Riscrivendo e reinterpretando l’epica omerica del ciclo troiano, Pier Lorenzo Pisano presenta in prima assoluta Semidei, una produzione del Piccolo Teatro di Milano. Lo spettacolo, di cui è autore e regista, offre la visione sconcertante di uno scarto, tra ciò che c’è prima e ciò che resta dopo la guerra.

Era maggio 2021 quando un articolo su Rivista Studio aveva evidenziato una problematicità che non passava inosservata per chi, in quei giorni di conflitto e costante alta tensione israelo-palestinese, voleva documentarsi sullo stato attuale della Striscia di Gaza: su Google Earth immagini satellitari e mappe cartografiche live di Gaza e Israele apparivano sfocate. “L’immagine più recente e più a fuoco delle zone risale al 2016 su Google Earth, mentre su Google Maps usando Streetview appaiono immagini risalenti al 2014”, spiegava l’articolo. Il motivo risaliva alla restrizione stabilita dall’emendamento Kyl-Bingaman (KBA) del 1997, che limitava la risoluzione delle immagini di quei territori per motivi di sicurezza israeliana. Una limitazione applicata anche ai Territori palestinesi, per via degli accordi tra Stati Uniti e Israele, in seguito abbandonata – anche se mai del tutto – dal governo americano sotto le crescenti pressioni del 2020 (https://www.rivistastudio.com/google-earth-gaza/). È fine gennaio quando cominciano a circolare massivamente sui social le fotografie delle conseguenze catastrofiche della guerra a Gaza, un paesaggio di circa 360 chilometri quadrati completamente bombardato e ridotto a brandelli e macerie. Qualche settimana dopo, verso metà febbraio, sempre Rivista Studio pubblica un articolo che comunica l’aggiornamento da parte di Google Earth e Google Maps delle immagini relative alla Striscia, dopo oltre un anno dall’inizio del conflitto. Le nuove foto satellitari, che risalgono tuttavia soltanto a ottobre e novembre 2023, e non a febbraio 2025 (“Il fatto che su Google Earth e Maps le immagini più recenti della Striscia di Gaza risalgano a un anno fa, lo sa solo Google”.https://www.rivistastudio.com/google-maps-immagini-gaza/), vengono messe a confronto con quelle antecedenti al conflitto israelo-palestinese e cominciano a diffondersi senza tregua sul web, per far vedere a chi la guerra l’ha assistita solo dal telefonino l’irriconoscibilità del territorio a causa delle ampie devastazioni.
Questo carosello di frame contrastanti ci interroga su un “prima” ma anche e soprattutto un “dopo”, che sappiamo essere mai completo, mai integrale, perché sempre e solo filtrato da ciò che ci è concesso di vedere. E se l’arte, in questo contesto, potesse essere invece lo strumento per riappropriarsi di una prospettiva più legittima, del diritto a vedere, tutto, senza sconti o manipolazioni? Pier Lorenzo Pisano riporta queste riflessioni all’interno della dimensione teatrale, presentando in prima assoluta, paradossalmente proprio in quei giorni di fuga incessante di immagini, il suo ultimo lavoro Semidei, andato in scena al Piccolo Teatro Studio Melato, concedendo al suo spettatore la visione di uno scarto: quella di un mondo che non esiste più, di un paese segnato dalla distruzione, di cui ammiriamo inermi i resti, di cui percepiamo tutto il dolore. Seppur il testo sia stato elaborato negli anni antecedenti alla pandemia, alla guerra in Ucraina e al conflitto nella Striscia di Gaza, esso affonda le radici nella Storia umana dei conflitti, quella tramandata oralmente dai poemi omerici e reiterata da testi secondari, dimostrando ancora oggi la propria rilevanza e attualità. Nel rileggere ciò che la tradizione ci ha consegnato, l’autore e regista ha perciò operato una scelta, quella di dividere la pièce in due fasi, pre e post belliche, e di incidere così una cesura netta, tagliente, non soltanto nei contenuti, ma soprattutto nel linguaggio teatrale adottato, andando a insistere su una non-conformità dello stile drammaturgico e scenografico tra le diverse temporalità del conflitto e rinunciando all’acme dello scontro. Il sacrificio del sensazionalismo spettacolarizzante, quello che attrae e respinge ogni individuo che è spettatore della guerra, permette però di assistere allo spostamento di focus: non si tratta più dell’atrocità dello scontro – inenarrabile, irrappresentabile – ma del vuoto viscerale e improvviso che quello scontro provoca, della perdita.

