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SPAfrica, veleno della coscienza

Recensione. Grazie ad uno sforzo produttivo congiunto tra i festival Kilowatt e Santarcangelo, è andato in scena in Italia SPAfrica, la performance firmata da Ntando Cele e Julian Hetzel su razzismo, privilegio e bugie occidentali. 

Foto Elisa Nocentini – Kilowatt Festival

Mine your trauma. Suona come una dichiarazione d’intenti il sottotitolo di SPAfrica: scavare, come un minatore, il fondo della propria coscienza. SPAfrica è un prodotto di lusso, un’elegante bottiglietta dal design minimalista e sofisticato che contiene un’essenza purissima: lacrime d’empatia occidentale. A presentarlo è Julian Hetzel, artista tedesco che si definisce “post-disciplinare”: il suo approccio intende superare e aggiornare il concetto di interdisciplinarietà portando la combinazione tra performance, arti visive e docu-fiction a un nuovo livello. L’ingaggio con lo spettatore è da subito stordente: tutto inizia con una conferenza post-spettacolo. Conduce l’incontro Lucia Franchi (codirettrice del festival Kilowatt, che insieme a Santarcangelo ha ospitato le due repliche italiane di SPAfrica)* alludendo alla performance “appena conclusa”. Franchi accenna più volte alla presenza di una sedia vuota che a breve sarà occupata da Ntando Cele, la protagonista dello spettacolo, la quale sta giustamente facendo la sua doccia post replica. La conversazione, accompagnata da immagini documentarie proiettate sul fondale, è delle più credibili: Hetzel racconta la genesi del proprio lavoro, l’incontro con Cele, performer sudafricana. L’idea condivisa è quella di indurre una riflessione sul razzismo e sul valore dell’empatia, rendere questo concetto tangibile, anzi, bevibile: la platea è invitata a gustare qualche sorso della preziosa acqua SPAfrica prontamente distribuita dalle maschere del festival. Le domande della Franchi, dapprima generiche e lusinghiere, si fanno via via più stringenti e insinuanti. Da occidentale a occidentale, ma presto da italiana a tedesco, lo incalza sulle contraddizioni identitarie insite nel suo lavoro: a parlare di empatia e razzismo è un maschio bianco, la sua voce è quella di un privilegiato, proveniente da un paese che deve ancora fare i conti con il proprio passato. Il clima cambia, si fa sempre più teso: Hetzel allontana la Franchi, che lo lascia piagnucolante e solo sul palco a rivendicare il proprio diritto all’espressione artistica.

Foto Elisa Nocentini – Kilowatt Festival

Ma è tardi, la sua corazza è minata, il suo volto si deforma. Non è che una maschera di lattice, sotto la quale si nasconde il volto fiero, ringhiante, di Ntando Cele. SPAfrica è un inganno nell’inganno, uno svelamento che ne nasconde un altro: la trasformazione della performer innesca un parallelo e potente denudamento dello spettatore, da quel momento in poi in ostaggio della propria coscienza solleticata, pizzicata, stuzzicata fino al dolore. Come in un rito tribale, tolta la maschera e rivelato il proprio volto, Cele intraprende un soliloquio in lingua africana, presumibilmente zulu, che gradualmente diventa un canto rituale ricco di suoni articolati. È uno svelamento, un’affermazione identitaria che volutamente non si rende intelligibile, ma impiglia nella sua vertigine. Ogni gesto di Cele diventa politico nel momento in cui, estremizzato nella crudezza dello stereotipo, porta lo spettatore a pensarsi immune dal pregiudizio e dal razzismo, per poi puntualmente porgergli uno specchio spietato. Il pensiero autoassolutorio dello spettatore è delegato e smascherato brutalmente  dai commenti ammirati, sdiliquiti di una bocca bianca – quella di Lucia Franchi – che appare in video a inframmezzare la performance complimentandosi, incoraggiando, quasi autorizzando dalla sua posizione privilegiata e protetta, dalla sua distanza. Se sono false le lacrime di Cele, pura arte attoriale rivendicata, sono vere le lacrime del ragazzo che – coraggiosamente o ingenuamente – sale sul palcoscenico, invitato a partecipare alla campagna di raccolta delle lacrime d’empatia europee che pagheranno la preziosa acqua SPAfrica e che pioveranno sulla terra arida sudafricana.

