 2026. Qui, un unico movimento spaziale, una folta onda umana intergenerazionale si è mossa da un lato all’altro della scena, anche qui in un esercizio di ciclicità individuale e collettiva: come comunità temporanea che si è assunta l’onore della prossimità, della forza condivisa, della trasformazione che non lascia indietro nessun*. (Stefano Tomassini)

Visto a Venere in teatro. Idea Chiara Frigo. Musiche Laura Masotto Opera video Chiara Frigo, Riccardo de Torrebruna, Produzione Zebra Cultural Zoo. Con il sostegno di Teatri di Vetro (Roma)

#ROVERETO - Oriente Occidente

ORAGE (di Dalila Belaza)

È davvero una tempesta questo nuovo assolo dal titolo Orage di Dalila Belaza, visto al Teatro Zandonai di Rovereto per Oriente e Occidente. Appare dal buio, lavora per tutto il tempo sulla soglia del visibile e scompare poi nel buio: tutto qui, ma ciò che avviene è una meraviglia. Una cascata di luce colorata la investe quando sulla destra il chitarrista Serge Teyssot-Gay (già Noir Désir) irrompe con riff distorti, acutissimi. Niente note, solo un rumoreggiare concentrato e costante. Ed è allora un corpo a corpo, una rissa funzionale, uno scontro tutto intrinseco ai rispettivi strumenti. Quel che vediamo sono spesso due assoli che scorrono paralleli: spesso anche si incrociano, dialogano, spesso divergono e prospettano mondi distanti, modi (di fare) non coincidenti. Sembrano portare entrambi il peso di un passaggio radicale e trasformativo: quella che Artaud chiamava «un orage organique». È un corpo rotto quello di Belaza, spezzato, frammentato da onde vibratili cariche di tensione che non impongono né costruiscono visioni, non ci sono immagini da inseguire, ma questo corpo punta a dissolvere i contorni conosciuti e consueti delle figure in una effettiva immaterialità: «Credo addirittura che sia lo spazio che unisce danza e musica a interessarmi, l’immaterialità che la musica conferisce alla danza e il modo in cui la danza permette alla musica di essere incarnata» (come lei stessa precisa). È quindi una inedita possibilità della performance quella che emerge, come una configurazione sonora del corpo attraverso la musica. Mera percezione, al di là della forma. Coperta da un costume nero, troppo largo e troppo nero da non richiedere una dismissione, in un passaggio a terra, riversa, poi in ginocchio, come se la pelle si stacchi mentre il corpo appare e scompare sotto un sipario di luci che partecipano non certo per il disegno ma per intensità. Nella seconda parte della performance Belaza si sposta, rotea le ginocchia, addirittura fa un breve salto, persino una rotazione: qualcosa si prefigura come una eco, un rimbombo, l’impressione di un tempo profondo. (Stefano Tomassini)

Visto al teatro Zandonai, Oriente Occidente 25 Ideazione, direzione artistica e coreografia Dalila Belaza Interpreti Dalila Belaza, Serge Teyssot-Gay Musica originale Serge Teyssot-Gay Design luci Dalila Belaza Collaborazione alla progettazione dei costumi Christine-Sharmini Tilleke Costumi Atelier Osman Bindech

DIES IRAE (di Gloria Dorlinguzzo)