Il “prima” inizia con la calda estate. Un sottile velo di sabbia cade lentamente, piove giù dall’alto soffitto attraversato da un fascio di luce, rievocando un’enorme clessidra dentro cui sembrano scorrere imperterrite le vicende umane. Senza accumularsi mai davvero, la sabbia si dissolve scivolando via dal centro per riapparire poi finissima in secondo piano. Qui, la luce brillante di Manuel Frenda, ne modella dolcemente le forme e ne illumina i granelli dorati che si rivelano i punti di luce dell’intera scenografia, alternati dai cromatismi vivi di oggetti di svago, palette, secchielli, ombrelloni o larghi teli da mare. Al centro della scena, curata con particolarità da Giuseppe Stellato, è la grande piattaforma, la spiaggia, luogo idillico dell’infanzia, punto di incontro e di partenza dei nostri sempiterni eroi, che si dilettano in questo paesaggio desertico nell’attesa che l’arma li richiami e conducendo le proprie attività quotidiane in attillati costumini da bagno e ciabattine da scoglio. È questa, nello sguardo registico di Pisano, un’ode al divertissement, all’ironia che li vede rimpiccioliti rispetto alla loro incredibile fama, che se da una parte richiama l’atmosfera di svago di Sun & Sea (Marina), l’installazione-performance ideata da Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė per il Padiglione Lituania alla Biennale Arte 2019, allora vincitore del Leone d’Oro, dall’altra evoca, come l’installazione stessa, un atteso presagio di catastrofe.

Calati in una dimensione umoristicamente capricciosa, più tipica nella narrazione tradizionale degli dèi che dei mortali, i personaggi di Pisano – interpretati da un valido cast di attori in grado di assumerne fedelmente tutti i vizi – si preparano ora all’imminente guerra: Achille piagnucola con la madre Teti – una divinità dall’alto portamento ma vestita di materassini, braccioli e ciambelle gonfiabili – rimproverandola di essersi dimenticata di quel suo povero tallone nella magica immersione per l’immortalità; mentre le coppie avversarie in battaglia, ma complementari nei sentimenti, di Ulisse/Penelope, Ettore/Andromaca vezzeggiano i figli, consapevoli di non poterli veder crescere, e intonano dolci ninnananne che si rivelano infine atroci canti funebri; la coppia di fratelli Agamennone/Menelao ritorna invece al ricordo di un’infanzia perduta, riaffermando una rivalità mai dimenticata. Pisano alterna i dialoghi di questi eroi punzecchiandoli con ironici epiteti e portando all’estremo la descrizione delle loro caratteristiche latenti nel mito. Il nuovo topos, così, se da una parte s’impadronisce e sostituisce al vecchio tramandato, dall’altra reca con sé la traccia originaria (un Agamennone maschera dorata, spaccatore di castelli sulla sabbia, un Menelao, identità in sottrazione, lenta perdita di unghie e di capelli, una Teti dea dell’acqua, dea in ammollo).
All’interno di questa riscrittura, si inseriscono anche i battibecchi del concilio degli dei, capeggiati da uno Zeus di vesti dorate che siede troneggiante sul suo seggiolone e che mal sopporta il chiacchiericcio fastidioso della sua linea parentale. Il suo è un Olimpo svuotato, elaborato attraverso una visione per sottrazione, perché ridotto a ombre, voci, strilli e maschere, incapace di credere fino in fondo nel genere umano.