Foto Elisa Nocentini – Kilowatt Festival

È  inevitabile, in questo lungo momento di imbarazzo tangibile, chiedersi per chi e perché quel ragazzo stia piangendo, se sia pura quella immedesimazione o se non sia piuttosto un momento ombelicale, autocommiserante, una pacca sulla propria spalla per potersi dire vicini ad una causa restando, inavvertitamente, sotto la calda coperta del proprio diritto di nascita. White lies matter, canta Cele storpiando il celebre e già decaduto slogan Black Lives Matter (alcuni brani presenti nello spettacolo sono stati raccolti in una playlist disponibile su Spotify). Il riferimento all’esportazione d’acqua africana rende cristallino quanto capitalismo e razzismo siano connaturati, quanto l’empatia sia un bene di lusso alla moda, un vestito fast-fashion da indossare per sentirsi migliori. I’d rather be the dog that bites, incalza Cele e la platea è assediata dai suoi morsi. E se dovesse sfuggire qualcosa, se non fosse chiaro il meccanismo di questa cruda e crudele stand up comedy, Cele pone rimedio rimettendosi la maschera da uomo bianco, automaticamente più credibile. La platea è continuamente attraversata da reazioni contrastanti e concomitanti: da un lato è inevitabile mettersi sulla difensiva, sentirsi feriti e dichiararsi offesi da quell’insinuante e giudicante invettiva che ridicolizza l’intelligenza dello spettatore. Dall’altro ci si ritrova a dover ammettere che quelle tragiche barzellette razziste, quel black humor spicciolo, suscita incredibilmente sommesse risate: sembrano emergere nostro malgrado, provenienti da una radice ancestrale nascosta sotto strati e strati di cultura buonista e addomesticante; risuonano cupe, ingenue, prontamente soffocate: il rigurgito di una cena che pensavamo di aver digerito.
Il gioco ironico diventa tragico, ci si ritrova vittime della propria coscienza che credevamo, se non immacolata, quantomeno smacchiata, mentre il fondale bianco si imbratta di rosso: una macchia di sangue, una dichiarazione di sconfitta, il segno lasciato dalla battaglia. Nessuno esce vincitore da SPAfrica. Persino il gesto di applaudire, sul finale, è inibito, contaminato dal giudizio su noi stessi, sulla realtà che ci raccontiamo, sulle bugie che beviamo e ci scorrono nel sangue.

Sabrina Fasanella

* durante le repliche dello spettacolo andate in scena a Santarcangelo Festival, l’incontro è stato condotto da Luisa Bosi (Santarcangelo dei Teatri) e da Pamela Fussi, vicesindaca di Santarcangelo e Assessora con delega a Lavori Pubblici, Mobilità, Ambiente e paesaggio, Pari Opportunità, accessibilità e partecipazione, cultura.

SPAfrica

di Julian Hetzel
con Ntando Cele
drammaturgia Miguel Angel Melgares
musiche Frank Wienk
direzione artistica Julian Hetzel
consulente artistico Sodja Lotker
producer tecnici Cesco van der Zwaag, Martijn van Nunen
tecnici Bea Verbeek, Simon Kelaita
coordinamento di produzione Marieke van den Bosch
coproduzione Campo Gent BE, Theatre Vidy-Lausanne CH, Schauspiel Leipzig DE, Spring Performing Arts Festival Utrecht NL, Auawirleben Festival, Bern CH
con il contributo di City of Utrecht, Vriendenloterij Fund NL, Onassis AiR Athens GR
progetto realizzato con il supporto di Performing Arts Fund NL, Ambasciata e Consolato Generale del Regno dei Paesi Bassi, Goethe-Institut Mailand, promosso dal Ministero Federale degli Affari Esteri delle Repubblica Federale di Germania
in collaborazione con Santarcangelo Festival

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