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Un’ars amandi al femminile. La locandiera di Antonio Latella

Dopo il debutto a Spoleto, La locandiera di Carlo Goldoni, con la regia di Antonio Latella, ha raggiunto il Teatro Duse di Bologna e il Teatro Morlacchi di Perugia, prime tappe di una lunga tournée che arriverà a Milano e a Roma nella primavera 2024.

Foto Gianluca Pantaleo

Il fondale di legno chiaro striato è attraversato dagli intarsi di una raffinata boiserie settecentesca. I quadranti e i fregi sono però disposti con strana irregolarità e le cornici sono, a tratti, spezzate. Davanti, un piccolo tavolo antico, circondato da sedie di plastica colorata e intrecciata, simili a quelle di un esterno marittimo, e un angolo cottura moderno, su cui spicca una pentola rossa. Il marchese di Forlipopoli (Giovanni Franzoni) e il conte d’Albafiorita (Francesco Manetti) siedono, l’uno di fronte all’altro, e nel loro parlottio di spasimanti inizia a comporsi il mistero della seduzione della locandiera, quel suo «tratto nobile che incatena». Sulla scena di Antonio Latella, il realismo di Carlo Goldoni appare custodito e tradito insieme: se gli ambienti, gli abiti e la dizione evocano la contemporaneità, è nell’equivocità latente, in tante piccole contraffazioni, la cifra di una ricerca estetica che, senza sovvertire, insinua. Sembra esserci qualcosa che non torna, un sentore di anomalia, una sfasatura. Mark Fisher, chiosando la nozione freudiana di unheimlich, lo ha definito «lo strano all’interno del familiare, lo stranamente familiare, il familiare come strano – il modo in cui il mondo domestico non coincide con se stesso».

Foto Gianluca Pantaleo

Nelle note di regia, il primo rimando è a Café Müller di Pina Bausch e già sovrappone – all’atmosfera della locanda del Settecento, secolo di riforme e rivoluzioni – le penombre livide, la densità spettrale (e memoriale) del Novecento. Il chiarore e la volatilità degli abiti leggeri di Mirandolina (Sonia Bergamasco) segnano il contrasto con quelli degli astanti e dei pretendenti, che esibiscono tratti di stravaganza farsesca o di decoro moderno, definendola, in termini visivi, come una creatura quasi astratta dai tempi e dai luoghi, simile alle danzatrici di Bausch, ma non esangue, o all’archetipo della sirena, che anche Goldoni chiama in causa nel prologo. La sirena, d’altra parte, ce lo ricorda Peter Sloterdijk, intona «esattamente i canti nei quali l’orecchio del viaggiatore in transito desidera precipitarsi» e così Mirandolina (e qui la sua apparente “disimplicazione” si svela in pragmatismo) rivolge ai corteggiatori accenni di premura e scoppi di riso, li redarguisce con esuberanza, li vezzeggia. Di fatto, con consapevolezza, li irretisce. «Voglio burlarmi di quelle caricature d’amanti», dichiara. L’unico che sembra riuscire a sottrarsi all’obbligo scritto nel nome, quello di mirarla, è il cavaliere di Ripafratta (Ludovico Fededegni), che disprezza le donne e le loro seduzioni. Nel frattempo il servo Fabrizio (Valentino Villa) scalpita e sospira, in attesa che la locandiera si decida a “prenderlo in marito”, come prescrittole dal padre sul letto di morte, e due commedianti/impostore Ortensia (Marta Cortellazzo Wiel) e Dejanira (Marta Pizzigallo) si aggirano per la locanda, cercando, senza troppa fortuna, un nobile da far fesso, o almeno qualche omaggio.

Foto Gianluca Pantaleo

Sono portatrici di un femminino mendace e ridicolo, accanto al quale la grazia, soppesata e cupa, di Mirandolina brilla. Bergamasco – grazie allo studio della micro-gestualità e a uno splendido impiego della voce – dona al personaggio un piglio vitale e oscuro, uno spessore severo che la malizia increspa solo in superficie, rispondendo alla volontà del regista di spogliare Mirandolina dei tratti di svenevolezza e civetteria, retaggio di un male gaze che si posa sul femminile per ricondurlo alla propria soddisfazione e spesso (ed è persino più amaro) per renderselo comprensibile. Omaggiando Massimo Castri (che lo ha diretto ne Le smanie per la villeggiatura, proprio al fianco di Bergamasco, nel 1995), Latella vuole celebrare anche la possibilità di relazionarsi in un modo nuovo, che tragga qualità dai tempi, all’inesauribilità dell’opera. Se Goldoni, attraverso la “caduta della maschere” e la conversione della commedia dell’arte in commedia di carattere, intendeva correggere il vizio (ovvero denunciare, per mezzo della parodia, la stortura e il ridicolo), Latella sembra voler (da un avamposto maschile) tentare una purificazione di sguardo, restituendo a Mirandolina il primato sapienziale, pragmatico e dunque politico sugli uomini, anzi sugli aristocratici (veri e fasulli, decaduti e non) che la circondano.
Oltre alle pagine su La locandiera come manifesto politico della nascente borghesia italiana, si è tanto scritto anche su La locandiera come manuale di ars amandi, con riferimento alla dottrina di origine ovidiana, tutta a beneficio maschile, a difesa dall’«odioso carattere […] delle incantatrici». Se tutti cedono alle lacrime, alle lusinghe e alle invenzioni di Mirandolina, è con il cavaliere di Ripafratta, scostante e adombrato, che ella incontra la sfida più complessa, tentando di continuo di accorciare le distanze poste da lui e riuscendo a farlo crollare innamorato nel giro di un giorno, nel pieno rispetto dell’unità aristotelica di tempo. La strategia è stavolta improntata a un sembiante di sincerità, esibendo un carattere risoluto e libero, che le appartiene ma che, nella torsione seduttiva, si fa strumento di conquista. Tant’è che egli si confessa quasi obbligato ad amarla perché vinto dalla sua civiltà. Qui si conclude il secondo atto di Goldoni, il primo di Latella, che, condensando, cambia la ripartizione della commedia (da tre atti a due), forse a voler marcare, in modo ancor più netto, un passaggio.