Il “dopo” arriva improvvisamente, capovolgendo drasticamente la percezione della messa in scena. Alla luce si sostituisce l’ombra, all’atmosfera calda il freddo, all’ironia spietata l’aulicità del dramma. Le armature si popolano di morte, delle vite che non ci sono più, dei resti spogli di ciò che le circonda. Tutto scolora, in questa nuova scenografia, e si tinge di un senso profondissimo di perdita, evocato nelle sonorità dalle voci femminili del mito: se Ecuba e Cassandra, madre e figlia sulle spoglie di un luogo che non esiste più, tornano al dolce ricordo della giovinezza, Andromaca rovista tra i cumuli di corpi “le manine, le fossette”, del proprio piccolo amore. Non c’è sconto alcuno in questa seconda parte della drammaturgia, che si costruisce di frasi sempre più spezzate e dure, di immagini crude non solo evocate dal testo ma anche proiettate sullo sfondo, che si rivelano violente nel loro apparire (come il dettaglio dell’anfora in cui Neottolemo uccide Priamo brandendo un corpo morto come arma). Eppure, ai personaggi femminili è lasciato il compito di sollevare i quesiti più importanti, che vanno a mettere in discussione le certezze dell’uomo, per una guerra che “non può essere per amore di una donna, è troppo” (come afferma Ecuba a Menelao). Senza l’aggiunta di espliciti rimandi agli attuali conflitti mondiali, il testo parla di oggi e ne parlava compiutamente già 5 anni fa. Pisano rimane dunque ancorato alle radici dell’epica omerica, alla genealogia del classico che tenta di parlare sempre e comunque alle generazioni di tutti i tempi, e lo fa creando una bolla di sospensione sulla contemporaneità – un’astrazione, o meglio una distrazione, rispetto alle news sul reale che appare voluta, che inganna lo spettatore perché poi al reale sempre ritorna, ma che poteva essere maggiormente esplicitata nelle intenzioni della regia – con una cifra che gioca e insiste sul paradosso, dimostrando una capacità personalissima di trattare una materia antica, di reinterpretare il contenuto del mito.
L’epilogo ci rivela che dopo la guerra non resta più nulla, solo il silenzio, e la potenza vivida di un ricordo oscurato: Achille e Teti, a rincorrersi sotto il primo sole, a rincorrersi sulla spiaggia, un bambino macchiato della colpa e una madre che ne conosce il destino, in un’eterna estate che ha già il sapore amaro della fine.
* L’installazione trasformava un antico magazzino navale dell’Arsenale in una vera e propria spiaggia artificiale, coperta di sabbia e popolata da performer in costume da bagno. Il pubblico osservava la scena dall’alto, come se spiasse i vacanzieri dall’alto di una terrazza o una balconata. Ma dietro l’apparente leggerezza di questa giornata di sole si nascondeva una riflessione profonda e inquietante: i bagnanti cantavano un’opera lirica contemporanea, in cui le loro conversazioni casuali si mescolavano a preoccupazioni più grandi, come il cambiamento climatico, il turismo di massa e la crisi ambientale. Con toni a tratti ironici e surreali, i testi delle canzoni evocavano il declino del pianeta, contrapponendo la placida spensieratezza della scena balneare alla gravità delle tematiche affrontate.
Andrea Gardenghi
Semidei
PRIMA ASSOLUTA
scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano
scene Giuseppe Stellato
costumi Gianluca Sbicca
luci Manuel Frenda
assistente alla regia Flavio Capuzzo Dolcetta
assistente costumista Marta Solari
con la consulenza di Aliki Stenou, National Theatre of Greece
con Francesco Alberici, Marco Cacciola (6, 7 e 11-23 febbraio), Pierluigi Corallo, Michelangelo Dalisi (8 e 9 febbraio), Claudia Gambino, Pia Lanciotti, Caterina Sanvi, Eduardo Scarpetta
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa