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Nel corpo, la verità. Il teatro d’indagine di Giuliana Musso

Intervista. Dopo lo spettacolo visto al Teatro Piccolo Grassi di Milano, Dentro. Una storia vera, se volete, abbiamo raggiunto telefonicamente Giuliana Musso per condividere delle riflessioni e ripercorrere alcune tappe, poetiche e di vita, all’interno della sua carriera teatrale. Attrice, ricercatrice e autrice, Musso è tra le maggiori esponenti del teatro d’indagine; ha ricevuto il Premio della Critica nel 2005, il Premio Cassino Off nel 2017 e il Premio Hystrio nel 2017 per la drammaturgia.

Dentro. Ph Federico Sigillo

Com’è tornare a Milano con questo spettacolo presentato quattro anni fa in occasione della Biennale Teatro? Cosa pensi sia cambiato rispetto alla prima tournée?

Noi siamo già stati a Milano, in occasione del Festival Hystrio, e l’anno scorso al Teatro Carcano. Milano è sempre un ritorno, è una città che ha un pubblico molto attento, che sceglie cosa andare a vedere all’interno della programmazione, per cui sento molto che c’è una continuità nel rapporto che ho creato con questa città. Il mio lavoro, poi, tiene insieme vari argomenti e produzioni: da una parte c’è l’opera-spettacolo, dall’altra c’è un’opera che corrisponde al percorso che si fa nella vita e nel teatro. Molte persone entrano in contatto su questo livello, quindi con gli spettatori è come se avessimo dato vita ad una storia. Quando ho debuttato al Piccolo ho ricevuto un mazzo di fiori dal pubblico, che è lo stesso che mi segue dalla mia prima produzione Nati in casa. Nel mio modo di concepire la professione, è lui ad essere il perno principale, più che il sistema teatrale stesso.

Inizi come attrice ma come sei passata alla drammaturgia?

Un giorno il direttore di un festival mi ha chiesto se mi sentissi più attrice o autrice. Io gli risposi: “Sono un’attrice con un brutto carattere”. Fin da ragazza per me recitare non era solo eseguire una performance o giocare sul palco, era anche dire qualcosa, testimoniare qualcosa. Il cosa dico e il perché lo dico per me non era tanto separabile dalla dimensione della recitazione, perché ho sempre concepito il teatro come un’arte popolare. L’attore ha facoltà autorale di per sé, è in grado di improvvisare e di autodeterminarsi rispetto alla regia. Si tratta di un modo particolare di concepire la recitazione, ma partendo da questa idea il passo dalla recitazione alla drammaturgia è breve. Nati in casa, per esempio, è stato un incontro tramite Massimo Somaglino che ha scritto con me il testo. Da lì la strada si è aperta e non si è più potuta richiudere; quindi, parliamo di 23 anni di scrittura oltre che di palco.

La Fabbrica Dei Preti. Ph Luciano Paselli

I tuoi lavori offrono sempre un affondo conoscitivo su una vastità di argomenti, dalla psicologia, alla filosofia, alla sociologia. Come strutturi il lavoro di ricerca e raccolta materiali e come lo declini poi nella messa in opera?

