Intervista a Roberto Abbati e Laura Cleri, interpreti dello storico spettacolo messo in scena da quattro decenni dal teatro due di Parma.
A Parma da quarant’anni si celebra la memoria dell’Olocausto con uno spettacolo di Fondazione Teatro Due, L’struttoria di Peter Weiss, uno fra i più longevi del teatro italiano, tappa cruciale della storia della scena del nostro paese. Dal 1984 L’Istruttoria con la regia di Gigi Dall’Aglio viene rappresentato senza interruzioni a Parma e nei maggiori teatri nazionali, oltre che al Festival de l’Union des Théâtres de l’Europe a Bucarest e all’Habimah National Theatre di Tel Aviv in Israele.
L’opera venne scritta da Peter Weiss nel ‘65 dopo aver assistito allo storico processo che si svolse a Francoforte dal 1963 al 1965 contro un gruppo di SS e di funzionari del lager di Auschwitz. Le 183 giornate del processo in cui vennero ascoltati 409 testimoni, 248 dei quali scelti tra i 1500 sopravvissuti, rappresentarono il primo tentativo da parte della Repubblica Federale Tedesca di far fronte alla questione delle responsabilità individuali, dirette, imputabili a esecutori di ogni grado attivi nei recinti del lager di Auschwitz.
Un giudice, un difensore, un procuratore, diciotto accusati e nove testimoni anonimi sono i personaggi di quest’opera in undici canti che, come un inferno laico e contemporaneo, trascende la rappresentazione del processo e acquista la liricità di una tragedia antica.
In occasione del quarantesimo anniversario de L’Istruttoria, che è stata celebrata a Parma con una programmazione fittissima da gennaio ad aprile, raggiungo al telefono Roberto Abbati e Laura Cleri, i due attori parte dell’ensemble Stabile di Teatro Due, che hanno visto nascere lo spettacolo e lo mettono in scena da quarant’anni.
Questo è uno spettacolo che va in scena da molto tempo, quanto rimane fedele alla versione dell’84 e quanto è cambiato confrontandosi intanto con un pubblico sempre più consapevole, non solo della tragedia dell’Olocausto ma che vive oggi alla luce del conflitto tra il popolo di Israele e la Palestina?
R.A. La forma è assolutamente, rigidamente, fedele alle origini ma, nonostante questo, L’Istruttoria è una creatura viva. Dato che la materia che tratta è collegata a quello che succede nel mondo, la Storia – in questi giorni in particolare – cambia! Cambia per noi che lo mettiamo in scena, cambia per il pubblico, cambia la tensione che c’è in sala ogni sera. È una creatura in movimento. Il testo di Weiss è stato concepito in un momento in cui dell’Olocausto non si sapeva tanto; lui l’ha scritto come una Divina Commedia in undici canti che nel tempo ha favorito la costruzione di una memoria collettiva sulla tragedia.
L.C. Già all’interno della compagnia ci sono stati dei cambiamenti, perché c’è stato un passaggio di ruolo tra di noi; qualcuno purtroppo ci ha lasciati, e così noi stessi siamo cambiati mentre crescevamo portandoci addosso questo spettacolo e i nostri ruoli. La nostra è stata come una presa di coscienza durata quarant’anni. Il pubblico poi è cambiato, io lo vedo soprattutto con i giovani: noi facciamo tante matinée per le scuole. Una volta si veniva a teatro e il teatro era pedagogico, oggi lo rimane ma i ragazzi vengono già molto preparati su ciò che andranno a vedere. É la società che ha maturato una memoria rispetto all’Olocausto e al conflitto. Si può dire che questi sono temi che fanno parte del discorso sociale, soprattutto attraverso i media. La Shoah fa parte della nostra cultura. Io stessa quando ho iniziato a fare lo spettacolo nell’84 ero una ventenne molto diversa dai ventenni di oggi, non posso dire di essere stata veramente pronta ad affrontare l’argomento. Non c’era, nella mia educazione, nel mio tessuto sociale, una consapevolezza tale della tragedia, né avevo gli strumenti che hanno oggi i più giovani.
