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 | Cordelia | marzo 2023 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#ROMA

MENO DI DUE (di Teatrodilina)

Una ricorrenza, non come le feste comandate con il parentame e il peso di dover essere in quel certo modo lì, affatto, puoi essere e stare come vuoi, nessuno ti giudica, neanche tu ti giudichi; inizi a conoscerli bene, sai che li incontrerai e ascolterai e loro sapranno di te, delle pieghe, crepate, dei pieni emotivi che fanno sussultare, svuotano, atterriscono. Dovremmo tutte e tutti avere la nostra dose di Teatrodilina: più volte all’anno, d’inverno preferibilmente quando fa più freddo per trovare calore, dopo i pasti. Pezzi di vita inevitabili scritti e diretti da Francesco Lagi, l’ultimo, al debutto a Carrozzerie not, è Meno di due. Già il titolo si incastra tra il cervello e il cuore, in quel limbo in cui sai, eccome, ma poi senti in maniera non coincidente: due linee rette parallele, che non si incrociano. «Se conosci le rotatorie, ti trovi bene al Nord» e quindi dovremmo prendere le curve al meglio per imboccare l’uscita esatta, evitando di continuare a girare...Due, lui calabrese (Francesco Colella), lei veneta (Anna Bellato) iniziano una relazione da remoto, messaggi, foto, vocali, like, una quantità enorme di dati scambiati. Poi si incontrano in un bar - foglie a terra e ombrelli - lui è venuto a trovarla, non ha deciso quando ripartirà, vuole vedere dove vive, se le foto ricevute corrispondono a una verità, intanto ha affittato un B&B. Ballano in ciabatte e arriva l’altro lui (Leonardo Maddalena), ha le chiavi di casa, avrebbe voluto cenare con lei, parlare con lei, addormentarsi con lei. Come sempre. O meno. Nella bellezza dei dubbi accigliati, dei sorrisi grandi, e negli sguardi, nella commozione della voce; gli interpreti sono definitivamente giusti. La virtualità delle esistenze unisce tempo e spazio e Teatrodilina la rende ricorrenza, riflessione sulla prossimità. Ombre di migliaia di anni fa ballano tra il reale e la sua idea, lui e lei le ritrovano disegnate nel buio delle grotte. Sono ancora loro? «Ma io ti piaccio?» «Non tanto» «Rimani qui». (Lucia Medri)

Visto a Carrozzerie not: con Anna Bellato, Francesco Colella e Leonardo Maddalena, suono Giuseppe D’Amato, scene Salvo Ingala, luci Martin Palma, organizzazione Regina Piperno, illustrazione locandina Antonio Pronostico, scritto e diretto da Francesco Lagi, uno spettacolo di Teatrodilina, in collaborazione con DOG, si ringrazia EX RUGIADA e Maria Grasselli residenza produttiva Carrozzerie | n.o.t

LANCILLOTTO E GINEVRA (di Riccardo Favaro e Giovanni Ortoleva)

Quattro secoli prima che Jeffrey Eugenides lo ponesse in esergo al suo romanzo The marriage plot, François De la Rochefoucauld scriveva che «nessuno si innamorerebbe se non avesse mai sentito parlare dell’amore». Se la concezione occidentale di amore si fonda (è Denis de Rougemont a dirlo) sui romanzi cortesi, l’amore, di quella tradizione, costituisce il solo elemento superstite: la pietra dello scandalo, certo, ma anche quella tombale. Nella riscrittura firmata da Giovanni Ortoleva e Riccardo Favaro si avvertono gli echi di una lunga storia letteraria e cinematografica (da Chretien de Troyes a Robert Bresson) ma, al contempo, anche la loro mise en abyme. Lancillotto e Ginevra appaiono in forma di fendenti (e la luce si imprime sulla scena come lacerazione, primaria e verticale, del buio) di una vicenda che si è edificata, nei secoli, attraverso le proprie sistematiche rinarrazioni. Tutte le scelte (verbali, espressive, scenografiche) concorrono a una composizione profonda e disadorna che evoca, degli amanti, i profili carnali eppure esangui, precedenti la leggenda. Sono impegnati in un dialogo continuo, intessuto di visioni: le armi nere, la mano che gronda sangue, i capelli chiari e lucenti. Ma, di tutte le visioni, le più struggenti sono quelle sacrificate per sempre al dettato dell’amore: la benedizione della spada, gli scudi che, come pietre preziose, riflettono le fiamme delle torce, i boschi, gli stendardi, il legno della tavola rotonda che affratella i cavalieri. Tutto ciò che sulla scena non appare, per cedere invece lo spazio centrale a un’armatura smontata, simile a un guscio, a un detrito, a un sembiante. Edoardo Sorgente è un Lancillotto delicato ed eroso, che contrappunta con il proprio disarmo la perfezione con cui Leda Kreider aderisce all’incanto di Ginevra. Se lo sfondo non esiste più, sono il buio e il silenzio a custodire la verità: il primo è ferito appena dalla grazia di ciò che si intravede, dal secondo affiorano le parole, testimonianze dolenti di un eterno insondabile. La felicità più alta, quella che sarebbe dovuta essere taciuta e che determina la rovina, finisce per appartenere a tutti, in forma di leggenda. E dunque ci innamoriamo. (Ilaria Rossini)

Visto al Teatro Basilica, Crediti: di Riccardo Favaro e Giovanni Ortoleva; regia di Giovanni Ortoleva: musiche di Pietro Guarracino; luci Massimo Galardini; con Leda Kreider e Edoardo Sorgente; produzione Teatro Metastasio di Prato

#BOLOGNA

LE VACANZE (di Alessandro Berti)

Due giovani, adolescenti o poco più, si immergono in acqua, fino al petto, forse in uno stagno; nella sala dedicata a Thierry Salmon dell’Arena del Sole la scena è la ricostruzione realistica di una radura chiusa ai due lati da piante ad alto fusto che si stringono in una breve prospettiva. Sabbia, terra e un odore forte, un po’ dolciastro, di natura innaturale. Nel proscenio la lingua d’acqua in cui i due si immergono, non la vediamo, ne sentiamo il rumore. I ragazzi passano il tempo raccontandosi episodi legati alla memoria delle vacanze, immagini di viaggi in famiglia si mescolano a pensieri a piccole riflessioni: «i miei dicevano che era meglio non viaggiare. Per non vedere quel che sarebbe scomparso». Non accade altro che non sia in questo dialogo e poi due piccole performance di un danzatore (Stefano Questorio in sostituzione per alcune repliche di Giovanni Campo)… in quale strano universo (o proiezione di un tempo altro) una coppia di adolescenti «affitta» un perfomer per un'azione artistica in una radura? Il testo di Alessandro Berti lentamente e con grazia accende piccole domande nello spettatore. Le zanzare non esistono più, l’uomo le ha sterminate vincendo una sorta di guerra genetica, ma forse un insetto sopravvissuto riappare proprio ora. Berti disegna i due caratteri con precisione e ricchezza (interpretati da Francesco Bianchini, Sebastiano Bronzato): uno è studioso, umanista e inquieto, l’altro è più sportivo, rilassato e si dedicherà alla scienza. Sullo sfondo di un chiacchiericcio apparentemente inutile si intravede la natura, la relazione con l’uomo, la dominazione sul pianeta «hanno aumentato le proteine del riso [...] ci hanno sterilizzati». Prima di questa tranquilla radura c’è stato un tempo di cambiamenti epocali, ci sono stati dei morti, i genitori sono rimasti in quel passato. Ora non rimane che addormentarsi, mentre il performer torna per la seconda parte dello spettacolo acquistato. È triste l'immagine di quest'uomo, un artista che si accorge di avere un pubblico addormentato, allora anche lui si siede lì, nella radura in cui le distopie sono sussurrate al presente. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Arena del Sole. Crediti: di Alessandro Berti con Francesco Bianchini, Sebastiano Bronzato e la partecipazione di Stefano Questorio regia Alessandro Berti danza Giovanni Campo assistente alla creazione e organizzazione Gaia Raffiotta disegno luci Théo Longuemare scene costruite e decorate presso il Laboratorio di Scenotecnica di ERT

#MILANO

RITRATTO DELL’ARTISTA DA MORTO (Davide Carnevali, Michele Riondino)

È necessario, oggi più che mai, che il teatro sia politico. E non si intende che abbia contenuti politici, ma che sviluppi dai propri contenuti un’azione che si possa definire politica. C’è una storia dentro il Ritratto dell’artista da morto (Italia ’41 – Argentina ’78) che Davide Carnevali, dopo averne realizzato una versione in Germania nel 2018 e in attesa della versione francese del prossimo anno, disegna attorno a Michele Riondino, una vicenda che arretra al 1978 durante la dittatura in Argentina e ancora fino all’Italia fascista del 1941, ma non si tratta della muta narrazione dell’esproprio di una abitazione appartenuta a un musicista dissidente, che attende una sentenza di riassegnazione dopo 44 anni: la biografia dell’attore Riondino, abilissimo a gestire un dispositivo affascinante ma molto delicato, si mescola a diventare materia viva del racconto, così che la storia resta continuamente in bilico tra il vero e il falso. Ma a ben vedere non importa più se sia vera o falsa. Cosa è vero e cosa falso? Una storia – la storia – è sempre una mistificazione, vive un tempo non suo, lontano dai fatti, protetta, dai fatti. Carnevali gioca sapientemente su questo confine, accettandone i margini perché siano parte di una discutibilità più estesa: che diritto abbiamo di raccontare la storia? E, più precisamente, questa o altre storie? Che diritto abbiamo di rappresentare o, meglio, di credere alla nostra rappresentazione delle cose? Un inquietante racconto di scatole cinesi ha luogo nella ricostruzione di un appartamento di Buenos Aires, attorno al quale compaiono fantasmi che evocano un’oscurità crescente di torture, ingiustizie, rapimenti, omicidi. Gli elementi della vicenda, che via via si aggiungono e che si espandono in una relazione sempre più immediata con lo spettatore, sembrano darsi appuntamento sul palco e stringono lentamente sulla figura dell’attore, caduto in una storia in cui non c’entra, con cui non ha niente a che vedere, in apparenza. Ma non è, proprio la storia, apparenza? (Simone Nebbia)

