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HomeArticoliMario Martone. Il mio Shakespeare in fuga dagli adulti 

Mario Martone. Il mio Shakespeare in fuga dagli adulti 

Intervista a Mario Martone. abbiamo incontrato il regista prima di una replica di Romeo e Giulietta al Piccolo Teatro Strehler  

Mario Martone al Piccolo Teatro Strehler di MIlano. Foto © Masiar Pasquali

Appena fuori dai camerini del Piccolo Teatro Strehler, mentre gli attori si preparano per andare in scena di lì a un’ora, c’è un tavolo stretto e lungo che costeggia il corridoio e sopra una carrellata di babà napoletani: “Quelli li ho portati io, ieri, da Napoli”, mi confida Mario Martone mentre ci avviamo per l’intervista e penso che il suo modo di essere regista, con il gruppo di 30 attori che ha formato, abbia molto a che vedere con questo gesto, questo pensiero. Poi, una volta dentro, mentre mi racconta della sua idea su questo Romeo e Giulietta site specific allo Strehler, a un certo punto si interrompe e dice con parole che seguono il suono della sua Napoli: “Ti faccio sentire una cosa, che non c’entra niente, però te la devo fa senti’ perché è troppo…”; apre il telefono, cerca una nota WhatsApp e accende: è Lino Musella che legge il sonetto 55 di Shakespeare tradotto in napoletano, quello che si conclude letteralmente “negli occhi di tutti gli innamorati”; un augurio forse per lo spettacolo, una carezza per le orecchie e il cuore, un regalo per me come fossi anch’io destinatario di uno qualunque tra i babà di quella tavolata.

OTELLO di Giuseppe Verdi 2009 NNT Tokyo. Foto NNT

Scorrendo la tua nutrita biografia artistica, si nota come in tanti anni di carriera Shakespeare sia stato frequentato pochissimo, o almeno non quanto accade di solito tra i registi più seguiti. Qual è la tua relazione con questo autore?

Nel mio lavoro ha sempre avuto una grande centralità il teatro greco, certamente per la natura politica e per il rapporto tra individuo e società che poi caratterizza anche molti dei miei film. I miei Shakespeare passano soprattutto per l’opera lirica, prima di tutto l’Otello che ho messo in scena la prima volta a Tokyo nel 2009 e poi al San Carlo di Napoli l’anno scorso; ho fatto il Falstaff nel 2008, attraverso un laboratorio con Renato Carpentieri e alcuni ragazzi del carcere minorile di Nisida, e dieci anni dopo a Berlino; infine il Macbeth a Parigi nel 2015. Quindi il mio rapporto con Shakespeare passa spesso attraverso Verdi o, meglio, attraverso gli adattamenti di Arrigo Boito che fa emergere i personaggi in una tessitura in cui filtra la scrittura shakespeariana già però affrontando o sfumando alcuni nodi ineludibili.

Foto Masiar Pasquali

E ora questo Romeo e Giulietta. Cosa ti ha spinto ad affrontarlo proprio in questo momento storico?

Quando ho avuto l’invito dal Piccolo a realizzare uno spettacolo di lunga tenitura e che fosse solo per lo Strehler, uno spazio difficile per la sua ampiezza che quindi rappresentava una sfida di carattere installativo, ho pensato che fosse importante dedicare attenzione agli adolescenti, chiusi oggi nella loro bolla salvifica rispetto al mondo intorno che li ha esclusi, che gli ha chiuso le prospettive di futuro e li giudica; il mondo adulto è invaso da una violenza – domestica, sociale, guerresca – priva di senso, in cui sono scomparse le idee di cambiamento, rassegnati a vivere quel mondo così com’è. Noi di quegli adolescenti non sappiamo nulla, sono nativi digitali e non c’è un equivalente nella storia per capirne lo sviluppo.

Foto Masiar Pasquali

Questo testo è spesso considerato un emblema dell’amore ma sembra una riduttiva considerazione turistica, commerciale, mentre si tratta invece di un testo che ha profondi legami con la violenza, vera alterità dell’amore. Mi tornano in mente due tuoi film di qualche tempo fa: L’amore molesto e soprattutto L’odore del sangue, in cui le due anime si mescolavano come in un groviglio di turbamento. Quale idea d’amore emerge dal tuo Romeo e Giulietta?

L’idea che ho avuto per Romeo e Giulietta (il cui adattamento è di Chiara Lagani ndr) è immediatamente quella di una fuga, dalla realtà, dagli adulti, in quel modo assurdo che hanno solo gli adolescenti: spesso non ci facciamo caso ma la vicenda d’amore dura quattro o cinque giorni al massimo, loro si conoscono e dopo tre parole si baciano, Romeo è innamorato di Rosalina – uno dei personaggi importanti che spesso vengono tagliati – ma poi accade che gli basti un gesto e tutto cambia; ma in quel cambiamento la cosa importante è che lì si genera il loro proprio linguaggio, ciò che è diventato mito: le parole che si scambiano sono fuori dalla realtà, come l’adolescenza di oggi ti tiene a distanza attraverso codici propri, e non a caso Frate Lorenzo, l’unico che sente uno scambio tra loro, gli dirà: “Ma voi così parlate?”, considerandone proprio l’assurdità.

