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HomeArticoli | Cordelia | maggio 2022 

 | Cordelia | maggio 2022 

RECENSIONI  BREVI MA INTENSE. Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

 Scorrete fino alla fine per trovare tutte le opere recensite finora.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia


 SPECIALE OVER EMERGENZE TEATRALI III EDIZIONE #ROMA 

La rassegna OVER / Emergenze teatrali conclusasi lo scorso weekend al Teatro Argot è stata voluta dalle direzioni artistiche di Argot Produzioni, NEST – Napoli Est Teatro e Argot Studio per «valorizzare l’esperienza di artisti che stanno cercando di affermarsi professionalmente». Chi fa teatro oggi sa bene che, in un periodo storico dominato dall’effimero, la stratificazione di segni, la costruzione di un repertorio, la stabilità produttiva sono prerogative quasi irraggiungibili. Bisogna avere le idee chiare e competenze trasversali che vadano oltre quelle artistiche per comprendere anche quelle tecnico amministrative. E allora protezione e accoglienza sì, ma non troppo. (intro e recensioni di Lucia Medri)

HOW LONG IS NOW?

L’interrogativo che ci ha accompagnato durante tutto il primo lockdown, che è anche tensione verso una prospettiva che possa essere diversa dall’orizzonte attuale, è stato estrapolato da Cubo Teatro prima in How long is now?, un’installazione realizzata nell’estate 2020, e poi nello spettacolo omonimo. Il flusso visivo proiettato alle spalle di un cubo – sul quale sono posati una tastiera, una tazza, una piantina, finta, e una lampada a led – giustappone una sequenza di pezzi di storia a partire dalla caduta del Muro di Berlino fino alle strade vuote della prima ondata pandemica. È un glitch: la narrazione videoartistica si unisce alla ricreazione, sintetica, di un habitat virtuale all’interno di uno casalingo. Limando alcuni eccessi di pathos (come nel quadro Testamento), tanto la regia che l’interpretazione restituiscono l’immagine paradigmatica dello stato d’animo di una generazione in lockdown e del presente in cui cerca di sopravvivere. Adam e Eva hanno infatti deciso di andare a convivere. La casa ora è silenziosa, e ferma. Più bloccato lui (Stefano Accomo) rispetto alla spontaneità di lei (Dalila Reas) i due costruiscono con premura un equilibrio di psicologie complementari, di entusiasmi e rallentamenti, per lasciare come coppia un segno nel futuro. Anche fosse nell’assenza.
Con Dalila Reas e Stefano Accomo. Regia Girolamo Lucania. Sound Design Ivan Bert. Musiche originali Wor. Visual Art Riccardo “Akasha” Franco Loiri. Produzione CUBO TEATRO/2020. Foto: Giacomo de Angelis

IN MARCIA

Intriso di letterarietà e di lirismo, temi dialoganti con la mostra di Pietro Gottuso allestita nel foyer durante le repliche, è In marcia della compagnia Hosteria Fermento, vincitrice del Premio OVER 2020. Tre viaggiatori soldato sognano di tornare a casa, in un mondo diverso da quello che li ha spinti a una guerra di cui non ne conoscono neanche più la finalità. Come fossimo in una sorta di Aspettando Godot che incontra anche un po’ l’immaginario de Il signore delle mosche, i tre sono dentro e fuori dai loro personaggi, in una dinamica, a volte cedevole, in cui l’escamotage metateatrale permette loro di estraniarsi dai ruoli e presentarsi come persone, o meglio, teatranti che nel convincere il pubblico del loro viaggio, vogliono convincerlo anche del loro spettacolo. Tra battute no sense e imprevisti comici, la drammaturgia e la regia scontano la triplice autorialità (Marco Valerio Montesano, Michele Enrico Montesano e Francesco Pietrella), si percepisce infatti una scrittura dalle diverse identità che in alcuni passaggi si fa troppo eclettica e perde di risolutezza, mentre l’interpretazione, la pertinenza e l’eterogeneità dei caratteri spicca per attenzione, cura e coerenza. La sintesi finale, incarnata dall’incontro con lo straniero, sottolinea come l’alterità sia in grado di suscitare l’autoanalisi, di porre degli interrogativi sullo scopo di questa marcia: sarà poi così importante giungere a destinazione, o sarebbe meglio fermarsi e porsi in ascolto di noi stessi?
Drammaturgia e regia Marco Valerio Montesano, Michele Enrico Montesano e Francesco Pietrella. Interpreti Sebastiano Bronzato, Simone Chiacchiarelli, Marco Valerio Montesano, Michele Enrico Montesano. Produzione Argot Produzioni. Foto: Giacomo de Angelis

