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L’amore tossico di Onegin alla Scala

Al Teatro alla Scala torna il balletto drammatico Onegin di John Cranko, in un formidabile cast di giovani interpreti dalla cui sorprendente dinamicità è possibile trarre nuove risorse interpretative per coniugare questo repertorio direttamente al presente. Arrangiamento e orchestrazione Kurt-Heinz Stolze, direttore Felix Korobov.

Mattia-Semperboni – Foto Marco Brescia & Rudy Amisano

Per Vittoria Ottolenghi, decana della critica italiana di danza, Onegin (1965) è balletto che racchiude tutte le «connotazioni spesso contraddittorie» del credo coreografico di John Cranko: «Cranko narratore e Cranko astratto poeta dell’immagine». Ispirato all’omonimo poema in versi di Puškin, il balletto in tre atti enfatizza soprattutto la personalità tossica dello sgarbato e manesco poeta Onegin che deride l’amore di Tat’jana stracciandole in faccia una sua lettera d’amore; seduce per noia la sua amica del cuore Ol’ga, provoca e uccide a duello il di lei fidanzato Lenski. Anni dopo, ravveduto, Onegin offre il suo amore a Tat’jana ma grazie al cielo è tardi, stavolta è lei che straccia sul muso di lui la lettera d’amore e, pur amandolo ancora, ma senza bisogno alcuno di contropartita, lo mette alla porta, per sempre. Qui l’abbandono doloroso rigenera da ogni violenza manipolatrice in un lucido esame della realtà. Poiché è balletto stranoto, si trova nel repertorio di moltissime compagnie; così le sfumature in ogni ripresa si moltiplicano, nuove ombre si addensano e i toni spesso si riversano, fuori governo.

Gabriele Corrado nel ruolo di Onegin è un vero talento, perché ha la capacità di prendere il movimento dalla musica. Non recita ma è già tutto nel suono (dote rara, perché trasforma l’interpretazione in una sorta di orchestrazione delle richieste sul piano espressivo/interpretativo). Alice Mariani nel ruolo di Tat’jana ha una leggerezza per niente accademica, ma sembra avere una vita propria, capace di scansare gli stereotipi del ruolo, a favore di una presenza assai consapevole del suo essere nello spazio.

Foto Marco Brescia & Rudy Amisano

È bravissima a coniugare il passo con la temperatura dell’azione: la sua agency rivendica perfettamente tutto il suo potenziale, e sarà una meraviglia seguirla in futuro. Il lavoro narrativo di John Cranko è pieno anche di anticlassicismo (come già per Tudor, come poi soprattutto per MacMillan), e il nemico numero uno, in termini interpretativi, di questo repertorio moderno del balletto contemporaneo, è la sua normalizzazione (neutralizzazione stavo per scrivere) in un monotono classicismo, capace solo di applicare regole. Ossia, il pericolo di intendere classico ciò che propriamente non vuole essere. Si tratta di un’operazione che è insieme critica e politica, e investe direttamente la natura dei rispettivi saperi: il modernismo (sulla cui coda questo balletto comunque nasce) è stata una esperienza di ibridazione e contaminazione ma anche di reazione e di uscita dal presente. Il classico nel balletto, quando si è preso a chiamarlo contemporaneo, ha trasformato la garanzia in esso del ritorno del passato, in una giostra di effetti ben equipaggiata. Mentre, in Cranko, il narrativo grottesco è un correttivo politico alla fissità assoluta del classico, e ai suoi inarrivabili ideali di ordine e bellezza.