La location per Dies Irae di Gloria Dorlinguzzo raggiunta per il 45 Festival Oriente Occidente è la meglio azzeccata: una ex-officina della prima industrializzazione di Rovereto. Due ampie finestre lasciate scoperte inondano lo spazio di luce vespertina. Siamo qui per un Concerto per donne e martelli ispirato alla figura della compositrice sovietica Galina Ustvolskaya, «pupilla di Dimitri Shostakovic», e «conosciuta come la Donna col Martello» (all’ingresso, due incudini con microfoni ai lati fànno sùbito presagire un concerto metallurgico, e mut* ci chiediamo quanto sarà molesto...). È il risultato di un workshop tenuto da Dorlinguzzo con le partecipanti non professioniste e di tutte le età provenienti dal territorio. Ed è performance intensa in molti suoi momenti, anche ben congegnata in termini compositivi, ma più in generale l’ingresso a marcetta, gli occhi torvi, i grembiuli/fabbrica molto socialismo-reale, sono forse soluzioni sceniche ed estetiche stanche. Se fin da subito vi è un immaginario à la Kantor, la lamiera dei fulmini che smette di vibrare nel retro rivela una immagine che riproduce un dipinto di Turner (si tratta di Sunrise with Sea Monsters, come poi lei stessa precisa), ed è un’inattesa sorpresa, così come i ritmi vulcanici di queste martellate sudanti un vero fuoco sonoro (di ribellione e protesta), con volti sempre attenti perché addestrati (di lato, un maître musicale, Riccardo Munari, segue su spartito e dà tempi e attacchi, mentre dalla regia, alle nostre spalle, Dorlinguzzo si sbraccia per sostenere e dirigere e guidare). Ma queste partecipanti al workshop sono di una normalità (e bellezza) talmente rassicurante che ’sto prendere il mondo (e i suoi mostri) a martellate secondo partitura (di Ustvolskaya) non va più lontano di una animata riunione di condominio quando volano piatti e bicchieri. Dorlinguzzo è però intelligente, e non si prende davvero sul serio, infatti prevede per questo suo local ensemble anche un ridacchiato e complice (e bello) momento-merenda (ed è proprio fra questi sorrisi liberatori, coi quali tutte condividono e sgranocchiano crackers, che appare come possibile una sospesa e resistente «comunità di donne», sottratta alla violenza «dei poteri omologanti»: il tempo del martello). (Stefano Tomassini)

Visto a Oriente Occidente 2025. Regia e coreografia Gloria Dorliguzzo Interpreti il gruppo di performer parteciperà a un laboratorio guidato da Gloria Dorliguzzo per non professioniste Musiche Galina Ustvolskaya Maestro di musica Riccardo Munari Sound engineer Filippo Cossu Produzione Fuorimargine - Centro di produzione di danza e delle arti performative della Sardegna Ringraziamenti Lenz e C&C Company

#PALERMO

ROBERTO BAGGIO (di Davide Enia)

Che significa protestare contro la sofferenza rispetto al semplice prenderne atto? È la domanda che Susan Sontag si poneva in apertura al suo Davanti al dolore degli altri. Se ci si pone tale questione con troppa intensità, diviene quasi impossibile non raggiungere il punto di rottura. È proprio da questo punto che prende avvio Roberto Baggio, di Davide Enia, visto allo Spazio Franco di Palermo in occasione dell'edizione del Mercurio Festival ancora in corso. Roberto Baggio è il nome di due asceti: il più noto calciatore e un medico anestesista, in missione tra le macerie di varie zone belliche. Per il medico, la singolare coincidenza diviene un vero e proprio passpartout, una chiave di accesso a luoghi, tempi e persone altrimenti più difficili da raggiungere. Sotto le sue mani scorrono corpi mutilati, corpi di bambini e bambine mutilate, brandelli, residui. Ciascun frammento viene recuperato, amputato, ricomposto con la fredda lucidità dello sportivo, che può salvare se stesso e la partita anche quando tutto sembra perduto. Ammesso che una salvezza sia davvero possibile, ammesso che davvero l'arbitrio possa intervenire su una casualità troppo cieca per essere controllata. Enia se lo chiede, esterrefatto; le sue parole tendono a dileguarsi nel vuoto, in cui cadono più volte, proprio dove braccia e mani sembrano delicatamente condurle, lontano. In una rapsodia di episodi affatto gloriosi, Enia tesse un'epica individuale e collettiva che si svolge intorno al buio, e di questo buio decide di essere testimone. Di fronte al senso inevitabile della propria limitatezza, impugna la scrittura come "allenamento per non soccombere", reazione all'insufficenza e all'insignificanza. La parola imprime, nella mente di chi ascolta, immagini talmente indicibili che, all'uscita, qualcuno rifiutava che potessero essere reali. Enia costringe, e si costringe, a confrontarsi con esse, senza possibilità di sfuggirvi. Al dolore del mondo non si scappa, non si possono eludere neanche le guerre interiori, con tutto il loro catalogo di lutti privati; ma si può resistere, tentare comunque di opporvi quel tanto di bene che è ancora tanto. Come dice un poeta: costruir su macerie, e mantenersi vivo. Roberto Baggio non è stato prodotto; ma pare che in qualche modo abbia già trovato una sua forma (Tiziana Bonsignore).