La definizione del tema è la cosa più difficile in assoluto. Ha a che fare con un interrogativo forte, potente. La sua urgenza ti dà la forza di fare tutto il resto, ma se non c’è questa è meglio stare zitti e non fare. All’inizio mi sono dedicata alla scrittura di tre spettacoli collegati tra loro, che affrontavano temi fondamentali – nascita, sesso, morte – e che avevano dunque una particolare relazione con la vita intesa nella complessità dell’esperienza. Le tecniche di scrittura e le messe in scena erano quelle tipiche del teatro popolare: parliamo di narrazione, recitazione, di personaggi fuori dalla quarta parete, dell’uso importante della musica, del gioco di clown in sovrapposizione alla testimonianza, come in Sexmachine e Tanti saluti. Poi ho intrapreso un percorso di analisi della distruttività umana: perché c’è tutta questa violenza? Da questa domanda ho voluto portare avanti un’indagine sulle strutture della società della dominanza, un lavoro che passava attraverso la ricerca delle origini del patriarcato, quindi dal passaggio culturale tra società antiche matrifocali a patrifocali con una riscrittura per me molto importante, basata sulle conoscenze storiche antropologiche della Medea di Christa Wolf. Poi ho affrontato la gerarchizzazione dei sentimenti e dei bisogni affettivi primari dell’individuo con La fabbrica dei preti, il sacrificio dei figli, pilatro del sistema patriarcale, con Mio eroe. La scimmia si focalizzava sul tema dell’adattamento alla violenza, mentre Dentro va a toccare il tema del tabù e di ciò che non vogliamo sapere. Tutti questi spettacoli partono dal livello del soggetto, interessano l’ambito del fenomeno che ha a che fare con il sintomo. Il macrotema a monte che queste ricerche condividono è come una bussola per me. Ti faccio un esempio. Per parlare di guerra c’è bisogno di piangere. E chi può piangere? La figura della madre dolente, quella madre che non ha potuto parlare, che non ha diritto di parola ma di lacrime. Io a quella madre ho dato e voglio dare parola. È lei che mi dice che il figlio non è sacrificabile, e se il figlio non è sacrificabile la guerra non sta in piedi.

In un’intervista del 2022 sul Manifesto hai affermato infatti: “Nessun altro può parlare della guerra secondo me, qualsiasi discorso che non provenga da una zona di lacrime e pietà profonda, per me è inattendibile”. E le ferite invece?

Il dramma non è avere delle ferite, il dramma piuttosto è non riconoscere le ferite. Se non le riconosci puoi solo ripercorrere la catena del danno. Mentre se le riconosci dentro di te puoi riconoscerle negli altri. Attraverso la compassione e l’empatia puoi risanarle e rimetterti al mondo.  Io onoro la ferita, ma per ferita intendo la vita.

Mio Eroe. ph Luigi De Frenza

Coniughi indagine scientifica a indagine emotiva. Come trovi l’equilibrio da proporre in teatro?

Un impianto teorico che non include fortemente l’esperienza dei viventi in quanto tale è inutile. Io non sono una scienziata: se apro un saggio teorico e non trovo dentro il vivente lo butto via. L’altro giorno rileggevo un libro che studiavo anni fa sull’origine del linguaggio umano, basato sulle cure materne dei nostri progenitori. Si portava l’esempio di queste scimmiette che crescono con dei surrogati di madri, con dei fantocci di ferro e di pezza. Lo studio voleva dare prova di come queste scimmie fossero diventate da grandi delle madri inaffidabili, incapaci di cure materne. C’è stato bisogno di un esperimento scientifico per dirci ciò che nell’ambito dell’esperienza noi sappiamo benissimo. Perché la nostra esperienza vivente è così inattendibile per essere considerata valida? Il teatro invece mette già insieme queste dimensioni, quella intellettiva ed emotiva; il teatro conosce perché sente, ci può far comprendere la vita e i nostri sistemi sociali in una sintesi poetica, in una maniera integrata. Per questo motivo credo che il teatro sia più attendibile della scienza.

Osservare/osservarsi – ascoltare e porsi in ascolto. Quanto pesano questi binomi – soprattutto riflessivi – nella tua ricerca artistica?

Questa cosa nasce sempre dalla matrice del teatro popolare, l’attore o gioca con un potente ascolto di sé – del sentimento di ciò che accade e cosa dice mentre lo dice – o non funziona perché non è credibile. La questione della finzione del teatro si risolve così. Sul palco si finge, sempre, ciò che è vero è che prima di tutto io sono un essere umano biologicamente presente, con i miei respiri, il mio corpo, le mie sensazioni, e sono dentro una relazione con gli altri, che è quello che ci salva. Riprendendo una frase che mi è cara: “sono le persone che ci guariscono”. Il teatro genera contatto, empatia, compassione per noi stessi e per gli altri. Io sono davvero felice di averlo incontrato. All’inizio avevo tanta passione per la recitazione ma non volevo fare l’attrice, non ero attratta dal teatro di prosa. Ho iniziato a studiare sulla scia del lavoro sull’attore degli anni Ottanta e Novanta, un lavoro focalizzato sul corpo, sulla maschera. Ho cominciato col cabaret, il teatro comico, popolare, tutte dimensioni in cui l’attore è molto creatore di sé. Ho incontrato così il teatro. In realtà, quello che mi ha sempre fatto un po’ paura era la parola nuda, letteraria: io avevo bisogno di un corpo. Ci ho messo tanti anni a fare pace con la parola e a comprendere che anche lei ha il suo corpo. Io mi fido del corpo, di quello che faccio, comprendo le sensazioni fisiche: sta nel corpo la verità, la parola staccata da esso mi insospettisce.

