HomeComunicatiPer un teatro pubblico. L'appello di Massimiliano Civica e del Teatro Metastasio

Per un teatro pubblico. L’appello di Massimiliano Civica e del Teatro Metastasio

In occasione della conferenza stampa di presentazione della nuova stagione del Teatro Metastasio il direttore Massimiliano Civica ha letto un documento – pubblicato poi anche sul proprio profilo Facebook – che riflette sul ruolo del teatro pubblico alla luce del nuovo decreto ministeriale sui finanziamenti allo spettacolo dal vivo (ne parlavamo anche in questa intervista). Di seguito il testo del documento.

UN TEATRO PUBBLICO COMMERCIALE?

Il nuovo decreto ministeriale entrato in vigore quest’anno introduce due rilevanti novità per la vita dei teatri pubblici:

  1. i teatri che ricevono finanziamenti pubblici da parte dello Stato non hanno più l’obbligo di proporre un’offerta di spettacoli di alta qualità e improntati al rischio artistico;

  2. l’inserimento, tra i criteri di valutazione del lavoro svolto da un teatro pubblico, della “congruità gestionale”, criterio valutativo che si articola in due parametri: il rapporto tra il costo totale dell’attività e il numero di spettatori; il rapporto tra gli incassi totali dell’attività e il numero di spettatori.

La prima novità permette ai teatri pubblici di fare spettacoli “commerciali”; la seconda novità – assegnando un finanziamento maggiore a quei teatri che, a bilancio consuntivo, avranno avuto il valore della “congruità gestionale” più positivo – sembrerebbe di fatto obbligare i teatri a fare spettacoli “commerciali”.

Spendere poco e incassare tanto, questo è il problema!

Entriamo un po’ più nel merito della questione, immaginando che tipo di spettacoli dovrebbe fare un teatro pubblico per essere premiato dal Ministero, qualora il valore della “congruità gestionale” venisse interpretato nei termini di una più stretta osservanza di stampo manageriale del rapporto positivo tra costi e ricavi.

I due parametri della “congruità gestionale” combinati insieme (semplificando un po’ ma andando all’essenza del principio) sembrano chiedere ai teatri di produrre e ospitare spettacoli che costino poco e incassino molto, in relazione al numero di biglietti venduti.

Che modi abbiamo per spendere poco per produrre uno spettacolo?

Si abbassano le paghe degli artisti, delle artiste e del personale tecnico, si diminuiscono i giorni di prova, si risparmia su scenografie, costumi e luci. Si aprirà un’asta al ribasso tra i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo di ogni ambito e settore (tra chi recita, chi fa scene, costumi, luci, chi scrive il testo): chi si vende al minor prezzo otterrà “la parte”. Mi dispiace, mors tua vita mea.

Che modi abbiamo per incassare tanto con uno spettacolo?

Si alzano i costi degli abbonamenti e dei biglietti. Per portare a teatro tanti spettatori disposti a pagare, diciamo così per dire, 50 euro a biglietto, bisognerà avere “nomi di richiamo”. E oggi in Italia i “nomi di richiamo” per il grande pubblico sono i personaggi televisivi, gli influencer, i protagonisti del web.

La formula vincente – visto che, oltre ad incassare molto, dobbiamo anche spendere poco – sarà quella del recital, del personaggio famoso solo sul palco. Ma la stagione di un teatro non può essere fatta solo di monologhi, quindi un’altra formula vincente potrebbe essere il personaggio famoso che recita l’Avaro di Molière, affiancato da giovani attori e attrici per i ruoli di contorno (con la paga da allievi attori, così risparmiamo). Si potrà rinunciare allo spettacolo imperniato sul personaggio famoso a favore di un gruppo di attori e attrici sconosciuti (con la paga minima sindacale) solo a patto che, fin dal titolo, lo spettacolo prometta un allegro e sfrenato divertimento.

E non c’è assolutamente niente di male in tutto questo, anzi. Ognuno di noi ha il diritto e il bisogno di passare una spensierata serata tra amici a teatro, in allegria e leggerezza. E ogni cittadino e cittadina ha il diritto di spendere i propri soldi come più gli aggrada. Quindi dov’è il problema?

I CONTI NON TORNANO

Sembrerebbe in apparenza che il nuovo decreto ministeriale miri ad abolire le differenze tra il teatro pubblico e il teatro commerciale e a trasformare, nel medio e lungo periodo, i teatri pubblici in teatri commerciali.