Visto allo Spazio Franco, Mercurio Festival 2025, Palermo. Crediti: di e con Davide Enia. Commissionato dalla Stiftung Fussball & Kultur EURO 2024 della UEFA e dal Ministero della Cultura della Germania per il festival Stadion der Träume (Monaco di Baviera, 2024).

#ROMA - Short Theatre

WITH ALL MY STRENGTH (di Martina Rota)

Siamo proprio sotto il Fregio dell’Agricoltura, l’imponente opera di Gino Severini del 1953, 70 metri di pannelli che catturano lo sguardo appena si entra nel Palazzo dei Congressi. L’edificio, la cui costruzione iniziò in epoca fascista per poi essere terminata nel ‘54, si è aperto alla ricerca artistica negli ultimi due giorni di Short Theatre. Il pubblico su tre lati, e di fronte la grande scala dalla quale, con grande effetto visivo e scenografico, scendono i tre bodybuilder. E’ potentissimo l’abbrivio della performance ideata dalla giovane Martina Rota (Bergamo, 1995), non solo per il calibro visivo, la forza è anche concettuale: sta in questo cortocircuito che vede tre espressioni corporee tipiche della mascolinità mettersi in mostra - proprio in un edificio costruito da chi voleva l’esaltazione della forza - per poi però sciogliersi alla ricerca di un’umanità fatta di parole sussurrate all’orecchio, di piccoli giochi infantili, del tentativo di un canto a cappella. Uno per uno i bodybuilder si mostrano al pubblico, come in una sorta di sfilata, con le pose utilizzate nelle competizioni. Poi lentamente qualcosa comincia a scricchiolare nell’immagine della performance levigata, qualcosa di impercettibile. A dire il vero forse è già nella scelta dei tre performer che dovremmo notare un campanello di allarme: uno è davvero gigantesco, un altro è più appannato e ha il corpo pieno di tatuaggi, il terzo ha un fisico allenato e in forma ma non esplosivo, come se fosse all’inizio del proprio percorso. L’opera vuole dirci anche questo? Ovvero che non riusciamo a non giudicare dei corpi che chiedono di essere guardati. Ma quali storie ci sono sotto ai muscoli e ai tatuaggi? With All My Strength non afferma ma offre immagini per possibili formulazioni; il problema però sta nella drammaturgia della scena, spesso ripetitiva, pulita ma poco strutturata e non sempre in grado di tenere alta l’attenzione del pubblico per l’intera ora. Un’idea che avrebbe bisogno di un rischio maggiore e di un lavoro teatrale sugli accadimenti scenici. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Palazzo dei Congressi, Short theatre 2025 artist Martina Rota performers Massimo Palmieri Bormolini, Massimiliano Palmese, Arold Triberti set designer Carolina Papetti film maker Beatrice Perego e Umberto Rafael Gorka Guidi assistant to scenic creation Filippo Ermanno Pizzocri editorial and cultural consultant Alessia Prati with the support of BASE Milano, PERFORMATORIO, MIC per il bando Grand Tour, Lab121teatro, SLAP Lambrate

WE CAME TO DANCE (Ali Asghar Dashti & Nasim Ahmadpour)

Siamo venuti per danzare, così recita il titolo, eppure i performer/lettori, non si muoveranno mai dalla propria sedia. Il lungo tavolo è chiuso in basso con i poster dell’opera stessa (andata in scena anche alla Triennale di Milano, all’Aquila e poi sarà a Genova). Sopra le teste degli artisti e delle artiste uno spazio per la proiezione del testo tradotto in italiano e inglese. Siamo alla Pelanda, per la prima edizione di Short Theatre con il nuovo gruppo curatoriale e lo spettacolo degli iraniani Ali Asghar Dashti/Nasim Ahmadpour è uno dei più attesi. Parte da una questione per noi abbastanza scioccante: l’impossibilità di danzare per legge, perché la danza è considerata un crimine. Nel 2018 diversi artisti della danza iraniana affermavano sui propri profili social di astenersi «da qualsiasi attività nel campo del movimento, della coreografia e della danza contemporanea». La regia di Nasim Ahmadpour sceglie il puro rigore del concettuale: se in patria non si può danzare allora bisogna azzerare la rappresentazione, il gruppo leggerà solamente e anche i momenti in cui il testo accennerà a dei video, che dovrebbero essere proiettati come documentazione, saranno raccontati solamente nelle parole. Un silenzio performativo e delle immagini che contribuisce alla forza politica dell’opera a costo di instaurare una relazione con la platea molto fredda e mentale: tutte le informazioni passano per le parole proiettate, spettatrici e spettatori non hanno vie di fuga. Frammenti di storia del teatro e della danza iraniana si mescolano ad eventi biografici, come la visione, fulminante, di Dance on Glasses di Amir Reza Koohestani. Naturalmente per le arti sceniche in Iran esiste un prima e un dopo la rivoluzione del ‘79, alcuni artisti si sono trasferiti all'estero altri caparbiamente sono rimasti. Uno di questi, tra i più importanti registi teatrali iraniani, Hamid Samandarian, per protestare contro la censura aprì un ristorante e la prima sera: «orchestrò tutto come in una messa in scena. Come se avesse dimenticato di non essere a teatro». Della danza rimane l’immaginazione, come pratica quotidiana dell'artista a cui è vietato di esprimersi. (Andrea Pocosgnich)