Visto al Piccolo Teatro Studio Melato. Crediti: scritto e diretto da Davide Carnevali; scene e costumi Charlotte Pistorius; luci Luigi Biondi, Omar Scala; musiche Gianluca Misiti; con Michele Riondino; assistente alla regia Virginia Landi; con la partecipazione di Gaston Polle Ansaldi; produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa; coproduzione Comédie de Caen – CDN de Normandie, Comédie – Centre dramatique national de Reims, Théâtre de Liège

IO SONO MIA MOGLIE (di Michele Di Giacomo)

Il modellino di una casa. Poi cumuli di scatole. Scatole con dentro documenti, fotografie, nastri da registratore, vestiti. Scatole che racchiudono storie (o le nascondono?). E teli, bianchi, leggeri, che tutto ricoprono e proteggono. L’ambientazione di Riccardo Canali, creata in collaborazione con Mulinarte per la rappresentazione Io sono mia moglie di Michele Di Giacomo, ha il sapore delle soffitte dimenticate, è vividissima costellazione mnestica, luogo germinale del ricordo – riemerso, stratificato, alterato – e spazio famigliare della narrazione. Gli elementi che la abitano non sono semplice sfondo alla vicenda ma si rivelano veri strumenti attraverso cui la condivisione del racconto si fa atto partecipativo; essi contengono la scoperta di quel punctum barthiano che è ferita, segno pungente che agisce sulla memoria stessa. È attraverso questi oggetti che sul palco dell’Elfo Puccini prende vita la storia vera di Lothar, ragazzo nato alla fine degli Anni Venti a Berlino; ma Lothar (nei meravigliosi giochi di ruolo di Di Giacomo) è una donna costretta nel corpo di uomo. Sulla soglia di una relazione paterna conflittuale e parricida, Lothar prende il nome di Charlotte Von Mahlsdorf, indossa lunghi vestiti con tacchi neri e (soprav)vive inspiegabilmente nella Germania del nazismo e delle persecuzioni antisemite. Accade che faccia pure fortuna, aprendo un museo di antiquariato in cui raccoglie le tracce delle esistenze negate dal regime (“Quando le famiglie morivano io diventavo le loro cose”). Colpisce davvero, in questa nuova produzione, la rilettura registica del testo di Doug Wright, vincitore nel 2004 del Premio Pulitzer, perché in grado di calibrare sapientemente l’interpretazione camaleontica (entrando e uscendo nelle vesti di decine di personaggi con fare quasi naturale), le luci intense e vibranti di Valentina Montali e le sonorità vintage di Marco Mantovani. Alla fine, ciò che restituisce non è soltanto la complessità di un personaggio ma anche quella di un’intera epoca, situando la narrazione in una dimensione di curiosa ambiguità, a metà tra reale e pura immaginazione. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Doug Wright, tradotto, diretto e interpretato da Michele Di Giacomo, scene Riccardo Canali, luci Valentina Montali, suono Marco Mantovani, assistente alla regia Iacopo Gardelli, direttore tecnico Massimo Gianaroli, capo elettricista Valentina Montali, fonico Marco Mantovani, scene realizzate da Mulinarte, produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, produzione originale di Broadway presentata da David Richenthal. Foto di Matteo Toni

#NAPOLI

MEDEA, UNA MADRE (di Liv Ferracchiati)

Si chiamano Mermero e Fere, anche se nella storia della tragedia sono più spesso nominati come “i figli di Medea”. Sulla scena di Liv Ferracchiati – qui in collaborazione drammaturgica con Piera Mungiguerra – hanno i corpi e le voci di Anna Coppola e Francesca Cutolo, e la scelta di segnare una distanza (anagrafica, prima che di genere) dilata le possibilità dell’astrazione. La figura di Medea, identificata nell’immaginario con il proprio gesto infanticida, è qui destrutturata in forma di enigma femminile e materno. La drammaturgia è composta intersecando passi tratti da Euripide, da Seneca e dalla Medea inedita di Antonio Tarantino, tra i quali si insinuano frammenti originali, e richiede alle attrici di muoversi con destrezza e mestiere, entrando e uscendo dai personaggi che convocano via via sulla scena. Grazie anche a una regia solida e misurata, le interpreti riescono a non smarrire il proprio sguardo di figli – e la propria relazione fraterna, fatta di tenerezza e di agonismo – al cospetto dell’incomprensibile. Sul fondale, in una teca, che si rivelerà accessibile, è custodito il simulacro di Medea. Troneggia nel proprio mutismo di totem ma diverrà – al di qua del tabù, della linea di sangue che ha tracciato – un oggetto che può essere smontato in parti (principessa barbara nel contesto della polis greca, maga, anche lei vittima sacrificale) e dunque, forse, destituito. Se, da un lato, in questa possibilità di ripercorrere e dimenticare sembra racchiusa la promessa della psicanalisi, dall’altro la messa in questione del valore della memoria si fa, sul finale, più radicale e insieme più dolce. Quando il mistero permane, vivere coincide con un’altra crudele cerimonia: quella durante la quale ci si mutila dell’esigenza di comprendere, e di ricordare. Si tratta dell’unica breccia che, per i due, è possibile aprire nella prigionia programmatica del meccanismo della tragedia, che è scritta per essere compiuta. Persino i figli, si dice incidentalmente, se potessero estraniarsi e assistervi, vorrebbero che si compisse. La verità più elementare della violenza pretende di essere elaborata per mezzo del rituale. E, come scrive René Girard ne La violenza e il sacro (1972), «è criminale uccidere la vittima perché essa è sacra...ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse». (Ilaria Rossini)

Visto al Teatro Mercadante. Crediti: con testi da Antonio Tarantino, Seneca e Euripide; ideazione e regia Liv Ferracchiati; drammaturgia Liv Ferracchiati e Piera Mungiguerra; con Anna Coppola, Francesca Cutolo; aiuto regia Anna Zanetti; scene e costumi Lucia Menegazzo; disegno suono e luci spallarossa.

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#ROMA

LA MADRE (di Florian Zeller, regia Marcello Cotugno)

Dopo gli allestimenti di Piero Maccarinelli (Il padre e il figlio), la scrittura teatrale di Florian Zeller torna in Italia per la regia di Marcello Cotugno. La madre (2010) è il primo capitolo della trilogia sulla famiglia borghese, anche in questo caso la crisi è messa in evidenza dalla perdita di presa con la realtà, la malattia mentale è un'ombra, costantemente pronta a manifestarsi non appare mai in forma esplicita, mai viene nominata. Lunetta Savino crea un personaggio nel quale non possiamo non rivedere madri e mogli, donne fragili sacrificate per il benessere e la carriera dei maschi di famiglia. Il drammaturgo francese su questo non fa sconti: il marito (ottima la prova di Paolo Zuccari che si è trovato a dover sostituire Andrea Renzi dopo la prima al Quirino) è un uomo piccolo ed egoista, non ha il coraggio di confessare alla moglie di avere una relazione parallela con una giovane donna; il figlio (Niccolò Ferrero) se n'è andato via di casa, ma potrebbe tornare a causa di un litigio avuto con la fidanzata (Chiarastella Sorrentino). Il testo di Zeller è però un meccanismo di specchi, vuoti ed iterazioni in cui la realtà si confonde con l'invenzione, con le paure e le immagini interiorizzate. La regia di Cotugno è minimale come la scenografia: degli interni casalinghi rimangono solo pochi suppellettili, le cornici delle porte che segnano gli ingressi e le uscite dei personaggi nel mondo della donna. Lei, chiusa in un antro quasi metafisico, sola, ha fatto da madre e da moglie, ora si sente abbandonata. Il pubblico ride alle battute amarissime, alla durezza con la quale questa donna, interpretata con intensità e naturalezza da Savino, accusa ora senza remore il marito. La malattia svela il non detto, lascia emergere il tabù scoprendo piccole e dolorose verità. Ma ogni volta rimane il dubbio: l'ha detto veramente? L'altro personaggio lo ha sentito? Cotugno riesce a far convivere le diverse possibilità già contenute nella scrittura di Zeller, anche nel finale, quando l'arrivo del figlio in ospedale può essere una speranza o una nuova illusione .(Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Quirino di Florian Zellerc con Lunetta Savinoe  con Andrea Renzi, Niccolò Ferrero, Chiarastella Sorrentino regia Marcello Cotugno produzione Compagnia Molière in coproduzione con Teatro di Napoli Teatro Nazionale e Accademia Perduta Romagna Teatri

I MEZZALIRA – panni sporchi fritti in casa (di Agnese&Tiziano)

Il teatro popolare ha quella qualità di mescolarsi facilmente a un gran numero di spettatori, perché spesso le narrazioni affondano dentro le storie di chi vi assiste, che si chiamino in un modo o l’altro, provengano dall’una o l’altra origine, le radici si somigliano tutte e svolgono la stessa funzione di vedersi – noi umani – ancorati alla storia, intrisi di passato affrontiamo il tempo presente. Agnese Fallongo (autrice della drammaturgia) e Tiziano Caputo (che cura le musiche originali) si firmano per nome proprio, senza cognome, come se volessero appunto dichiarare aderenza al contesto popolare, da cui trarre le tracce del loro teatro. Una storia di paese come tante diventa un giallo che solo verso la fine esplicita il proprio svelamento; il testo si articola per scene cronologiche narrate al passato dal figlio piccolo, ormai adulto (Adriano Evangelisti) e il cui sguardo è filtro per il pubblico. I Mezzalira, questo il titolo, sono una famiglia che da un errore a fin di bene sconta una condanna più grande, priva di una misura adeguata; la loro è una storia di preghiere, di sogni, di una ferrea volontà di affrancarsi dalla condizione di schiavitù, verso la città che sembra accoglierne i desideri. Ma una vendetta li attende e cambierà il destino di ognuno. Dietro questa storia, incastonata in una struttura in legno che sovrasta la scena, c’è però una riflessione più ampia, una filigrana politica in trasparenza che mette in luce la relazione tra potere e popolo, una goccia di lotta di classe caduta dalla spremitura d’olio nuovo. Al netto di qualche scivolata retorica, delle parti troppo spiegate e qualche ingenuità della regia (di Raffaele Latagliata), soprattutto in chiusura dei quadri, lo spettacolo vibra di una vigorosa tempra attoriale, la parola in dialetto del sud Italia si prende la libertà di caratterizzare i personaggi con precisione e andare dal tragico al comico senza alcun disagio, la musica e il canto filano con intensità le cuciture di questa trama, ne fanno un abito buono perché arrivi, prima o poi, un giorno di festa. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Manzoni di Roma. Crediti: di Agnese Fallongo; Con Agnese Fallongo, Tiziano Caputo e con Adriano Evangelisti; Scenografia Andrea Coppi; Costumi Daniele Gelsi; Regia Raffaele Latagliata