Perché tutto questo? Non c’è assolutamente nulla di male nel concetto del Teatro Commerciale che mira al profitto, ma in Italia ci sono già teatri commerciali che fanno egregiamente il loro lavoro. Tra l’altro, molti di questi teatri e molte compagnie commerciali hanno fatto domanda quest’anno per ricevere anche loro il finanziamento pubblico visto che, appunto, col nuovo decreto la loro attività mirante al profitto rientra perfettamente in quelle finanziabili dallo Stato. Entreranno dunque in competizione con i teatri pubblici esistenti per l’ottenimento dei soldi dello Stato.

Ma teatri pubblici e teatri commerciali non dovrebbero essere in competizione o peggio in alternativa: avendo idealmente finalità diverse, potrebbero convivere tranquillamente. Infatti mentre il teatro commerciale mira al profitto, e ha quindi tutto il diritto di proporre una tipologia di offerta che lo aiuti a realizzare il suo scopo, il teatro pubblico svolge la funzione di rendere accessibile la cultura alla fascia più ampia possibile della popolazione, offrendo occasione di conoscenza, scambio di idee, riflessione, divertimento ed emozione attraverso spettacoli di alta qualità e rischio artistico a “prezzi calmierati”. Per questo, a differenza dei teatri commerciali (fino in apparenza al presente decreto), riceve un finanziamento pubblico. Fino ad oggi ognuno è libero di scegliere di andare in un teatro pubblico o in un teatro commerciale (o in tutte e due, a seconda delle voglie della serata). Dunque, lunga vita ai teatri commerciali! Ma che vivano anche i teatri pubblici! Perché invece impoverire il ventaglio dell’offerta a disposizione della popolazione cancellando il teatro pubblico e obbligandolo a trasformarsi in teatro commerciale?

Il servizio pubblico è uno spreco di soldi

Perché, ormai da decenni, è in atto una dismissione del servizio pubblico. I teatri pubblici “non rendono”, non “fanno profitto”, sono solo costi senza tornaconto economico. Alla sanità pubblica e all’istruzione pubblica l’altro ieri, e al cinema d’arte ieri, sono state già mosse queste accuse. Oggi tocca al teatro.

È in atto un processo di smantellamento del servizio pubblico al grido di “i conti non tornano”. Ai primari degli ospedali, ai rettori delle università e ai presidi delle scuole è stato già chiesto di trasformarsi in manager: bisogna limitare le spese, ottenere risultati, premiare il merito, ovvero ciò che testimoni “un’efficiente gestione” delle economie. Per gli ospedali: più visite fa un dottore al giorno meglio è; meno analisi costose si prescrivono meglio è; è proprio necessario spendere soldi in cure per un anziano con aspettativa di vita breve? Per l’istruzione pubblica: non si può accogliere tutti, quindi via al numero chiuso di accesso alle facoltà: che studino quelli che partono avvantaggiati e sono già bravi; un rettore e un preside dimostrano di avere una gestione efficiente più laureano e diplomano studenti con voti alti, quindi inutile perdere tempo con chi è un po’ indietro o è lento; i professori vengono premiati più dimostrano di essere in linea con le tempistiche del programma: perciò uno studente lento, o con esigenze specifiche di apprendimento, è un ostacolo alla carriera.

Sempre meno soldi vengono destinati dunque al servizio pubblico, perché sono soldi sprecati. All’ospedale ti hanno dato l’appuntamento per la tac tra otto mesi? Rivolgiti a una clinica privata. Tuo figlio merita l’istruzione migliore possibile? Iscrivilo in una scuola privata. Non ha passato il test di ammissione all’Università? Iscrivilo ad un’Università privata, con la possibilità di usufruire di master di altissimo e costosissimo livello. Tuo figlio ha difficoltà di apprendimento? Pagagli le ripetizioni. Tuo figlio ha una disabilità fisica o mentale? Pagagli di tasca tua gli insegnanti di sostegno e gli psicologi. Vuoi andare a teatro? È un bene voluttuario, paga un biglietto salato. Studi, si curi, si diverta chi può (permetterselo).

I CONTI NON DEVONO TORNARE

Secondo gli antropologi, l’umanità è nata quando le tribù nomadi hanno smesso di abbandonare i vecchi al loro destino. Un anziano è un peso per la tribù: è lento, non è più in grado di cacciare, mangia e non produce, è solo un costo. Perché portarselo dietro? Meglio abbandonarlo e lasciarlo solo a morire, seguendo la legge di natura della sopravvivenza del più forte. Il problema è che l’umanità si definisce contro le leggi di natura, contro le leggi della sopravvivenza del più forte, contro la legge del profitto economico della “efficienza gestionale”. È umano avere compassione, accogliere tutti, difendere i deboli, i malati, i “lenti”, perché tutti contribuiscono alla crescita di tutti, ognuno secondo le sue possibilità. È uno spreco farsi carico dei vecchi, ma è ciò che ci rende umani: l’umanità è in perdita economica. Economicamente non ha alcun senso fare in modo che la città, le sue strade, i suoi edifici e i suoi marciapiedi siano fruibili da chi è in sedia a rotelle. I cittadini in sedia a rotelle sono meno dell’1% della popolazione di una città: perché sprecare tanti soldi per così pochi “utenti”? Perché di umanità si tratta.