Visto alla Pelanda, Short theatre 2025 ideazione, creazione e drammaturgia Nasim Ahmadpour regia Ali Asghar Dashti (per conto di Nasim Ahmadpour) interpreti Hamid Pourazari, Ilnaz Shabani con la presenza di Nasim Ahmadpour, Ali Asghar Dashti supervisione del progetto Shahram Mokri coreografie Mostafa Shabkhan video Mohammadreza Rahmati disegno luci Niloofar Naghibsadati graphic design Farhad Fozouni tecnologia Jafar Hejazi assistente alla regia Fatemeh Rouzbahani produzione Don Quixote Theatre Group co-produzione BAM teatro, Kunstenfestivaldesarts diffusione ART HAPPENS in collaborazione con il MAXXI L’Aquila in occasione di Performative05 sovratitoli a

A LITTLE BIT OF THE MOON (Anne Teresa De Keersmaeker e Rabih Mroué)

Un duo alterno di voci che ripassano le leggi di Keplero sul moto dei pianeti. Una memoria di quando lui vide per la prima volta lei danzare. Un coincidere creativo e drammatico di data, il 1982, che segnò per lei il clamoroso lancio di Fase. Four Movements to the Music of Steve Reich e per lui l’assistere a Beirut al bouquet notturno delle bombe luminose dell’esercito israeliano orientanti il micidiale massacro di Sabra e Shatila inflitto dai falangisti a un campo profughi palestinese. Non ignorando tutti gli altri soli performativi, sonori, rivaleggianti e simmetrici, ecco la scaletta fatta di teatro, musica e posture nello spazio all’interno della Sala Oceano di India, di A Little Bit of the Moon (con intimo richiamo a The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd), con idee e condivisioni fisiche della coreografa belga Anne Teresa De Keersmaeker, splendida 65enne, e dell’attore artista visivo libanese (ora berlinese) Rabih Mroué, coriaceo 58enne. Un lavoro proposto in giusta consonanza dal Romaeuropa Festival e da Short Theatre. Lo spettacolo è stato generato da un’amicizia, da un progetto di dieci mesi, e da un gesto politico. Il risultato è estremamente lirico, ha un po’ il format di una lecture-performance con frammenti di testi e gesti, e partendo da un prologo scientifico va diritto a una storia di persone che si affrontano imbracciando e suonando flauti traversi, si raccontano e si interrogano occupando i due ovali a terra dei riflettori, percorrendone i bordi, affrontando sfide circolari di piedi, passaggi di respiri lunghi, fasi di colpi alle pareti, e confronti anche a estrema distanza tra l’alta tribuna del pubblico e il confine opposto della platea. Naturalmente è a De Keersmaeker che sono riservate le esercitazioni dinamiche più architettoniche, i voli simulati, i movimenti striscianti. Ma Mroué coi suoi contributi epocali, col suo spirito narrativo, con la sua sapienza sorridente (ricambiata) non è da meno. Il finale è una festa ballata col pubblico, dopo un raro incontro con artisti che hanno condiviso una conoscenza, una rivelazione biografica, un atto speculare di arte vissuta, di arte nobile, mentre ricorre un’era di ignobili offese umane. (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Teatro India, Romaeuropa Festival, Short Theatre ideazione, regia, interpretazione: Anna Teresa De Keersmaeker e Rabih Mroué direzione tecnica, suono e luci: Thomas Köppel