Foto Gianluca Pantaleo

Nel secondo atto, Mirandolina, come da copione, e come da manuale di fenomenologia amorosa, respinge l’amante, per sposare finalmente Fabrizio, eleggendo il servo a padrone e rispettando le volontà paterne. Eppure, nel caos che precede lo scioglimento dei destini, qualcosa continua a non tornare. Uno sfrigolio delle luci, una ninna-nanna notturna, dall’andamento quasi sepolcrale, una modulazione sacrificale, allusa e ritratta nei toni e nei gesti di lei, una danza che inscena col soprabito del cavaliere, prima di arrotolarlo come un fagotto, per cullarlo brevemente, e poi nasconderlo. Latella riesce davvero ad agire, nella grazia dell’invenzione scenica, la lezione di Castri, che insisteva proprio sulla necessità di operare sul testo in chiave destabilizzante, facendolo rivivere «in tutte le sue contraddizioni e in tutti i suoi problemi» e, al contempo, riesce anche ad aggiornare l’ars amandi, in una prospettiva femminile.
Nel dittico sincerità-libertà che la caratterizza, la locandiera propende senza esitazioni in favore della seconda e sembra sapere bene che si tratta di opzioni di esistenza che non possono darsi insieme. Non tanto e non solo per la necessità dell’astuzia e dell’intrigo, ma soprattutto perché il disarmo, la nudità quasi sfigurante che l’amore pretende, non si accorda alla conservazione della propria lucidità, autonomia e dunque libertà. Come accadeva in Aminta, anche in questo caso, per Latella l’amore pare avere la natura dell’invivibile e, forse, dell’impronunciabile. E impronunciato rimane, quando sul finale Mirandolina, in proscenio, raccomanda a lorsignori di tenere di conto, in vantaggio e in sicurezza del loro cuore, le malizie imparate. E di non dimenticarla.

Ilaria Rossini

Teatro Morlacchi, Perugia – novembre 2023

Prossime date in calendario tournée

Teatro Civico – La Spezia Da Sab 11 Nov a Dom 12 Nov 2023
Teatro Ariosto – Reggio Emilia Da Mar 14 Nov a Mer 15 Nov 2023
Teatro Rossini – Pesaro Da Gio 16 Nov a Dom 19 Nov 2023
Teatro Lauro Rossi – Macerata Da Mar 21 Nov a Mer 22 Nov 2023
Teatro dei Rinnovati – Siena Da Ven 24 Nov a Dom 26 Nov 2023
Teatro Nuovo Giovanni da Udine – Udine Da Mar 28 Nov a Gio 30 Nov 2023
Teatro Strehler – Milano Da Mar 20 Feb a Dom 3 Mar 2024
Teatro Toselli – Cuneo Mar 5 Mar 2024
Teatro Alighieri – Ravenna Da Gio 7 Mar a Dom 10 Mar 2024
Teatro Argentina – Roma Da Mer 17 Apr a Dom 28 Apr 2024

LA LOCANDIERA

regia Antonio Latella
con Sonia Bergamasco, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Giovanni Franzoni, Francesco Manetti, Gabriele Pestilli, Marta Pizzigallo, Valentino Villa
dramaturg Linda Dalisi
scene
Annelisa Zaccheria
costumi
Graziella Pepe
musiche e suono
Franco Visioli
luci Simone De Angelis
assistente alla regia
Marco Corsucci
assistente alla regia volontario
Giammarco Pignatiello
produzione Teatro Stabile dell’Umbria

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

4 COMMENTS

  1. Abbiamo visto la Locandiera di Antonio Latella al Teatro Argentina di Roma. Anche secondo noi “Goldoni si è rivoltato nella tomba”. Da segnalare una scenografia misera al limite del ridicolo, per non parlare delle luci al neon, ma soprattutto l’incoerenza con la piéce goldoniana della versione latelliana, farcita di oscenità del tutto gratuite con espliciti riferimento a scene di sesso e di omosessualità.
    Tutto ciò sfrutta, rovinandola, la grande opera del Goldoni per veicolare messaggi propagandistici della odierna cultura woke alla quale purtroppo anche il mondo di un certo spettacolo obbedisce per “poter andare in scena”. Evviva la libertà artistica!

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