Perché in più poi spendere soldi pubblici per i musei, le biblioteche, le sale da concerto, i teatri? Perché la gioia e lo struggimento che danno un quadro, una poesia, una sonata e uno spettacolo sono emozioni di cui devono poter godere tutti.

In cerchio intorno al fuoco

La notte, intorno al fuoco, si riunisce tutta la tribù: vecchi, bambini, donne, malati. E l’anziano inizia a raccontare una storia, narra dei tempi passati, spiega un antico mito. Tutti lo ascoltano, i bimbi fanno domande, la comunità si ritrova tutta insieme, a cantare e raccontare l’uomo. Un tempo passato insieme, gratis, senza dover “far profitto”. Perché con le storie, i racconti, la cultura, il teatro non si mangia, ma si nutre l’anima.

IN COMPAGNIA

Abbiamo deciso di intitolare la nostra nuova stagione IN COMPAGNIA.

Fiduciosi che “la congruità gestionale” introdotta dal decreto sia stata concepita non per cancellare l’idea stessa e la funzione del teatro pubblico, ma come un parametro di buon senso per evitare gli sprechi, continueremo a svolgere e intendere il nostro lavoro come un servizio pubblico.

Crediamo nel teatro pubblico e continueremo a farlo. Vogliamo rimanere in compagnia di e con tutti voi. E per questo:

  1. Non alzeremo i prezzi dei biglietti, che resteranno tra i più bassi di tutti i teatri italiani. Non vogliamo escludere nessuno, non vogliamo selezionare il nostro pubblico sulla base del censo: riceviamo soldi pubblici, quindi i nostri spettacoli devono essere accessibili a tutti. Negli scorsi anni abbiamo cercato di fare in modo, grazie alla nostra politica dei prezzi, che a teatro potesse venire quanta più gente possibile. E che potessero venire a teatro anche cittadine e cittadini in condizioni economiche non molto agiate o in situazioni di vita complesse: grazie a biglietti speciali estremamente convenienti sono venuti ai nostri spettacoli operai in cassa integrazione, migranti senza fissa dimora, giovani di famiglie a basso reddito, studenti italiani e stranieri delle scuole secondarie e dell’università, anziani e anziane dei centri diurni, tossicodipendenti delle comunità di recupero ecc. Abbiamo cercato di fare del nostro meglio, ma possiamo e dobbiamo provare a fare di più. Dal punto di vista della “congruità gestionale” questa politica dei prezzi il più possibile popolari rischia di essere intesa come uno spreco di soldi. Ma siamo persuasi invece che siano soldi pubblici spesi bene: l’accesso alla cultura, alla crescita umana, civile e sociale di tutte le cittadine e i cittadini è garantito per legge dal, bellissimo, Articolo 3 della Costituzione italiana. Come ente pubblico abbiamo l’obbligo di conformarci alla legge.

  2. Continueremo a produrre spettacoli di alta qualità e rischio culturale: per chi lo desidera, l’offerta di intrattenimento leggero è già ampia e largamente disponibile in tv, nei teatri commerciali, grazie ai video sui social e sul web e grazie alle piattaforme streaming. Non crediamo quindi ci sia bisogno di trasformare i teatri pubblici in teatri commerciali. Crediamo invece che un teatro pubblico (sempre con i mezzi che gli sono propri, cioè l’emozione e il divertimento) debba proporre spettacoli che provino a metterci davanti a uno specchio, per farci interrogare su noi stessi e sul mondo in cui viviamo. Anche in questo caso, non facciamo altro che conformare il nostro operato ad un altro bellissimo articolo della Costituzione italiana: l’Articolo 9.

  3. Continueremo a produrre artiste e artisti secondo noi capaci di trovare le parole per raccontare il presente, di proporci visioni illuminanti, di condividere con noi le ansie, le gioie, le stramberie dell’umanità. Sceglieremo dunque sempre e soltanto artiste e artisti, a nostro fallibilissimo giudizio, di valore e “parlanti”, al di là del loro essere o meno famosi. E continueremo a sostenere le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo al massimo delle nostre possibilità, ad esempio, dando 50 giorni di prova per l’allestimento dei loro spettacoli.

Siete tutte e tutti benvenuti e benvenute nel nostro teatro, per stare tutti insieme IN COMPAGNIA

Leggi anche Pericoli e opportunità del Decreto Ministeriale. Intervista a Franco D’Ippolito

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