Foto Marco Brescia & Rudy Amisano

Mattia Semperboni nel ruolo di Lenskij, colpisce per l’estrema eleganza e le belle conclusioni in forte dinamica: nel primo atto, è irresistibile la qualità affettiva del suo piqué en dehors che scende in ginocchio e poi apre in quarta a terra, con la devozione felice e disperata di chi più non crede ad alcuna gerarchia. È il giorno del tutto-è-possibile. Anche la scena del monologo premorte (che anticipa il duello con Onegin) è di una vitrea pulizia, perché la disperazione nel Lenskij di Semperboni è esperienza dell’ordine, come i suicidanti preparano il set con diligenza meticolosa e decorosa mestizia, affinché nessuno abbia poi a lamentarsene: l’immacolato come garanzia di innocenza, già di espiazione prima che di condanna. Semperboni (ma come un po’ tutt* in generale) sembra meno attratto dal dramma, e più dalla dimensione contraddittoria che nasce quando si sostituisce al ricatto del pathos la realtà del commiato. Ed è, in termini più teorici, l’aporia nel mondo di Cranko tra la narrazione e l’astrazione dell’immagine.

Ci sono, anche, delle minuzie davvero mirabili nella scrittura coreografica, come la breve scazzottata (prima del duello) tra Onegin e Lenskij con Tat’jana e Ol’ga fra i piedi: qui tutt* devono essere pront* perché non basta fingere contrasto e simulare aggressività, ma il senso dell’azione occorre saperlo riconoscere nel tempo dinamico della scrittura del movimento. E la qualità espressiva di Cranko è già tutta lì.

Foto Marco Brescia & Rudy Amisano

Infatti, quando tutto nel movimento funziona, paradossalmente, trattandosi interamente di Čajkovskij, è proprio la musica (un insieme di pezzi del compositore russo arrangiati e orchestrati, per Cranko, da Kurt-Heins Stolze) che non sembra sempre ben assemblata, nel suo giusto rapporto consequenziale, drammaturgicamente compiuta. Insomma, la musica si avverte (ed è verosimile) in ritardo sulla modernità. Ma è soprattutto nel finale che la coppia protagonista dà vita, quasi a contrasto del lento nel tempo musicale, a un crescendo dei corpi che toglie il fiato e la voce. Da sempre è scena del congedo straziato, e realizzata anche dai maggiori interpreti con un intenso gioco di sguardi, di quasi statico tira-e-molla, sempre a rischio di inerzia. Nella replicata catena a proscenio della coppia Corrado-Mariani del finale, invece, lui scende in ginocchio e poi si apre in quarta a terra e poi risale passando dal ginocchio in una tensione continua di braccia che spinge fuori equilibrio la presa e che dice, nell’autarchia delle linee, tutta la difficile emancipazione dalle manipolazioni d’amore.

Stefano Tomassini

Milano, Teatro alla Scala, Settembre 2022

Pëtr Il’ič Čajkovskij
Durata spettacolo: 2 ore e 25 minuti ca. incluso intervallo
PRIMO ATTO 40 minuti / Intervallo 25 minuti / SECONDO ATTO 30 minuti / Intervallo 25 minuti / TERZO ATTO 25 minuti
Produzione Teatro alla Scala
Corpo di Ballo del Teatro alla Scala
Orchestra del Teatro alla Scala
Balletto in tre atti di John Cranko
Ispirato al poema di Aleksandr Puškin
Arrangiamento e orchestrazione Kurt-Heinz Stolze
Direttore Felix Korobov
Scene Pier Luigi Samaritani

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Stefano Tomassini
Stefano Tomassini
Insegna studi di danza e coreografici presso l’Università Iuav di Venezia. Nel 2008-2009 è stato Fulbright-Schuman Research Scholar (NYC); nel 2010 Scholar-in-Residence presso l’Archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (Lee, Mass.) e nel 2011, Associate Research Scholar presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University (NYC). Dal 2021 è membro onorario dell’Associazione Danzare Cecchetti ANCEC Italia. Nel 2018 ha pubblicato la monografia Tempo fermo. Danza e performance alla prova dell’impossibile (Scalpendi) e, più di recente, con lo stesso editore, Tempo perso. Danza e coreografia dello stare fermi.

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