#LECCO

PREMIO LUNA CRESCENTE 2025

Nella galassia di realtà che fungono da osservatorio per il teatro under 30 italiano c’è L’ultima luna d’estate, festival diretto da Luca Radaelli, Elena Scolari e Filippo Ughi che anima la Brianza a cavallo tra agosto e settembre. All’interno del suo Premio Luna Crescente, infatti, tre compagnie giovani presentano 20 minuti di un proprio spettacolo al pubblico, che poi decreta la vincitrice. Il passato orrorifico della guerra nei Balcani, il presente asfissiante del controllo mafioso e il precario futuro tardo-capitalista sono i tre tempi in cui rispettivamente si muovono A volo d’angeloFutti futtitinni ma non ti fari futtiri Distinti saluti: una visita per Mostar, nel sud della Bosnia-Erzegovina, guidata da Crazy Bosnian Guy (Michelangelo Canzi) e infestata dalla sua angoscia spaccona e dai suoi ricordi di soldato ventenne; un racconto di Tommaso D’Alia che correla, in maniera non sempre limpidissima, fatti di mafia e ricordi famigliari, in cui la coinvolgente ritmicità del cunto ripaga in parte l’ostentata tipizzazione sicilianissima dei costumi e delle pose; un monologo in spoken word di Sara Baldassarre, che si aggiudica il favore del pubblico, su una giovane artista che tenta di emergere agli occhi di una commissione di un imprecisato premio, bando o ministero, accontentandone i misteriosi criteri di selezione. Oltre alla regia di Letizia Buchini, lo spettacolo ha visto la collaborazione con Niccolò Fettarappa e di quest’ultimo ricorda il piglio accidioso e sarcastico, il linguaggio che fonda elementi quotidiani e surreali (la commissione viene variamente apostrofata come “graziosa”, “onnisciente”, “onirica”) affrontato con un tono ora sostenuto, ora piano, ora estatico. Distinti saluti declina il tema del precariato, ampiamente trattato negli ultimi anni, in modo specifico ma non pedante, personale ma non egoriferito, illuminando le scelte che un’artista emergente si sente costretta a prendere per poter farsi largo nella cerchia ristretta del teatro italiano.

(Matteo Valentini)

#BOLOGNA

BIRDSONG (di Salvo Lombardo)

Tutto è rarefazione e mistero. In una selva di aste verticali (microfoni e lucette sparsi ovunque), un fiotto basso di fumo emerge lento e stagna (sembra di stare in un atto bianco, ti aspetti le Villi zompare fuori da un momento all’altro). Le figure che la abitano sono solitarie. Arrivano, perlustrano e se ne vanno. Altre si fermano solo pochi istanti, osservano con mistero il circostante e di nuovo se ne vanno (deluse?) da dove sono venute. È Birdsong di Salvo Lombardo per Chiasma, visto in anteprima a Danza Urbana Festival di Bologna. Infatti nelle casse audio transitano richiami d’uccelli che si inseguono a potenti ondate, ulteriormente amplificati dalla cassa armonica naturale della ex-chiesa di san Mattia. A una certa, tra le due astanti (Marta Ciappina e Daria Greco), incomincia tutta una lunga verbalizzazione, a partire soprattutto da un testo arrotolato consegnato una all’altra da una cartucciera senza pallottole (#fatepoeminonlaguerra), un vocale scilinguìo barbugliante una lingua ornitologica resa però naturale, normalizzata e insomma senza alcun vero mistero. Quello che vediamo è quello che ascoltiamo. Vi si aggiunge presto anche Camillo Prosdocimo, noto chioccolatore ossia imitatore di versi degli uccelli (e assume sùbito un ruolo centrale, proprio come nel Rigoletto il tenore, non si aspetta che lui). Resta tutto un potenziale spaziale che questi suoni pieni di vita (se diversamente intesi) potrebbero generare. Ma non è così: tutto è portato sùbito in primo piano, con una richiesta di massima esecuzione in un minimo di azione. Infatti poi nel finale ecco che Prosdocimo viene a proscenio per un suo lungo assolo virtuosistico e scassa-orecchie, come proprio un tenore rossiniano (di Gazza ladra) o stravinskijano (Le Rossignol). E non si può che essere rapiti (o infastiditi) da tanto sovraccarico performativo di fischi trilli gorgheggi stridii e ribattute acustiche. Forse solo la trasfigurazione espressiva dei suoi muscoli facciali, per favorire tanta emissione fonica, fa trasparire una possibile prefigurazione non-umana del richiamo non-predatorio, mentre le astanti a corollario lo osservano pacifiche, proprio col binocolo. (Stefano Tomassini)