Il testo di Weiss ha in sé una specialità: non può essere catartico in quanto concepito come la messa in scena di un documento storico. Nel volere dell’autore fino agli anni ‘70 si tendeva, nel metterlo in scena, a estremizzare i canoni del teatro brecktiano riducendo l’aspetto emotivo per fa emergere i fatti. In che modo la regia di Dall’Aglio ha lavorato su questo e si è distanziata dalle regie precedenti?
R.A. L’Istruttoria fa parte di quel filone che negli anni ‘70 era chiamato “teatro documento” e in cui l’informazione era di per sé teatro. Quando noi l’abbiamo ripreso, vent’anni anni dopo la nascita, abbiamo sentito la necessità di entrare nell’emotività delle cose accadute e dei personaggi, che sono poi delle persone reali. Ogni volta che entrano nuovi attori in compagnia, specie da quando Gigi ci ha lasciati (Gigi Dell’Aglio è venuto a mancare nel 2020 ndr.), io mi premuro di dire loro: pensate che voi non state interpretando dei personaggi di fantasia, le parole che pronunciate sono state realmente dette. Voi interpretate delle persone reali, che siano i carnefici o le vittime. Il garbo è la chiave che l’attore deve avere nell’approcciarsi a questi personaggi perché ripetere il rito e riaprire questa ferita davanti al pubblico è come restare nel purgatorio raccontando l’inferno. La struttura della Divina Commedia di Weiss che fa iniziare l’opera con l’invito a entrare e finisce chiedendo al pubblico di uscire non è salvifica. Quando si esce non si possono “rimiran le stelle” perchè il paradiso non c’è. Non c’è catarsi perché nella Storia non c’è soluzione. Se penso a quello che sta succedendo oggi tra Israele e Palestina resto sempre più convinto che il paradiso non ci sarà.
Per questo motivo è stata una scelta della regia di Gigi impedire l’applauso. Nel finale gli spettatori vengono invitati a lasciare la sala mentre in scena noi restiamo fermi e la musica procede. Il magone che si portano dentro se lo devono portare a casa e risolverlo in modo autonomo senza passare per l’applauso che è un gesto liberatorio.
Questo ha spesso provocato delle reazioni: dopo una delle primissime recite una signora che conoscevo si sfogò contro di me graffiandomi dopo che ero uscito anch’io perché profondamente frustrata dalla mancanza dell’applauso. Più di recente, dopo una replica che facemmo a Pisa, appena fuori il pubblico è rimasto nel foyer e ha cominciato ad applaudire, andando avanti per almeno sei minuti.
L.C. L’attore in quest’opera è al centro. C’è un lavoro molto importante della regia sull’emotività dell’attore perché quello che mette in scena è la verità, cruda e netta, di un fatto storico realmente accaduto. Quando noi ci siamo passati i ruoli, per esempio, ognuno di noi ha portato con sé una parte, un contributo. Questi non sono personaggi di shakespeariani. Sono uomini realmente esistiti e per noi, recitarli, è fare i conti con questa verità.
La città di Parma come accoglie il riallestimento di questo spettacolo che ha un ruolo fondamentale nella fondazione del Teatro Due?
R.A. Riprendiamo lo spettacolo ogni anno nel mese di gennaio a Parma e, quest’anno fino ad aprile. Dagli anni ‘80 abbiamo fatto almeno 400 repliche qui in città. Da un punto di vista numerico è un dato importante: pensa che in quarant’anni almeno trentamila giovani delle scuole medie e superiori hanno visto lo spettacolo. Significa che la classe dirigente di questa città ha partecipato a questo rito teatrale e che L’Istruttoria è parte della formazione di questi cittadini.
L.C. Il Teatro Due ha una struttura molto particolare, adattissima al nostro allestimento che prevede il passaggio del pubblico dai camerini per accedere alla sala. Quando l’opera va in altri teatri deve riadattarsi. Questa è una cosa molto interessante perché gli spettatori vengono da fuori per vederlo proprio a Parma. Il teatro infatti è sempre pieno, e la città di Parma continua a venire a teatro da generazioni.
Silvia Maiuri