TUTTE LE PERSONE VIVE (di Rosalinda Conti)

La straziante gentilezza che «cerca di convincere e convincersi» arrovellandosi nelle curve delle parole, come in una corsa ma senza affanno, anima Tutte le persone vive, scritto da Rosalinda Conti per la regia di Lorenzo Montanini. Il lavoro, dopo la residenza multidisciplinare della bassa Sabina al Teatro delle Condizioni Avverse, della quale si percepisce la stratificazione di tempo e studio, debutta a Fortezza Est che lo produce e presenta in anteprima in una sala strapiena di pubblico, per il quale c’è stato bisogno di aggiungere sedie e panche ulteriori rispetto a quelle previste. Una struttura di ferro esile rivestita di pannelli di plastica è montata al centro della scena, una sorta di serra all’interno della quale in alto a sinistra è accesa una tv con segnale assente, mentre sulla destra al tavolo di legno è seduta l’attrice Giordana Morandini, Agata. Bandierine colorate a tagliare in obliquo lo spazio, una bottiglia di spumante, una torta. Nessuna festa: «ho letto che inevitabilmente i funghi [...] prenderanno possesso di ogni nostro oggetto». Da questo assunto prende la discesa, perché non ci sarà risalita alcuna se non l'umanità di una conclusione nichilista che confessa «io non so niente», il soliloquio sulla vita e la perdita, denso di anafore e ripetizioni e congiunzioni e avverbi compressi in frasi che si alternano a pause di lunghi silenzi e a sfoghi sulle note di Rocky Roberts. E anche lacrime, quelle che scivolano sul volto insieme allo sciogliersi del trucco. La scrittura segna il momento in cui, prima o poi, tutte e tutti ci troveremo scoperti nel nostro mezzogiorno della vita, «in un tempo senza riparo e senza rifugi» e così Agata, davanti al lutto dell’albero con il quale condivideva il rettangolo davanti casa, escogita una dichiarazione di emotività, esagerata in alcune ridondanze interpretative e testuali che sarebbe consigliabile limare ulteriormente, che ci interroga palesando i disgraziati tentativi tramite cui non accetta la fine, «io posso morire gli altri no», e che permettono, nella solitudine, di trovare tuttavia «un modo di salvare me e di salvarmi il cuore». (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est: di Rosalinda Conti, regia Lorenzo Montanini, con Giordana Morandini, locandina Francesca Mariani, uno speciale ringraziamento a Daniela Dellavalle, Residenza multidisciplinare della bassa Sabina Teatro Delle Condizioni Avverse, produzione Fortezza Est. Foto Manuela Giusto

Il giardino dei ciliegi (regia Rosario Lisma)

All'inizio del secondo atto Ljuba, Leonid e Lopachin prendono il sole abbandonati sulle sdraio, Lopachin cerca di imitare la postura del fratello spensierato e giocoso di Ljuba: braccia incrociate dietro la testa, gambe stese e tallone del piede destro in equilibrio sul sinistro. Un menefreghismo aggraziato, un quieto vivere nonostante qualche giorno dopo la proprietà con tutti i suoi ciliegi andrà in vendita. Questa scena è emblematica dell'intera messinscena di Rosario Lisma; nei piccoli gesti emerge l'umanità di un attore che mette a disposizione se stesso per il ruolo. Negli occhi di Lisma c'è una fragilità commovente che poi si trasforma nell'arrivismo con il quale Cechov fotografa il passaggio di un'epoca: il nuovo capitalismo è alle porte e i ciliegi possono lasciare spazio ai villini in grado di rendere tutti ricchi, anche questa famiglia adagiata su un passato aristocratico. Lisma tenta di avvicinare Cechov al pubblico di oggi: da Parigi Ljuba riceverà messaggi sullo smartphone da parte dell'uomo che l'ha lasciata e certi atteggiamenti e battute posizioneranno questa storia, di inetti malinconici e poetici, nel nostro tempo. Non tutti apprezzeranno le scelte: alla fine della prima parte una spettatrice si lamenta (e non rientrerà al secondo tempo) proprio degli inserti contemporanei, come di certi ruoli, di una Ljuba poco aristocratica, poco regale. Ma la proprietaria terriera di Milvia Marigliano è una viziata di oggi, che non impara dai propri errori, frutto di un’epoca tutto fuorché regale, la nostra. Siamo noi quei personaggi che entrano dalla cornice come i fantasmi pirandelliani dei celebri Sei: abbiamo perso tutto - in questa versione il maggiordomo Firs è già morto, rimane la voce di Roberto Herlitzka - e chiusi in un eterno ritorno non ci rimane altro che ricordare la stanza dei giochi; alcuni di noi, quelli che meglio intendono il nostro tempo fanno come il Lopachin di Lisma dirigono l’orchestra delle motoseghe, mentre tutto cade, mentre i ciliegi vengono abbattuti. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Sala Umberto di Anton Cechov adattamento e regia di Rosario Lisma con Milvia Marigliano, Rosario Lisma, Giovanni Franzoni, Eleonora Giovanardi, Tano Mongelli, Dalila Reas scene: Federico Biancalani costumi: Valeria Donata Bettella luci: Luigi Biondi con la partecipazione in voce di Roberto Hertlizka produzione Tieffe Teatro Milano/Teatro Nazionale Genova/Viola Produzioni srl

#UDINE

ULTRA Screendance Festival

La videodanza è viva e gode di ottima salute. A Udine, grazie all’intraprendenza del danzatore e coreografo Francesco Collavino è nata ULTRA Screendance Festival, rassegna di due giorni con 23 cortometraggi e mediometraggi, provenienti da 18 paesi del mondo. Il progetto è stato realizzato in sinergia con il celebre Dance ON Screen FilmFestival di Graz: ed è una garanzia sul valore delle opere selezionate. A partire dal bellissimo corto dell’israeliano danzatore di Batsheva Matan Arie Cohen, Composure(2021). In un assolo tutto fisico, tutto vibrato nelle ossa e nella pelle, compendia in progressione oscurità e pazzia sulla musica di Beethoven. Ma il corpo è al centro anche quando trova nuove possibilità nella sparizione, come nel video di Nicole Seiler, Amauros (3) (2014). Si tratta di una breve audiodescrizione, su schermo nero, con in primo piano i rumori dei gesti e dei movimenti di coreografie che non sono mostrate. Presenza (nell’udito) in assenza (della vista), per espandere la percezione e dilatare l’immaginario. Fra le proposte italiane, Vito Alfarano ha presentato Intangout (2018), realizzato nel carcere di Bari. Dopo un corso di tango di sei mesi, i detenuti mettono in relazione questo «ballo da soli uomini ballato» con le prossimità dei corpi e i vincoli alla persona imposti dalla condizione carceraria. Ancorato invece alle dinamiche confessionali, e alla retorica intimista, delle dirette online in tempo di pandemia è invece il video di William Amstrong, Unspoken (2021). Qui il noto coreografo e direttore artistico del Netherlands Dance Theatre, Paul Lightfoot, lavora a distanza con un danzatore danese per elaborare il trauma di non potersi congedare dal padre morente in ospedale. Più in generale, sembrano precisarsi almeno due diverse tensioni: da una parte la necessità di usare il video per espandere le possibilità compositive della danza; dall’altra, la capacità di intensificare ciò che riguarda la danza, e il mondo che la circonda, attraverso il linguaggio filmico e la contaminazione transmediale della cultura cinematografica. (Stefano Tomassini)

Visto al Visionario di Udine, 16-17 marzo 2023. Direzione ULTRA Francesco Collavino, curatela Valentina Moar, coordinamento Beatrice Pellos, progettazione grafica Lorenzo Rindori

#MILANO

LA MARIA BRASCA (regia di Andrée Ruth Shammah)

Dirompente e popolana, ma anche persuasiva, irrequieta e anticonformista. La Maria Brasca di Testori è sempre stata una vertigine di passioni e umori. Calzettaia ma anche donna emancipata dal ruolo sociale entro cui è costretta a immaginarsi, vive gli Anni Sessanta ai margini della città milanese, indifferente al chiacchiericcio pregiudizievole della sua piccola comunità di periferia. Non si fa problemi, questa donna Brasca dai riccioli biondi - briosa e risoluta nell’impetuosa performance di Marina Rocco in scena al Franco Parenti - quando esce con uomini diversi, non si fa problemi se questi uomini poi la stufano e l’annoiano, non si fa problemi neanche quando decide di lasciarli, innescando quel moto centripeto di dicerie che finisce, come un appuntamento consolidato, per abitare le bocche di tutti. Ma è quando incontra l’amore, che porta il nome di Romeo (Filippo Lai), che comprende che, alla fine, “nella vita le cose son di chi ci mettere sopra le mani per primo”. E difatti nulla la trattiene dai suoi slanci amorosi, nemmeno i moniti della coppia familiare con cui convive, formata dall’accogliente e fedele sorella Enrica e dal lavativo cognato Angelo (rispettivamente una Mariella Valentini e un Luca Sandri che battibeccano attraverso interpretazioni davvero genuine e bilanciate). È allora che tutto il suo agire si fa dinamica di conquista: di un amore corrisposto, di una relazione esclusiva e del mantenimento di una posizione di desiderata indipendenza. Trent’anni dopo il lavoro che portò in scena negli Anni Novanta, sempre prodotto dal Teatro Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah riprende in mano questa pièce e ne rinnova con premura i caratteri, modificando con alcuni accorgimenti l’originale e riflettendo su un nuovo allestimento, curato da Albertino Accalai, che fa convivere sul palco con tragicomica armonia i calorosi ambienti domestici e i tremori delle pareti al passaggio dei treni, le autunnali corti milanesi e i sedili vuoti di uno spettacolo che non ha ancora smesso di divertire. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Crediti: di Giovanni Testori, uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah, con Marina Rocco, Mariella ValentiniLuca SandriFilippo Lai, scene Gianmaurizio Fercioni, costumi Daniela Verdenelli, luci Oscar Frosio, musiche Fiorenzo Carpi,

OF THE NIGHTINGALE I ENVY THE FATE (Motus)

Inserendosi sulla scia di un percorso avviato con Tutto brucia, i Motus approfondiscono la loro personalissima traccia nel mito e ne sondano il potere di riemersione, dilatandone i margini periferici della percezione. In Of The Nightingale I Envy The Fate il buio occludente dal quale emerge il volto con lunghe ciglia piumate di Stefania Tansini, una moderna Cassandra, è un manto tragico che plasma un ambiente in incessante divenire; il buio è trafitto così da una luce profetica disegnata da Theo Longuemare, che rischiara il candore della pelle di un essere femmineo metamorfico, impressiona nel pulviscolo dell’atmosfera delle immagini in sequenza (memori di certe cronofotografie di Muybridge) e ricrea la visione dell’ampio piumaggio dei volatili. Nonostante questo forte potere che assume la costruzione di immagini nella ricerca di Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, l’incipit e l’asse su cui sviluppano il lavoro coreografico si lega in primo luogo all’aspetto sonoro, materico e significante, suono che è al tempo stesso eco premonitore nei riverberi acuti e sibilanti, esile cinguettio di usignolo e silente vocalità umana. È a partire da queste sofisticate estensioni create da Demetrio Cecchitelli, che assistiamo alla trasformazione repentina della figura di Cassandra, ora essere umano inascoltato, ora essere animale mimetico, come nei passaggi descritti dall’epos. Ma lo sconfinamento tra corpo – denso e vibrante nei movimenti coreografici di Tansini – e voce, sibilante e sospesa tra ciò che vuole dire e ciò che è costretta a tacere, è continuo, agito sempre dall’impianto performativo che tenta di reinterpretare le chiavi del mito attraverso le dinamiche del rituale. La pedana, divisa da un lungo tappeto, è il luogo ascetico dove si compirà l’ineluttabile destino; squarciante è il lamento finale di Cassandra, una “litania per la sopravvivenza”, grido acutissimo, fuoco che divampa, luce che strappa il futuro alle tenebre e che torna a parlare nell’orizzonte del presente. (Andrea Gardenghi)

Visto alla Triennale Teatro di Milano. Crediti: ideazione, regia Daniela Nicolò, Enrico Casagrande, con Stefania Tansini, drammaturgia Daniela Nicolò, suono dal vivo Enrico Casagrande, ambienti sonori Demetrio Cecchitelli, direzione tecnica e disegno luci Theo Longuemare, brano musicale R.Y.F. (Francesca Morello) Ph Andrea Macchia

ROMEO E GIULIETTA (di Mario Martone)

“Non mi ricordavo che Verona fosse un bosco…”, questo dice una signora dalle file dietro mentre inizia Romeo e Giulietta, certo presa ad osservare l’imponente foresta incastonata nel Teatro Strehler da Margherita Palli, per questa versione del capolavoro shakespeariano firmata da Mario Martone. Eppure, estesa sopra una periferia meccanica di barili polverosi dove una vecchia automobile giace come un relitto di nave nell’oceano, quella foresta piena di viluppi e rami intrecciati è metafora della città in cui vita e morte si confrontano come opposti coesistenti, dove odio e amore si danno convegno portando nei medesimi luoghi un linguaggio antitetico. Quelle parole, urlate o sussurrate, sono il codice dell’adolescenza, fatto di assoluti, espressioni prive di dubbio o negazione, sferzate di cui si ignora ogni conseguenza, anche estrema. L’idea di Martone accompagna la vicenda degli amanti pareggiandone l’età: adolescenti i personaggi e così anche la maggior parte dei 30 attori (Francesco Gheghi e Anita Serafini i due amanti), giunti su questo palco dalla vicina scuola del Piccolo Teatro, assieme a un cast in cui brillano di luci aggressive Licia Lanera e Lucrezia Guidone – rispettivamente nutrice e madre Capuleti – ma in cui emergono, come se danzassero con le parole e i gesti, il Mercuzio satiresco di Alessandro Bay Rossi, Gabriele Benedetti che veste l’abito freak di un dionisiaco Frate Lorenzo e uno straordinario Michele Di Mauro che libera un’energia esplosiva e seduttiva nella brutalità di padre Capuleti. La vicenda è nota, ma vi emerge una freschezza espressiva che tiene assieme la dolcezza e la violenza di quest’opera, quel carattere definitivo che nelle parole degli adolescenti esprime il pensiero che il mondo sia eterno. E non lo è. Ma Shakespeare, sembra dire Martone, è dei giovani, dei solitari che non riescono più a pensarsi come comunità e non si fanno più trovare, di coloro che rifiutano il presente perché sconfitti dall’eccessiva gravità del passato e perché forse troppo è il futuro di fronte, per dirsi davvero parte di qualcosa. (Simone Nebbia)

Visto al Piccolo Teatro Strehler. Crediti: di William Shakespeare, traduzione Chiara Lagani adattamento e regia Mario Martone; scene Margherita Palli; con Alessandro Bay Rossi, Gabriele Benedetti, Leonardo Castellani, Michele Di Mauro, Raffaele Di Florio, Emanuele Maria di Stefano, Francesco Gheghi, Jozef Gjura, Lucrezia Guidone, Licia Lanera, Anita Serafini, Benedetto Sicca, Alice Torriani... Qui il cast completo

LE RELAZIONI PERICOLOSE (di Carmelo Rifici)

Pubblicato a Parigi nel 1782, Les Liaisons dangereuses di Pierre Choderlos de Laclos appare subito come uno scritto scabroso, un romanzo epistolare frutto di un’epoca senza religione, che deride le passioni amorose per esaltare invece la più lussuriosa corruzione della carne. In questo testo dello scrittore francese non c’è davvero scampo per i personaggi, tutti morbosamente legati da un efferato istinto di sopraffazione e morte; non c’è scampo nemmeno per quelli della nuova regia di Carmelo Rifici, la cui oppressione è acutizzata dalla precisa fissità nella recitazione, dalle soffocanti tonalità tetre e dai suoni roboanti di un’atmosfera infestata (curati con tagliente sguardo da Federica Furlani). Sul palco che è un’arena, i corpi degli attori - nei costumi che fanno corrispondere all’universo militare quello nobiliare - sono le pedine di un gioco pericoloso, che si mostra nella metafora di un duello di scherma; l’eco delle parole di René Girard «l’Uomo diventa veramente Uomo solo nella Guerra» sono il preludio funesto di un conflitto senza vincitore alcuno. Ora due giovani dal volto mascherato si fronteggiano nell’inevitabilità dello scontro, i fioretti entrano in collisione, gli slanci del corpo ne assestano i violenti colpi, creando una risonanza materica agli elementi testuali recitati. Intorno a questo combattimento di immagini, parole e suoni che ossessivamente rievocano una malattia insita nell’umano, e vero focus su cui la regia insiste, si sviluppa la vicenda: la Marchesa di Merteuil manipola con tediosa lascivia le smanie di potere del visconte Valmont; tramite il suo aiuto si vendica dell’ex-amante Gercourt e induce il visconte a corromperne la promessa sposa Cécile. Agendo sul testo, Rifici e Livia Rossi, sono osservatori attenti e partono dall’originale per riscrivere una drammaturgia integrata agli scritti di altri pensatori (da Nietzsche a Simone Weil ad Artaud): la risonanza è contemporanea e il terreno di scontro che si crea apre uno squarcio vivo, oggi più che mai necessario, tra linguaggi, idee e tempi storici. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: drammaturgia Carmelo Rifici, Livia Rossi, ricerca delle fonti Carmelo Rifici, Ugo Fiore, Livia Rossi, regia Carmelo Rifici, con (in ordine alfabetico) Flavio Capuzzo Dolcetta, Federica Furlani, Elena Ghiaurov, Monica Piseddu, Edoardo Ribatto, Livia Rossi

#PALERMO

L’AMANTE (regia Veronica Cruciani)

La vita coniugale di Richard e Sarah, protagonisti de L’amante di Pinter, non è forse esemplare. Veronica Cruciani, nella sua recente regia del dramma, intende «affondare ancora di più il coltello nella piaga», come lei stessa ammette. Della vicenda dei due personaggi, una coppia di sposi che ricorre a travestimenti e tradimenti fittizi per restare unita, il lavoro di Cruciani, visto al Brancati di Catania, coglie da un lato la concretezza della vicenda umana, dall’altro, al contrario e al contempo, quanto appartiene alla finzione scenica. Sul primo fronte, alla vicenda di Richard e Sarah si sovrappone quella degli interpreti, Graziano Piazza e Viola Graziosi – coppia nella vita, e il dettaglio non è insignificante. All’inizio dello spettacolo, vestiti dei loro abiti, agiscono sul palco come provando lo spettacolo che sta per svolgersi. Si attirano subito l’empatia del pubblico, e la manterranno per tutto il tempo: sono vivaci, potremmo dire autentici. Sono davvero marito e moglie, mostrano le mani con le fedi; copione alla mano, si confrontano col testo ripassandone e ripetendo le battute. Ma un po’ alla volta costruiscono il gioco teatrale: scoprono l’arredo della scena (un arredamento in stile Mid-century, “comodo e di buon gusto”), indossano gli abiti di Richard e Sarah. Gli attori incarnano ora i loro personaggi, dunque il loro camuffamenti; tuttavia, su di loro, negli occhi del pubblico, rimane impressa la concreta, smascherata esperienza di vita. Ed è proprio in questa ambivalenza tra il come se e il come è che lo spettacolo diviene un grande dispositivo dal quale, sempre più, viene bandito il richiamo a ogni referenza oggettiva. A consumarsi, sul palco, è un’allucinazione in cui vengono scoperte le turbe e le psicosi di una vita matrimoniale fondata, al pari del dramma in cui essa trova rappresentazione, sulla sospensione dell’incredulità. L’interno borghese diviene un dispositivo in cui gli effetti sonori (di John Cascone), luminosi e cromatici (di Andrea Chiavaro) invadono e trasfigurano la scena, trasformandola nella proiezione di un inconscio rovente, pulsante oltre le più gelide convezioni di rappresentanza. Perché è nelle apparenze della vita reale, il problema; nel mondo dell’immaginazione è ancora possibile salvarsi, insieme. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Teatro Brancati, Catania. Crediti: di Harold Pinter, traduzione Alessandra Serra, regia Veronica Cruciani con Viola Graziosi e Graziano Piazza scene e costumi Veronica Cruciani e John Cascone drammaturgia sonora John Cascone disegno di luci Andrea Chiavaro

QUANTO RESTA DELLA NOTTE (di e con Salvatore Arena)

Una sedia, di legno. La scena dello Spazio Franco non prevede altro se non questo umile, funzionale elemento di arredo. Al monologo scritto e interpretato da Salvatore Arena non serve altro. Quanto resta della notte è un viaggio a ritroso, una risalita spazio-temporale che inverte il flusso più consueto. Il protagonista di questo pellegrinaggio giunge infatti dalla Sicilia, dove ha moglie e figli, in una non meglio precisata località settentrionale – l’accento sembra emiliano. Qui l’attende la madre morente, e assieme a lei un passato immobile, riemerso troppo dolorosamente. Come Silvestro Ferrauto, il protagonista della Conversazione di Vittorini, anche il Pietro interpretato da Arena intraprende un itinerario geografico e psichico nel ricordo e nella sua rievocazione. Si tratta di un affondo nella condizione esistenziale di un’umanità offesa, di un mondo offeso. Seduto su quella sedia, Arena cesella la parola con perizia genuina, imprimendo nella mente del pubblico una serie di immagini vividissime. Il loro susseguirsi delinea l’arco vitale di un’esistenza, singolare e universale, abitata da un’intera collettività e dai suoi usi. All’interno del monologo la provincia pre-industriale, con i suoi legami parentali e comunitari, trova riverbero in una caratterizzazione variegata, agita da Arena attraverso un efficace alternarsi di climax e ritmi. Gli astratti furori di Pietro, comunque sia, non trovano pace neppure nella condivisione della propria esperienza. Il momento in cui il trauma riemerge, definitivo, rappresenta il culmine di una progressiva agnizione che non risolve, e anzi enfatizza, il senso di colpa latente. I tre giorni di permanenza nella casa materna si concludono con la morte della genitrice. Una morte simbolica, nella quale si consuma l’infanzia e la possibilità di recuperare nel presente quel passato. E non è neppure vero: esso si vivifica, per tutta la durata del monologo, nella parola e nell’azione di Arena, così come negli occhi e nella mente dello spettatore. (Tiziana Bonsignore)

Visto allo Spazio Franco. Crediti: di e con Salvatore Arena. di e con Salvatore Arena. Produzione Mana Chuma Teatro. Foto di Marco Costantino

DICERIA DELL’UNTORE (regia di Lia Chiappara)

Diceria dell’untore, romanzo pubblicato da Gesualdo Bufalino nel 1981 grazie alla lungimiranza di Leonardo Sciascia ed Elvira Sellerio, è stato oggetto di una recente riduzione teatrale diretta da Lia Chiappara e prodotta dal Teatro Libero. Ne ricordiamo brevemente il soggetto. Per Diceria si intende un racconto, una fantasticheria suscitata dall’io narrante; questi è un giovane uomo, degente presso la Rocca, sanatorio tra le alture palermitane. Qui il protagonista incontra altri malati, tra i quali Marta, ex-ballerina sensuale e ambigua, destinata a morire. La regia di Chiappara ruota tutta intorno all’incontro e alla relazione tra i due, interpretati da Gabriele Gallinari e Silvia Scuderi. Il loro rapporto si consuma nella struttura che li ospita, qui richiamata dagli arredi ospedalieri della scena. Chiappara sembra mirare a una riviviscenza delle atmosfere del romanzo, ma la sua regia sembra sbilanciarsi troppo a favore della componente letteraria del dramma. E ciò nonostante, la problematica visione bufaliniana delle cose, del complicato rapporto tra malattia e salute, repulsione e amore, morte e vita, rimane un involucro di superficie. La parola dell’autore – parola certo difficilissima, definita, a suo tempo, “barocca” – viene sciorinata dagli interpreti cedendo talvolta all’affettazione. Solo quando il confronto tra i due diviene un fatto carnale, un’intesa di corpi che si offrono e si rifiutano, la gestualità – in particolare quella di Scuderi – riesce a sciogliersi in una più viva naturalezza. Le movenze, più dell’eloquio, sono agite con disinvoltura e padronanza dello spazio, attraversato secondo direttrici fluide e dinamiche. Le belle luci di Fiorenza Dado si riverberano calde sui volti degli interpreti in movimento e in stasi, sulla loro figura e sui loro abiti in stile “novecento” (di Roberta Barrajo). È una parvenza elegante, ma forse un po’ vuota, questa Diceria. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Teatro Libero Crediti: di Gesualdo Bufalino, progetto e regia Lia Chiappara, con Gabriele Gallinari e Silvia Scuderi, luci Fiorenza Dado, costumi Roberta Barrajo, assistenza ai costumi Francesca Mandalà, voci Giuseppe Pestillo

#PRATO

EX-ESPLODANO GLI ATTORI (di Gabriel Calderón, regia Emanuele Valenti)

Un angolo bianco straborda dal sipario chiuso del Teatro Metastasio di Prato giungendo fino in platea. Emanuele Valenti, regista e interprete, apre lo spettacolo in entrambe le vesti, avanzando dalla platea e chiamando in causa lo spettatore. Il denso testo del giovane drammaturgo uruguaiano Gabriel Calderón, qui per la prima volta allestito in Italia, contiene già nel titolo un monito rivolto a chi decide di metterlo in scena. Benché si tratti di una citazione di Pepe Mujica circa l’unica possibilità di fare i conti con gli orrori del passato, racconta efficacemente l’andamento schizofrenico del testo e la richiesta che questo fa tanto alla compagine attoriale quanto al pubblico. Calderón gioca con il tempo, fa schizzare in lungo e largo i suoi frammenti e sfida lo spettatore a ricomporre un puzzle familiare tenuto insieme da poche certezze: la forza della lotta, l’irraggiungibilità del vero e la solitudine del dolore. Il background storico originario può qui essere accessorio al focus della vicenda, orientato sulle conseguenze di segreti e dolori che ogni famiglia nasconde. A muovere una narrazione non priva di umorismo è Ana (Lisa Imperatori), figlia cresciuta tra i misteri della propria famiglia e decisa ora a scoprire la verità. L’espediente fantascientifico cui spesso ricorre Calderón è qui una macchina del tempo che riporta i morti in vita e fa convergere i generi letterari e teatrali più distanti, dal realismo magico a Pirandello fino a Eduardo de Filippo (particolarmente evocato dalla provenienza di gran parte del cast di questa produzione, oltre che dalla tragedia che si consuma attorno alla tavola natalizia). Valenti muove agilmente le schegge della storia sulle gambe di sette interpreti generosi messi alla prova da un ritmo serrato che corre (con qualche sporcatura di esasperata caratterizzazione) fino all’epilogo. La forza del finale coincide con la semplicità devastante dell’assenza di una possibile risposta: il bianco abbacinante avvolge Ana e la sua solitudine, mentre da fuori arrivano i suoni di un’esplosione che forse è soltanto la vita che scorre. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Metastasio. di Gabriel Calderón. Traduzione di Teresa Vila. Regia Emanuele Valenti. Con Monica Demuru, Christian Giroso, Lisa Imperatore, Marcello Manzella, Daniela Piperno, Lello Serao, Emanuele Valenti. Scene Giuseppe Stellato. Costumi Daniela Salernitano. Disegno luci Massimo Galardini

#NAPOLI

MEDEA, UNA MADRE (di Liv Ferracchiati)