Foto Masiar Pasquali

Frate Lorenzo (Gabriele Benedetti) è uno dei personaggi cardinali, decisivi proprio per il compimento di quella assurdità…

Frate Lorenzo, così come la nutrice fino a un certo punto, crede che questo matrimonio possa mettere pace tra le due famiglie e per questo è trasportato e partecipa della loro follia; lui è un frate freak che traffica con erbe allucinogene, velenose, la nutrice Angelica – qui trasformata per una versione contemporanea nella zia di Giulietta, per cui ho immaginato immediatamente Licia Lanera – è una donna fuori dagli schemi, trasgressiva; entrambi vivono una simile estraneità al contesto sociale, ma allo stesso tempo ne sono parte e si comportano proprio da adolescenti, in modo irresponsabile, se consideriamo che il matrimonio avviene il giorno successivo al loro incontro; entrambi però poi si ritirano, lasciando i due ragazzi, Giulietta prima di tutto, completamente soli.

Riccardo II ragia di Mario Martone. Foto https://www.cssudine.it/stagione-contatto/1993/711/riccardo-ii

L’adolescente parla e agisce per assoluti, pensando che tutto finisca lì. Mentre invece all’opposto quella è l’età più fragile, come se quel linguaggio assoluto ne fosse la corazza di protezione. E in Romeo e Giulietta lo è sia il linguaggio della rivalità che quello dell’amore.

È proprio questo che mi ha convinto a portare su quel palco così particolare non degli attori che interpretano adolescenti ma veri e propri adolescenti: Romeo (Francesco Gheghi) è molto giovane, Giulietta (Anita Serafini) ha addirittura 15 anni, probabilmente non diranno la battuta in modo perfetto, anche se poi sono bravissimi, ma esprimono il concetto dell’assoluto anche solo con la loro presenza, con il loro spirito. Ma in generale io credo proprio che Shakespeare abbia a che fare in molti casi con la giovinezza: quando ho fatto Riccardo II nel 1992, in cui c’è come in questo spettacolo l’uso di una scena fissa, con i cambi di situazione affidati esclusivamente all’azione degli attori, mi interessava che i due re fossero nella realtà giovani (Andrea Renzi e Roberto De Francesco); e se dovessi fare un Amleto, il cui amore per Ofelia pur essendo il contrario rispetto a Romeo e Giulietta ne ha la stessa temperatura assoluta, non potrei che farlo interpretare da un ragazzo.

Sul piano invece più politico: questo è uno spettacolo che tu stesso definisci installativo, che cioè non girerà perché è pensato per non essere trasportato (una scenografia incardinata al palco e trenta attori sul palco…) ma in generale vediamo che poche produzioni – soprattutto quella che si chiamava “prosa” – fanno ancora tournée. Dalla necessità di circuitazione che aleggiava in tempo di pandemia come si è giunti a questa cristallizzazione?

Einstein on the Beach. Foto Wikipedia

Prima di tutto questo accade perché c’è una legge sciagurata che non lo permette e che, guardando a modelli europei, è priva del senso di realtà legato al nostro paese, perché il nostro è sempre stato un teatro di giro e questo significa proprio snaturare una radice, l’anima del teatro italiano. Oggi esiste un teatro che si vede a Milano o un teatro che si vede a Napoli (e ormai nessuno dei due si vede a Roma), questo accade però ancor prima della legge ed è un segnale di come è cambiato il paese nei decenni, ben lontano dalla vitalità degli anni Settanta o Ottanta, in cui non c’è più curiosità per la diversità ma tutto è settorializzato. Dunque si può anche cambiare la legge, ammesso che oggi sia considerata un’urgenza, ma la legge è decisa dal Parlamento e questo è uno specchio del paese che rappresenta, in mutazione antropologica verso la chiusura.

L’arte affonda la sua radice nell’osservazione della realtà, dell’umanità che la abita. Ma oltre ad essere artisti si è prima di tutto spettatori di altra arte. C’è stato uno spettacolo nella tua giovinezza che ti ha fatto scegliere di fare questo mestiere?

Einstein on the Beach di Bob Wilson. Avevo 16 anni, andai a Venezia per la prima volta ed era il 1976. Ero già curioso del teatro, Napoli, la mia città, era culturalmente molto viva e pur andando ancora a scuola si cominciava a frequentare l’arte, il teatro d’avanguardia. Venni a sapere di questo maestro americano e decisi di andarlo a vedere anche così lontano. No, un regista americano: ho detto maestro ma è anche questo un retaggio, un’espressione che mette dentro categorie, con cui ci si mette a norma invece di aprirsi alla relazione. Bob Wilson, regista americano, mi folgorò e mi fece dire: un altro mondo è possibile.

Simone Nebbia

Leggi la recensione di Romeo e Giulietta su Cordelia di marzo 2023

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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