Ex Chiesa di San Mattia, Danza Urbana. Di Salvo Lombardo con Marta Ciappina, Daria Greco e i canti di primavera di Camillo Prosdocimo styling Ettore Lombardi luci e spazio Maria Elena Fusacchia disegno del suono Fabrizio Alviti vocal coach Lucia Cammalleri tecnica Isadora Giuntini conversazioni Paola Granato, Carlo Lei, Paolo Ruffini, Mirko Stagnaro management Giulia Vanni amministrazione Cesare Benedetti social Elisa Faletti produzione Chiasma coproduzione Oriente Occidente con il sostegno di Lavanderia a Vapore, Teatro della Tosse, Marche Teatro, Teatro Stabile dell’Umbria, La MaMa Umbria, ATCL_Circuito multidisciplinare del Lazio con il contributo di MiC – Ministero della cultura e Regione Lazio

#ASSISI

ACCUSA ALLA LUCE. ATTI DI TEATRO CORALE CONTRO L’OBLIO (regia Samuele Chiovoloni)

Malgrado disti appena qualche chilometro dalla città, l’abbazia di San Benedetto al Subasio è sconosciuta a tanti assisani. Il festival OAOP – in accordo con la vocazione che da anni lo orienta – la ha eletta luogo della performance in cinque atti Accusa alla luce. Si tratta di un’inchiesta poetica sulle “ragioni dell’ombra”, su ciò che, nella storia del pensiero, rischia di rimanere silente, o di trovare udienza attraverso un medium che, fatalmente, lo dissolve. La grazia, per Simone Weil, può offrirsi a noi soltanto come «una notte oscura». Franco Fortini, suo traduttore italiano, insiste sugli «interdetti della memoria», e l’insistenza è qui uno sforzo etico, uno strumento di giustizia restitutiva nei confronti di ciò che la storia tende a cancellare. Eppure non si tratta di illuminare, ma di padroneggiare (o di istituire) i linguaggi dell’ombra. Chi partecipa agli atti corali è convocato su di un piano del pensiero e del sentire che, fuori da ogni escatologia, pretende l’ardore, e la disponibilità a uno slancio affermativo. La fiducia radicale di Aldo Capitini che il diaframma che separa vivi e morti sia labile, poroso e, infine, arbitrario. E lo stesso vale – è fatto valere – per le tante soglie (e conseguenti dualità) che imprigionano la cognizione: visibile-invisibile, memoria-oblio, salvati-sommersi, pratica-pensiero. I luoghi sono, al contrario, sempre disponibili al viaggio, e alla festa. Sui gradoni erbosi, nella cripta, nello spazio nudo della navata, si dispiega la coralità: la danza evoca uno spasmo creaturale, forse un punto di rottura, al canto sembra essere affidata la grazia di uno scioglimento (quale è il cuore dell’identità occidentale, in questi tempi di grande dolore?). Tutti gli interpreti si muovono con precisione e con forza, onorando un ascolto vicendevole che accoglie senza riserve il pubblico, quasi lo assorbe nelle tensioni di un corpo unico. Occorre portare in dote il proprio coraggio per ottenere, contro ogni buon senso, la gioia. E occorre porre al centro il gioco per costruire un discorso collettivo. Per immaginare – trasognare – una società, per piccola che sia, capace di mettere sul tavolo, con rigore, le domande ultime.

Visto all’Abbazia di San Benedetto al Subasio, Assisi | Ogni angolo ogni pietra 2025 – Crediti: con Michele Nani, Sara Marini, Paolo Rosini, Giulia Spattini e con la Compagnia del Piccolo Teatro degli Instabili composta da Peter Bartlett, Lucia Betti, Marta Carloni, Mascia Esposito, Giordano Gattolin, Rita Gratani, Francesca Leila, Ludovico Marcucci, Daria Virginia Massi, Annalaura Matarangolo, Laura Pannacci, Valeria Piccioni, Damiano Rocco, Alessandro Sposini, Alice Zingaretti; ideato e prodotto da Piccolo Teatro degli Instabili; direzione artistica e organizzazione Fulvia Angeletti; regia e drammaturgia Samuele Chiovoloni;

#SOVERATO

THAT’S TWISTED (di Baptiste Cazaux)

È un nuovo festival ma già nella sede sua più giusta: a Soverato, sul mare ionico, IRA (già acronimo, ora sostantivo che allude alla presente necessità di reazione anche con uno dei sette vizî capitali) si propone in mille spazî di questa cittadina calabrese che altrimenti non sarebbero visibili, dilagando con la performance come una pacifica (nonmeno inquieta) occupazione del tempo del mare. L’ultimo dei quattro giorni di programmazione curata da Settimio Pisano, ha proposto alcune performance di vero interesse, credo legate da un possibile filo rosso (poi dipanato in modi diversi): quello del disincanto. Ad esempio That’s twisted, un assolo del giovane danzatore francese, ma residente a Ginevra, Baptiste Cazaux, è una reazione al furto di futuro di questa generazione. La performance combina memorie di musiche pop d’infanzia e una gestica da social ma il tutto frullato in una psichedelica nostalgia («nuda malinconia» la chiama), in una temporalità che però non riesce mai regressiva. A muso duro, e come rannuvolato (lui si vorrebbe ‘dissociato’ come «una modalità di resistenza»), Cazaux attraversa più volte lo spazio, il piccolo auditorium dell’Istituto Santa Maria Ausiliatrice di Soverato, sventolando magliette e intonando nel corpo sequenze di movimento (spesso di spalle) che spaziano dalla street dance ai balli di sala, su sostenuti bordoni musicali di Nelson Schaub (anch’egli in proprio performer multimediale). Una frenesia ma intermittente, che anche scruta e osserva prima di ogni ripartenza: una continua distorsione dei materiali per ricomporre i frammenti del presente nell’accadere del tempo (e mi sembrerebbe senza inutili rivendicazioni di essere qualcosa o qualcos’altro, solo il momento di accadere, di divenire realtà al di fuori di ogni cattura del memorabile). In mezzo al pubblico anche alcune suore, le ospitanti di casa convenute però solerti e plaudenti, pronte a dire anche la loro: ed è tutta una meraviglia sulla esemplare umanità di tanto danzare, su come il divino parli attraverso l’arte, nell’evidente bellezza nei corpi dei performer di tutto il creato. (Stefano Tomassini)

Istituto Santa Maria Ausiliatrice, Ira festival Coreografia e performance: Baptiste Cazaux Musica: Nelson Schaub Drammaturgia: Johanna Hilari Occhio esterno: Samir Kennedy Orecchio esterno: Sandar Tun Tun Luci: Justine Bouillet Suono: Gaspard Perdrisat Produzione, amministrazione e distribuzione per il circuito svizzero: Yamina Pilli – oh la la performing art production Distribuzione internazionale: Quentin Legrand – Rue Branly Produzione: HONEYHONEYDANCEDANCE Coproduzione: Pavillon ADC – association pour la danse contemporaine (Ginevra), Kaserne (Basilea) Spettacolo creato nella cornice del programma (AC)COMPAGNONS della Pavillon ADC con il sostegno della Fondazione Leenards That’s twisted è realizzato con il sostegno di RESO – fondi di programmazione 2025

NULLA DIES SINE LINEA (di Roberta Racis)

Con il bellissimo titolo, Nulla dies sine linea (‘nessun giorno senza linea’, ossia mai vera pratica senza esercizio e disciplina: è detto proverbiale riferito al pittore Apelle, riportato da Plinio il Vecchio), Roberta Racis anticipa nella sua pratica di whipcracking (schiocco di frusta acrobatica, a cui si è allenata grazie all’artista Mordjane Mira) il suo prossimo progetto di creazione. «Lo schiocco che una frusta produce ha a che fare con un rilascio di energia immagazzinata a una velocità superiore a quella del suono»: così nel descrittivo di presentazione della performance, ma c’è molto di più. In un largo cortile nei piani alti dell’Istituto Don Bosco (in questa pendice collinare che è Soverato, spesso per scendere occorre salire), la performer con tanto di frusta nera (ogni serio praticante deve farsi costruire la propria, il colore e la lunghezza per esempio non sono proprio dettagli secondarî, come riferito durante il bell’incontro bordo-mare della mattina, con l’ottima Gaia Clotilde Chernetich), e occupa un largo quadrato bianco segnando ghirigori nell’aria, con misura e imperio, la propria presenza. Di fatto liberando nella tridimensionalità della performance tutto un immaginario di sottomissione, e dominio, e punizione che la frusta porta con sé. E riaffermando in termini espressivi «quella potenza femminile che la cultura patriarcale reprime e regola». Ma questo piccolo sonic boom (ripetuto e confermato, quindi aumentato, per tutto il tempo) produce anche una naturale spazializzazione del suono, in una alternanza di tonalità che è prodotta dalla distanza del cracking. Questi primi tentativi compositivi di Racis sono già tutti nel corpo (spostamenti e piegamenti in un carnevale di spirali), non decorativi né illustrativi. Vi è anche una forma di disincanto, perché quanto visto finora è tutto rivolto a «riflettere sul subitaneo e sullʼimpeto», senza gli imperativi dell’autocontrollo e del dominio, anche qui non in modo regressivo ma generativo di pulsione, incontenibile e (come per il desiderio) senza alcuna coercizione. (Stefano Tomassini)