Si chiamano Mermero e Fere, anche se nella storia della tragedia sono più spesso nominati come “i figli di Medea”. Sulla scena di Liv Ferracchiati – qui in collaborazione drammaturgica con Piera Mungiguerra – hanno i corpi e le voci di Anna Coppola e Francesca Cutolo, e la scelta di segnare una distanza (anagrafica, prima che di genere) dilata le possibilità dell’astrazione. La figura di Medea, identificata nell’immaginario con il proprio gesto infanticida, è qui destrutturata in forma di enigma femminile e materno. La drammaturgia è composta intersecando passi tratti da Euripide, da Seneca e dalla Medea inedita di Antonio Tarantino, tra i quali si insinuano frammenti originali, e richiede alle attrici di muoversi con destrezza e mestiere, entrando e uscendo dai personaggi che convocano via via sulla scena. Grazie anche a una regia solida e misurata, le interpreti riescono a non smarrire il proprio sguardo di figli – e la propria relazione fraterna, fatta di tenerezza e di agonismo – al cospetto dell’incomprensibile. Sul fondale, in una teca, che si rivelerà accessibile, è custodito il simulacro di Medea. Troneggia nel proprio mutismo di totem ma diverrà – al di qua del tabù, della linea di sangue che ha tracciato – un oggetto che può essere smontato in parti (principessa barbara nel contesto della polis greca, maga, anche lei vittima sacrificale) e dunque, forse, destituito. Se, da un lato, in questa possibilità di ripercorrere e dimenticare sembra racchiusa la promessa della psicanalisi, dall’altro la messa in questione del valore della memoria si fa, sul finale, più radicale e insieme più dolce. Quando il mistero permane, vivere coincide con un’altra crudele cerimonia: quella durante la quale ci si mutila dell’esigenza di comprendere, e di ricordare. Si tratta dell’unica breccia che, per i due, è possibile aprire nella prigionia programmatica del meccanismo della tragedia, che è scritta per essere compiuta. Persino i figli, si dice incidentalmente, se potessero estraniarsi e assistervi, vorrebbero che si compisse. La verità più elementare della violenza pretende di essere elaborata per mezzo del rituale. E, come scrive René Girard ne La violenza e il sacro (1972), «è criminale uccidere la vittima perché essa è sacra...ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse». (Ilaria Rossini)

Visto al Teatro Mercadante. Crediti: con testi da Antonio Tarantino, Seneca e Euripide; ideazione e regia Liv Ferracchiati; drammaturgia Liv Ferracchiati e Piera Mungiguerra; con Anna Coppola, Francesca Cutolo; aiuto regia Anna Zanetti; scene e costumi Lucia Menegazzo; disegno suono e luci spallarossa.

L’ARTE DELLA COMMEDIA (regia Fausto Russo Alesi)

“Qui Pirandello non c’entra niente”, asserisce il capocomico Oreste Campese (Fausto Russo Alesi) guardando dritto in faccia il Prefetto De Caro (Alex Cendron), che ha confuso la realtà per una messa in scena da Sei personaggi in cerca d’autore. Eppure L’arte della Commedia, col suo espediente dei molteplici e confusi piani della realtà, è considerato uno tra i testi più pirandelliani di Eduardo. Ma dello psicologismo da Primo Novecento del drammaturgo di Agrigento non resta che la maschera: tolta quella, c’è il realismo dell’umanità del napoletano. Campese e la sua compagnia hanno appena perso il capannone in cui si esibivano in seguito a un incendio; l’accaduto non ha suscitato le preoccupazioni delle autorità che vengono sollecitate a chiedersi quale effettivamente sia il ruolo del teatro nel nostro paese (in un chiaro richiamo alla storia personale di Eduardo). Fausto Russo Alesi mette da parte l’asfissia ambigua democristiana usata da Eduardo, e opta per elementi minimali (di Marco Rossi) che evocano enormi spazi freddi e vuoti di chiara matrice fascista. Le didascalie vengono lette da un uomo (Michele Schiano di Cola) messo sempre ai limiti fisici della finzione, in disparte tra ribalta e scenografie. Come è dichiarato dallo stesso Campese (più eccentrico di quello originale, che era mosso da una più sottile tensione), la realtà diventa finzione solo se la si percepisce così, e la vita tutta scorre nell’ufficio del Prefetto: le persone, per il gioco del dubbio, diventano tipi ma la loro disperazione, la loro ricerca di dignità è quotidiana. Gli accorati monologhi (brillante , il medico, che dimostra ancora di avere in gola e nel corpo la violenza della tragedia), che sono la cifra dell’arte dell’attore e quindi della finzione, si sviluppano, in uno spazio che si definisce reale, in quadri separati delimitati dalle luci e dagli occhi di chi si pone in disparte e osserva. La vivida maestria restituisce respiro al manifesto di un teatro che non dimentica la vita. (Valentina V. Mancini)

Visto a Teatro San Ferdinando; Crediti: Di Eduardo De Filippo; Adattamento e regia Fausto Russo Alesi; Con Fausto Russo Alesi, David Meden, Sem Bonventre, Alex Cendron, Paolo Zuccari, Filippo Luna, Gennaro De Sia, Imma Villa, Demian Troiano Hackman, Michele Schiano di Cola; Scene Marco Rossi; Costumi Gianluca Sbicca; Musiche Giovanni Vitaletti; Luci Max Mugnai

DON CHISCIOTTE (regia R. Aldorasi, A. Boni, M. Prayer)

Scritto nel 1605, il Don Qujote è un testo che guarda fisso quello che può essere definito il contemporaneo. L’eroe decade per lasciare posto a un uomo solo con sé stesso davanti una realtà che non gli è propria. Intorno a lui prendono forma in maniera compiuta le Classi, le Istituzioni e le contraddizioni della Storia. In veste di registi, Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer non hanno dovuto fare altro che leggere. Leggere, e divertire l’immaginazione degli spettatori realizzandola. Seguire con attenzione lo scritto ha permesso che ci si cimentasse in una portentosa capacità inventiva, che ha fatto della messa in scena di Massimo Troncanetti la grande protagonista dello spettacolo. Biagio Iacovelli trova posto nella pancia di Ronzinante, e il cavallo si anima interagendo realisticamente con lo spazio circostante: qualcosa che ha a che fare con la meraviglia e l’ingegno. L’ingegno caratterizza tutto il lavoro, come l’abilità di restituire materialità la componente letteraria. La finzione (che è realtà teatrale e invenzione ed espediente narrativo) è l’esplicito strumento che ricopre l’intero spazio scenico. Una lama di luce gialla su un fondo roccioso (abilissimo il disegno di luci di Davide Scognamiglio) rimanda alla regione della Mancia. Pochissimi elementi (alberi, troni, pedane, facciate di edifici) stilizzati fino all’astrazione e manipolati dagli stessi attori, all’occorrenza servi di scena. Appeso per aria, Don Chisciotte (un Alessio Boni uscito dalle celebri illustrazioni di Doré) sogna e invoca la sua Dulcinea tra evanescenti immagini d’amore; a seguirlo il buon Sancho (meravigliosa e irriverente Serra Yilmaz) vestito del suo mulo. Ciò che il cavaliere affronta è parzialmente celato agli occhi dello spettatore (l’unica pala del mulino, oppure il gregge-esercito saraceno), perché è sufficiente che il protagonista lo nomini e lo viva affinché diventi presente. E lo spettatore, con spirito da lettore, si presta a credere che sia tutto vero. (Valentina V. Mancini)

Visto a Teatro Mercadante; Crediti: Adattamento di Francesco Niccolini; Drammaturgia di Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer e Francesco Niccolini; Regia Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer; Con Alessio Boni, Serra Yilmaz, Marcello Prayer, Francesco Meoni, Pietro Faiella, Liliana Massari, Elena Nico; Ronzinante Biagio Iacovelli; Scene Massimo Troncanetti; Costumi Francesco Esposito; Luci Davide Scognamiglio; Musiche Francesco Forni

#ROMA

IO SONO NIJINSKY (di Daniele Bernardi)

Un uomo vestito di bianco tira una slitta, il vento lo colpisce, una luce azzurro ghiaccio lo accompagna mentre attraversa lo spazio da destra a sinistra fino a quando metterà i piedi in un quadrato, anch’esso bianco, in quel momento la luce cambierà mostrando con maggiore calore la figura nella sua interezza. Sulla slitta una marionetta, verrà poi appoggiata su una croce. A destra della lapide una casa in miniatura, illuminata. Sul limitare sinistro un albero di natale. Daniele Bernardi, bianco in volto, in bocca una bizzarra pronuncia che si incaglia sulle r e sulle s. Nijinsky aveva difficoltà a parlare, mi spiegherà poi. Ma questo lavoro visto al Teatro Lo Spazio  è tutt’altro che un racconto realistico della vita del mitico danzatore dei Balletti Russi. Bernardi ha la capacità evidente di estrarre l’essenza poetica dalla drammaturgia da lui stesso costruita a partire dai diari dei Balletti Russi di Vaslav Nijinsky e dalle biografie scritte dalla moglie del ballerino, la contessa ungherese Romola de Pulszky. Come d’altronde è poetico il piano visivo, nel bianco di un segno preciso che ha un purezza orientale (si veda l’omaggio a Masaki Iwana sulla locandina) nella costruzione di un personaggio teatrale che, al di là della sovrapposizione o meno con il ballerino, è omaggio alla passione artistica e all’immagine teatrale intesa come epifania scenica. Io sono Nijinsky, visto sul palco del Teatro Lo Spazio, è una scoperta preziosa; Bernardi ha trovato un linguaggio in grado di creare un piccolo mondo in cui far apparire la vita dolorosa, ma anche affascinante del Dio della danza: dal rapporto - oggi diremmo tossico - con il celebre impresario Djagilev, al tempo trascorso a St. Moritz, dalla povertà in Russia alle grandi tournée internazionali. Poi quella scena, debordante, eccessiva, ma coerente con chi credeva d’altronde di avere un canale diretto di comunicazione con Dio, Bernardi la racconta con maestria. L’attesa di fronte a centinaia di persone per uno spettacolo in casa, proprio a St. Moritz: Nijinsky è immobile, guarda gli spettatori senza cominciare, per un tempo infinito, prima di prendere il volo. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Lo Spazio di e con Daniele Bernardi a partire dall’opera di Vaslav Nijinsky scenografia, oggetti di scena e tessuto sonoro Ledwina Costantini costumi Luisa Beeli voce fuori campo Raissa Avilés assistente Elisa Pagliaro fotografie di scena Alessandro Ligato. Dal 17 al 19 marzo al Teatro o Spazio di Roma

PENG (regia di Giacomo Bisordi)

Ci vogliono attori capaci per rimanere in bilico in quel limbo in cui realtà, demenzialità e surreale si incrociano, ci vuole una mano registica in grado di organizzare gli elementi sulla scena e restituire così al pubblico una mappa di senso: a Giacomo Bisordi bisogna riconoscere il coraggio delle sfide, sempre alle prese con il teatro inteso come atto collettivo. Qui, con il testo di Marius von Mayenburg del 2017, la cifra politica è evidente. Ma il regista ha un acuto senso dello spettacolo e dunque cerca mille modi per fuggire dall’immobilismo, dal banale e dal pensiero statico. Ralph Peng (un Fausto Cabra che non si risparmia) è il protagonista di una storia bizzarra, a metà tra l’apologo acido e la distopia. In scena di fronte a noi,  tra uno schermo issato in alto e un altro laterale, nasce un bambino, già adulto, sotto il segno della violenza e della sopraffazione: è stato lui ad ammazzare la sorella gemella mentre erano ancora nel grembo materno. Ha negli occhi quel male oscuro di un Alex di Arancia Meccanica, ma ha ambizioni più grandi e assolute. Lo spettacolo visto al Vascello che ne è anche produttore, segue la vita del ragazzo inserendo quella dei genitori in una sorta di reality televisivo, con tanto di finte pubblicità. Bisordi riadattando il testo di Mayenburg, anche con importanti interventi, ci dice che oggi non si può evitare di stare al centro della scena. I genitori di Ralph (brillanti Aldo Ottobrino e Sara Borsarelli) non rinunciano alla visibilità di un documentario sulla loro vita, ma non hanno il minimo potere sulle follie del figlio. Vi è una divertente tensione negli accadimenti scenici che riescono a stimolare continuamente lo spettatore a discapito di una logica drammaturgia ferrea (forse avrebbe giovato qua e là il recupero di una certa coerenza). Da segnalare, tra le tante scene in  grado di accendere riflessioni, il monologo della dottoressa che aveva fatto nascere il  bambino: violenza, guerre e assassini hanno a che fare con l’ormone maschile, la dottoressa, nell’invocazione accorata e toccante di Anna Chiara Colombo, sogna un mondo senza il veleno del testosterone.

Visto al Teatro Vascello di Marius Von Mayenburg traduzione Clelia Notarbartolo con Fausto Cabra, Aldo Ottobrino, Sara Borsarelli, Francesco Sferrazza Papa, Anna C. Colombo, Francesco Giordano e con la partecipazione in video di Manuela Kustermann regia Giacomo Bisordi produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello con il contributo di NuovoImaie

SAMMARZANO (di Malmand Teatro)

Secondo gli ultimi dati pubblicati da openpolis «nel settore agricolo il tasso di irregolarità è stato riscontrato al 58%; il 44% dei lavoratori impiegati risulta completamente in nero e quello agricolo risulta il primo settore per vittime di sfruttamento […] Peculiare del sistema italiano è soprattutto la gerarchizzazione interna […] nonché una particolare esposizione dei lavoratori stranieri e tra questi soprattutto di quelli extracomunitari». Giusto qualche dato per comprendere quella tratta palese rappresentata dagli enormi camion su cui lavoratori - provenienti principalmente da India, Albania e Marocco – vengono ammassati alle prime luci dell’alba per poi rientrare dopo minimo 12 ore di raccolta dei pomodori nelle baracche del Gran Ghetto, nel Foggiano. Questo stato delle cose è il punto di partenza di Sammarzano, lazzo scenico di Malmand Teatro, con la regia di Ivano Picciallo, che trasla la realtà in una narrazione funambolica privata del peso del dramma e ci parla del caporalato attraverso gli occhi di Dino, senza dubbio lo scemo del villaggio. Perché solo uno scemo potrebbe infatti spiegare questa disumanità messa a sistema. La favella ingenua ma cinica di Dino - un convincente e incantato Francesco Zaccaro, insieme a Adelaide Bitonto, Giuseppe Innocente e Ivano Picciallo, loro sono più maschere che personaggi definiti - restituisce il gioco delle parti e ruoli della Commedia dell’Arte. Meno credibile e chiaro tuttavia è l’uso delle maschere sul volto che, se da un alto avvalora il grottesco, dall’altro rischia invece di stigmatizzare la figura del bracciante in quella del servo, o comunque in un ruolo che non permette il riscatto sociale. Dino tra un intercalare e l’altro, seduto a lato della scena, tesse insieme la drammaturgia suddivisa in quadri autonomi: immagini rappresentative, quasi luoghi comuni, del Sud, come le lamentele degli anziani seduti al vespro davanti ai portoni, la taranta ballata da una vedova, i numeri degli imprenditori agricoli e anche la morte, di chi non ce la fa, sancita da una finale risata beffarda. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Basilica: di Malmand Teatro; regia Ivano Picciallo; con Adelaide Di Bitonto, Giuseppe Innocente, Ivano Picciallo, Francesco Zaccaro; luci Camilla Piccioni; costumi Lorena Curti; aiuto regia Marta Franceschelli; maschere Officine Zorba; foto e grafica Manuela Giusto; produzione Teatro Kismet – Teatri di Bari; con il sostegno di IAC – I nuovi scalzi - Nuovo Cinema Palazzo

DA LONTANO – CHIUSA SUL RIMPIANTO (di Lucia Calamaro, con Isabella Ragonese)

La fisionomia dei nostri prossimi è un territorio mutevole. La lontananza è come un agente atmosferico che erode, leviga, dissesta le forme di quel territorio, un vento fra le cose che mangia i confini, mettendo in crisi il concetto di identità. Così la domanda più semplice e radicale che ci possiamo porre di fronte all’alterità, chi-sei-tu, spesso finiamo per rivolgerla nel tono più dolente alle figure che dovremmo conoscere meglio. È possibile una risposta che non ci disorienti, che non inauguri una miriade di altri interrogativi, fino a minare il senso stesso della propria identità? Da lontano – chiusa sul rimpianto di Lucia Calamaro dà forma a questa paralisi, quando il volto messo in questione è quello di una madre. Isabella Ragonese entra in scena esitando, su una porzione bianca del palco che forse è casa, forse è una sala d’attesa, forse un interno, forse un esterno. Dietro una quinta bianca il rumore e la voce di una madre (Emilia Verginelli) distorta da una distanza imprecisata, ma tratteggiata dal tono acuto di bambina o di anziana, dal suono-memoria di una tv accesa o dall’immagine-memoria di un untissimo supplì. Isa è una psicoterapeuta in seduta con sé stessa, a convegno con la rimozione rappresentata da quella parete bianca che protegge e nasconde una fragilità. Sua madre è quella fragilità, una fragilità senza oggetto che non prende mai le forme di una biografia, ma di un rimpianto cosmico. La statura archetipale, sospesa fra realtà e sogno di questa figura si staglia ancor più netta che in altri personaggi nati dalla penna di Lucia Calamaro: tuttavia, proprio qui, l’inafferrabilità del personaggio si scontra con l’interpretazione di Isabella Ragonese, in cui il lirismo del testo diviene affettatezza e cui difetta di efficacia il registro comico connaturato alla scrittura. Finisce così sottotraccia il suo personaggio, soverchiato proprio dall’assenza perfetta della madre, tutta riassunta nel suo cimento, portato avanti durante il dialogo con la figlia, di aprire una finestra sul cielo stellato in quella stanza-al di là, oltre la parete. (Andrea Zangari)

Visto al Teatro India, Roma. Scritto e diretto da Lucia Calamaro, per e con Isabella Ragonese, con la partecipazione di Emilia Verginelli, disegno luci Gianni Staropoli, costumi Francesca Di Giuliano, scene Katia Titolo, foto di Natalia Nieves Iszakovits, produzione Pierfrancesco Pisani e Isabella Borettini per Infinito Teatro e Argot Produzioni, in collaborazione con Riccione Teatro

NOTTUARI (regia di Fabio Condemi)

Nel mettere sulla scena un epos antico e intricato come il gotico e il fantastico e per vincere la tentazione di uno spettacolo a “effetti speciali”, il teatro ha a disposizione l’ “horror esistenziale”, in cui i demoni dell’umano manifestano in scena una veduta dell’insopportabilità del vivere. In Nottuari, diretto e scritto da Fabio Condemi e ispirato alle opere di Thomas Ligotti, il lavoro di Fabio Cherstich fornisce un impianto visivo rigoroso e suggestivo all’idea del regista, in un complesso esperimento che tenta di tenere insieme ferrea disciplina estetica e perturbante manipolazione intellettuale. Una bianca struttura geometrica nasconde un corridoio e da essa, avanzando in proscenio, dei moduli a “kabinet” portano in primo piano i quadri dell’azione. La drammaturgia giustappone due racconti (La Medusa, dalla raccolta Nottuario, e Comunicazione prematura, da Teatro Grottesco) legati da un meta-ragionamento sul rapporto morboso tra bellezza e orrore e sulla necessità di quest’ultimo come specchio immaginifico che protegge (o condanna) l’essere umano nel suo guardare alla morte e all’inconcepibile caducità della vita. Nel saggio Di notte, al buio Ligotti dichiara: «[…] il racconto del mistero custodisce nel proprio nucleo una sorta di abisso dal quale il misterioso emerge, ma nel quale il misterioso non si può inseguire per analizzarlo o risolverlo». L’efficace presenza degli interpreti, l’indubbia carica visiva e certe felici intuizioni drammaturgiche tendono a perdersi, a volte, in un’argomentazione che in una sintassi estetica distribuisce la semantica del discorso senza mai davvero concedere il brivido della libera associazione o dello spericolato smarrimento. Va però detto che, se il repertorio di altre grandi voci della letteratura fantastica (come Lovecraft o Poe) è composto da saggi critici che definiscono la prospettiva sul genere e da narrazioni che la realizzano, in Ligotti sembra più che i primi intervengano a giustificare le seconde, in un’operazione autoptica non sempre vincente e spesso fatalmente autoindulgente. (Sergio Lo Gatto)

Visto al Teatro India, Roma. Crediti: ispirato alle opere di Thomas Ligotti; regia e drammaturgia Fabio Condemi; scene, drammaturgia dell’immagine Fabio Cherstich; musiche originali Paolo Spaccamonti; sound designer Andrea Gianessi; con Carolina Ellero, Julien Lambert, Francesco Pennacchia; e con la piccola Ludovica Marsilii

LE BACCANTI (regia di Giuseppe Argirò)

Dioniso è donna – scelta non inusuale, si guardi anche alla versione di Carlus Padrissa andata in scena un paio di anni fa a Siracusa – e si presenta su un gradino, unico elemento scenico al centro dello spazio, riccioli quasi biondi, leggins neri e soprabito lungo, quotidiano insomma, umano. L’allestimento visto al Teatro Arcobaleno di Roma è visivamente povero ma funzionale alla messa in evidenza del testo. La  drammaturgia di Giuseppe Argirò fa a meno dei lunghi cori per agevolare l’azione e avere così uno spettacolo compatto della durata di poco più di un’ora; la regia, dello stesso Argirò, si concede solo il vezzo visibile di alcuni momenti di fumo e luci colorate, come nel primo monologo di Dioniso che ha funzione di prologo. Giacche lunghe, a quattro bottoni, che ricordano certi ambienti anni cinquanta e una musica elettronica a la Goblin sottolineano un immaginario lontano dalla Grecia antica; siamo in una sorta di Novecento fantastico, ma il minimalismo generale contrasta con l’enfasi delle sottolineature musicali. Netto e preciso però il lavoro sul testo, anche da parte degli interpreti, di tanto in tanto il Dioniso di Micol Pambieri si fa trascinare dal tono suadente e rischia di divenire enfatico. Puntuale, ricca e stentorea la vocalità del Penteo recitato da Maurizi Palladino, Cadmo (Giuseppe Argirò) e Tiresia (Luigi Mezzanotte) hanno buon gioco nel grottesco, Melania Fiore è una corifea efficace, commovente il messaggero di Silvia Siravo nel finale – in grado di assolvere proprio al ruolo tragico di colui che porta il racconto crudo della morte di Penteo ad opera della madre; proprio da Agave nel finale forse ci si aspetterebbe una profondità maggiore, una ricchezza di toni e sfumature silenziati invece nell’approccio di Silvia Arosio. La battuta di chiusura la pronuncia Dioniso: “Non avrete altro Dio all’infuori di me”, con la quale Argirò lancia una suggestione cristologica interessante e centrata che avrebbe meritato di emergere già durante lo svolgimento della tragedia. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Arcobaleno: Adattamento e Regia di Giuseppe Argirò Con Micol Pambieri e Silvia Siravo Luigi Mezzanotte, Giuseppe Argirò, Maurizio Palladino, Elisabetta Arosio, Melania Fiore, Vinicio Argirò

THE COLLECTION (coreografia di Alessandro Sciarroni)

Nel 2012 Alessandro Sciarroni aveva avviato la trilogia Will You Still Love Me Tomorrow? con Folk-s: sei performer eseguivano un pattern di danza tradizionale Schuhplattler in un loop interrotto solo dal desistere degli interpreti o degli spettatori. In un lavoro su «resistenza, sforzo e concentrazione» completato dai successivi Untitled_ (2013) e Aurora (2015), si ragionava sulla possibilità del corpo di contenere l’essenza di una pratica, da ravvivare nella pura esecuzione, nel rispetto di regole di convivenza tra azione, relazione, sguardo. E, in definitiva, gioco. Proprio qui è il nuovo senso della creazione The Collection, in cui il pattern è eseguito da dieci interpreti del Ballet de l’Opéra de Lyon. Se Folk-s proponeva nella sua semplicità un’esperienza percettiva eccezionale per performer e spettatori e faceva della durata estenuante la regola principale, qui i corpi sono formati a una precisa pratica scenica. Investiti dal gioco della ripetizione e della resistenza, sono in grado di controllare – non senza un visibile, commovente, divertente e divertito sforzo – una concentrazione sopraffina, che apre a una composizione coreografica complessa. Partitura e trama musicale sono costellate di appuntamenti chiari: cesure e asole lasciano al corpo di ballo l’opportunità di proporre e direzionare sfide, cambi di ritmo e registro. Il risultato è una relazione di gesti e sguardi che costruisce un vero campo magnetico, che incatena l’attenzione a una giostra scenica che abbraccia l’intera platea. Al termine dell’ora e mezza di spettacolo (certe repliche di Folk-s avevano raggiunto le 4 ore di durata), il commento di una spettatrice è: «Peccato che i danzatori hanno poca libertà di esprimersi». No, signora, è proprio il contrario. Difficilmente si trovano esperimenti che con maggior chiarezza comunichino l’essenza dello stare sul palco. Qui e ora. Fino a quando dipende solo da noi. (Sergio Lo Gatto)

Visto all’Auditorium Parco della Musica di Roma per Equilibrio 2023. Crediti: Coreografia Alessandro Sciarroni; Musica Pablo Esbert Lilienfeld; Luci Rocco Giansante; Costumi Ettore Lombardi; con danzatrici e danzatori del Ballet de l’Opéra de Lyon.

FESTEN IL GIOCO DELLA VERITÀ (Mulino di Amleto)

Vincitore del  premio della critica a Cannes ‘98, primo e iconico film del manifesto Dogma ‘95 (firmato da Thomas Vinterberg e Lars Von Trier), Festen segnò profondamente la nostra memoria di spettatori. Nel film di Vinterberg c'è un attimo in cui tutto crolla: Christian si fa coraggio e fa suonare il bicchiere per chiedere attenzione, dopo quel tintinnio niente sarà più lo stesso per la ricca famiglia danese. Accade anche a teatro, con l’adattamento (il primo in Italia) operato da Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi sulla sceneggiatura originale. Lorenzi, regista del Mulino di Amleto, crea due piani, uno interno al palcoscenico nel quale si muove la compagnia e un altro cinematografico, un velatino attraverso il quale possiamo vedere ciò che accade sul palco e sul quale allo stesso tempo viene proiettato il film. Una sorta di live cinema costruito grazie all’artigianato teatrale (a basso budget strizzando l’occhio proprio ai dettami di Dogma ‘95), gli stessi interpreti a turno si fanno operatori evidenziando così anche una simbologia drammaturgica: la ricca famiglia non può far altro che mettersi in mostra, come moderni mostri da social network vivono per quella telecamera, anche quando tutto crollerà, anche quando il protagonista rivelerà la storia di abusi sotterrata nell’infanzia. Probabilmente c’è ancora qualcosa da rivedere nel rodaggio attorale, in alcune scene di parossismo e isteria, o in certe scelte registiche, come i fuori palco o i momenti comici poco utili allo svolgimento. Ma è potente l’allestimento quando riesce ad equilibrare il portato teatrale con quello filmico: suggestivo e denso di attenzione proprio il momento del tintinnio, Christian (Elio D'Alessandro lavora su naturalezza e minimalismo) è in proscenio, oltre il velatino, e la camera inquadra i volti attoniti dei familiari. Quando lo spettacolo si avvita nella tragedia l’ensemble dà il meglio: negli occhi del padre (Danilo Nigrelli) al pubblico, “cosa avete da guardare”, come fosse uno sguardo in macchina e nella piccola e ferma voce della madre (esemplare Irene Ivaldi), nelle sue lacrime. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Sala Umberto: tratto dal film diretto da Thomas Vinterberg, scritto da Mogens Rukov & BO Hr. Hansen versione italiana e adattamento di Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi con Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi e (in o. a.) Yuri D'Agostino, Elio D'Alessandro, Roberta Lanave, Carolina Leporatti, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca regia Marco Lorenzi

CATTIVO (con Tommaso Banfi, regia di Giuliana Musso)

Nato dalla lettura registrata di un monologo elaborato a partire dal romanzo Cattivi di Maurizio Torchio, il lavoro autorale di Tommaso Banfi diretto da Giuliana Musso fende l’impalcatura della nostra coscienza civile e, prima disarmandola, la ricostruisce convinzione dopo convinzione, cementandola in un’etica del rispetto. Cattivo stringe il pubblico in un magone di affetto e paura per la confessione - «io ho bisogno di parlare» - di questo detenuto condannato alla «prigione della prigione», l’ergastolo in un carcere-isola. «Io voglio difenderlo» ci dice Banfi in un prezioso momento post spettacolo, ed è la difesa della dignità del criminale, della cura per la sua contraddizione di vittima e carnefice a brillare nel buio, tra l’infantilismo sentimentale e la spietatezza della sofferenza. Attraverso un’interpretazione naturalistica che si rivolge direttamente alla platea, l’attore crea un altro da sé, con movenze claudicanti, la gestualità rattrappita e poi dispiegata negli slanci di braccia agitate in un effimero moto di libertà; la mandibola portata in avanti a chiudere in una morsa la bocca, incespicando una parlata lombarda sdentata, stringendo a sé un telo di plastica verde – che è coperta, rifugio, terra e ostaggio anche - e sedendosi su uno sgabello; simboli scelti dallo scenografo Francesco Fassone per rendere la scena un vuoto pneumatico. Tanto che le minimali note musicali quasi disturbano quel silenzio che esalta la parola. «Non possiamo non leggere sui muri: “no al 41bis”, “Alfredo libero”, “assassini”» riflette Banfi insieme all’uditorio che al termine dello spettacolo si interroga sulle prerogative afflittive e criminogene del sistema carcerario, ora sollevate dall'attualità del caso Cospito. Le stesse che Cattivo, grazie all'onestà interpretativa di Banfi e alla direzione di Musso, chiarifica nella storia del rapitore e assassino, di colui che non avrebbe voluto uccidere ma lo ha fatto perché è stato condotto a farlo, a sprigionare la morte che aveva dentro, una volta uscito fuori. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo: monologo tratto dal romanzo Cattivi di Maurizio Torchio, con Tommaso Banfi, regia Giuliana Musso, adattamento testo Tommaso Banfi, dispositivo scenico Francesco Fassone, musiche Claudio Parrino sarta Chiara Venturini, residenza artistica Olinda/TeatroLaCucina Una co-produzione Compagnia ariaTeatro e La Piccionaia Centro di Produzione Teatrale