La scimmia. ph. Manuela Pellegrini

Gli attori non interpretano personaggi, ma entrano in scena in quanto persone. Qui, la scena diventa teatro del vivente: il vivente oggetto di urgenza, l’urgenza il motore di un teatro d’indagine.

Sì, questo è stato un altro pilastro del pensiero della dominanza: escludere l’esperienza del vivente dal discorso sul mondo che si è fatto via via più lontano, astratto, ideologico, fine a sé stesso. Rimettere il vivente al centro dell’attenzione smonta i meccanismi dicotomici della lettura della realtà a cui siamo abituati. Non c’è bianco o nero nella vita, c’è l’unicità dell’esperienza. Ascoltare, accogliere, relazionarsi con questa singolarità oggi è una forma di resistenza, di speranza. Ci salviamo solo se io vedo te e tu vedi me. Credo che questo passaggio di riconoscimento ci faccia sentire che la nostra vita ha un senso. Il pubblico questo lo sente e si sente guardato, accolto, tutelato. Questa creaturalità del mondo drammaturgico è un modo di dare valore al dettaglio che sta nell’esperienza della vita vera, nella parola che nasce da un vissuto. Quella parola lì ostacola il giudizio, mentre favorisce la comprensione. Spesso pensiamo che se giudichiamo abbiamo un’opinione perché abbiamo compreso, io credo invece che accada l’opposto: per comprendere bisogna sospendere giudizio. Il teatro civile – se lo vogliamo chiamare così – oggi deve fare analisi su questo. Quanto ha messo al mondo giudizi morali? Perché se l’ha fatto non ha fatto un buon lavoro. Fa un buon lavoro quando mette sul palco il riconoscimento di un bisogno e la qualità dell’interrogativo che pone.

Qual è a tuo parere lo stato di salute del teatro civile oggi? Quali necessità lo muovono o lo devono rinnovare?

Il teatro civile che ha dato tanto al teatro oggi non c’è più. Sono spariti gli spazi ad essi dedicati dal sistema produttivo e dalle programmazioni. Al giorno d’oggi il teatro civile è il figlio bastardo del teatro. La generazione che l’ha reso grande, importante e forte è una generazione che adesso è stanca, non ha più la forza di battagliare artisticamente come un tempo. Come tutte le cose un po’ sovversive, disturbanti che col tempo vengono inglobate ed edulcorate, non c’è più questa spinta. Io il mio teatro non lo considero un teatro civile, ma un teatro del vivente, della compassione, e ora soprattutto un teatro di indagine, con testi che partono da interrogativi molto approfonditi sulla nostra società, sul modo di vedere e percepire le cose, un po’ come Dentro.

Partendo da una riflessione portata da Dentro: secondo te nel teatro non si può dire tutto quello che si vuole?

Sì, nello spettacolo dicevo: “Il teatro non è diverso dal resto del mondo. Certe cose non si possono dire”. Però io poi le dico e questa è chiaramente una provocazione. Io non ho combattuto per stare dentro il sistema teatrale, ho combattuto per poter dire quello che volevo dire, dentro sempre una relazione di rispetto. Molti programmatori non comprano questo spettacolo perché il tema è troppo forte. Io in passato ho usato la comicità per stare al mondo e per dire quello che volevo, poi con l’età e l’esperienza mi sono permessa di andare anche oltre. È il patteggiamento che facciamo tutti i giorni, poter esprimere quello che pensiamo e sentiamo veramente. Il punto, infatti, non è necessariamente dire quello che pensi veramente ma è riconoscere la differenza tra quello che pensi veramente e quello che puoi dire.

Andrea Gardenghi

Dentro. Una storia vera, se volete

La scimmia

La fabbrica dei preti

Mio eroe

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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