Istituto Santa Maria Ausiliatrice, Ira festival Progetto, coreografia, danza: Roberta Racis Insegnante di Whipcracking : Mordjane Mira Fruste: Silverwhips\ Sylvia Rosat Musica e vocal coaching : Alessandra Diodati Luci: Mattia Bagnoli Foto: Fabio Artese Produzione: Fuorimargine – Centro di Produzione di Danza e Arti Performative della Sardegna Con il sostegno di: Ira Institute, Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), IntercettAzioni-Centro di Residenza Artistica della Lombardia\Teatro delle Moire

CANI LUNARI (di Francesco Marilungo)

Il terzo incomodo è stato il sesto. E non è solo questione di numeri. Per Cani lunari di Francesco Marilungo che ha debuttato a IRA Festival di Soverato (Cz), le cinque interpreti (Barbara Novati, Roberta Racis, Alice Raffaelli, Francesca Linnea Ugolini e la cantante e performer Vera Di Lecce) hanno fatto continuamente i conti con questa sesta incombente ed esigente presenza: il vento. Nello spazio aperto dell’Anfiteatro, a ridosso del mare e raggiunti in lontananza da luci e da suoni molesti della movida di questa parte della costa ionica, il «sabba bianco» voluto da Marilungo, una sorta di tregenda arcaica di streghe estatiche e svagate anche molto divertite perché poco disponibili a essere catturate dalla morsa del simbolico, è stato continuamente violato, forse profanato, di certo contaminato da sostenute raffiche d’aria. Queste hanno sì alterato il corso e l’atmosfera previste dal disegno della performance, ma in fondo hanno creato anche immagini alternative, spostato situazioni e spinto ulteriori nuovi effetti. Il gioco dell’impermanente. Un gran bel pandemonio, completato da altrettanti corvi imbalsamati, che «simboleggiano spiriti guida e anime della soglia», prima adagiati sconfitti a terra, poi tenuti in mano dalle performer, nuovamente svolazzanti tra le folate del vento. Anche il lancio propiziante di piume si è trasformato in un bel carnevale del caos. Marilungo è artista assai studioso, pervicace nell’indagare la ritualità come epifania di un altrove, il disordine come ferita che risana, la baraonda come esperienza dell’alterità radicale capace di sospendere gli orrori del tempo quotidiano (soprattutto l’incombenza della fine, il compianto per chi non è più). Ciò che forse ha funzionato meno è stato il ductus coreografico: alcune facili immagini corali, organizzate con disinvolta estraniazione, hanno reso semplice il macchinoso più intrigante di ogni metamorfosi. Vi è però in questi corpi anche una modalità assai esposta, sono spesso scoperti e alla fine spogliati, modalità coraggiosa perché piena sempre di cura e di garbo che è davvero difficile (oltreché un peccato) intendere altrimenti. (Stefano Tomassini)

Visto all’Anfiteatro di Sovereto, IRA Festival, Coreografia e Regia: Francesco Marilungo, con: Vera Di Lecce, Barbara Novati, Roberta Racis, Alice Raffaelli, Francesca Linnea Ugolini, Costumi: Lessico Familiare, Musica e Vocal Coaching: Vera Di Lecce, Disegno Luci: Gianni Staropoli, Foto e Video: Luca Del Pia, Produzione: Körper | Centro Nazionale di Produzione della Danza, Coproduzione: SNAPORAZVEREIN, IRA Institute.

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