UCCELLI DI PASSO

Ci voleva un po’ di sana e necessaria maleducazione. Di quella che mette il pubblico con le spalle al muro, che non gli lascia scampo, che lo fa atterrire, ridere, commuovere, interrogare rispetto a quello che sta vedendo, ma mai dubitare. Il Collettivo BEstand con il suo Uccelli di passo – progetto finalista del premio Dante Cappelletti 2021 – non va troppo per le lunghe e senza incespicare ma con agguerrita intraprendenza catapulta lo spettatore in un tempo che fugge, al quale stare al passo, mentre un coltello a serramanico scivola da una tasca e cade pesante sulla scena: «vuoi vedere il sangue?». Tratto da scampoli di vita, il basso continuo della narrazione, il tempo principale, è quello di un atto vandalico in un albergo abbandonato, in cui un gruppo di ragazzi e ragazze si diverte a distruggere per creare daccapo. A ciò si innestano ulteriori tempi in cui questa “Beat Generation Z” immagina matrimoni in cui si è «già innamorati», nascite impreviste, e bagni notturni in vasche che diventano velieri. Nonostante la scrittura possegga dei climax che sembrerebbero aprire a più finali e la drammaturgia intersecata in più tempi del racconto costringa a delle ulteriori limature nella scrittura, il pubblico non può che affezionarsi a questi Peter Pan delusi che seviziano Winnie The Pooh, che hanno fame e che raccontano molto di loro, di noi, e di un tempo cattivo, sicuramente, ma mentre dormono loro sanno ancora sognare i fiori.
Dramaturg Dario Postiglione, Regia Giuseppe Maria Martino, con Luigi Bignone, Martina Carpino, Francesca Fedeli, Giampiero de Concilio. Disegno luci Sebastiamo Cautiero, Scene Simona Batticore, Produzione Bestand. Foto: Giacomo de Angelis

TONNO E CARCIOFINI – UNA STORIA WRESTLING

“Basta teatro, menamose!” Verrebbe da suggerire come sintesi dello spettacolo Tonno e carciofini – Una storia wrestling, menzione speciale Premio Scenario 2021, che, puntando sulle biografie disastrate di tre protagonisti sinceri nel loro tentativo di sfondare nell’arte, ci dicono con un linguaggio pieno di citazioni, tratte dal più recente cinema e dal mondo dell’entertainment, quanto sia difficile fare l’artista oggi. Non originale come tema, diranno i più, ma la forma scelta per raccontarlo da Silvio Impegnoso, Ludovico Röhl e Alessandro Sesti è piuttosto accattivante: se la finzione dell’arte delude in quanto impenetrabile perché non cimentarsi nella finzione del wrestling? Due amici (Impegnoso e Sesti) litigano a causa delle prove imposte dal loro maestro (Röhl) durante l’addestramento, e solo la testimonianza di un vero eroe della scena wrestling potrà far tornare la pace tra di loro. L’intrattenimento è astuto, leggero, mai infastidente ma non deve perdere di vista la critica che soggiace al sistema dell’arte e ai suoi luoghi comuni, aspetto che invece sembra venire abbandonato verso il finale perdendo il legame con il corrispettivo artificioso dell’immaginario del wrestling. I tre, insieme alla special enforcer, Debora Contini, azzardano a più riprese in questo lavoro, dovendo convincere sin dall’inizio il pubblico a stare al loro demenziale gioco secondo una drammaturgia che nelle sue goliardiche esagerazioni rischia di alzare un po’ troppo l’asticella del rischio e far perdere alla scrittura quella serietà funzionale alla riflessione di fondo.
Di e con SilvioImpegnoso, LudovicoRöhl, AlessandroSesti luci, fuoco & fiamme Marco Andreoli special enforcer Debora Contini. Foto di Stefano Preda

TROYA CITY_LA VERITÀ SUL CASO ALÈKSANDROS   #FOGGIA 

C’è una lavagna fronteggiata da una sedia di scuola (vi si scorgono incisi in greco) e un peluche, un cavalluccio a dondolo e una montagna di sabbia, poi una piccola urbe, di sabbia anche quella, che sta davanti alla postazione dove si raccolgono due chitarre e percussioni. La luce che si proietta sulla parete di fondo è blu in principio, ma cambierà tono a seconda dei momenti e delle situazioni performative. Fa risuonare un piatto Marco Vidino, Antonio Piccolo entra in scena in camicia bianca e completo nero, nel buio illumina con un cero quanto vi è scritto sulla lavagna. Comincia così Troia City, scritto dallo stesso interprete e con la regia di Lino Musella. Ad essere ripreso è l’Alèksandros di Euripide, prodromo della Guerra di Troia che ad essa si intreccia più volte nell’epica classica per essere poi sostanzialmente dimenticato. Qui la narrazione è un filo che congiunge e si ricongiunge, legando i frammenti che del testo ci sono pervenuti con il mito, la Storia, la parola teatrale e il suono – che ad esse fa da contrappunto, rafforzativo, accento di cromatismo – attraverso un processo di indagine che non espunge del tutto la lingua originale, la impasta pure con citazioni di autori contemporanei, paralleli con indimenticati scontri calcistici. Un sistema di centratura calibrato con discreto equilibrio di passaggio, tra i quadri, le dimensioni narrative, le azioni, i pochi elementi utilizzati come segni. Dalla creazione alla distruzione, dall’incipit all’epilogo, dell’epopea, della city e dell’urbe, del testo e dei testi, della Storia e della messinscena. (Marianna Masselli)
Visto all’auditorium Santa Chiara, Foggia. con Antonio Piccolo e Marco Vidino  (cordofoni e percussioni), testo Antonio Piccolo, regia Lino Musella, elementi scenici Paola Castrignanò, luci Lucio Sabatino, assistente alla regia Melissa Di Genova, consulenze filologiche Lidia Di Giuseppe (greco antico) | Antonio Gryllos (neogreco), produzione Teatro In Fabula | Quartieri dell’Arte | Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo.

PIGS  #ROMA

Portogallo, Italia, Grecia, Spagna: se come acronimo “PIGS” si riferisce a quei paesi europei che più di tutti avevano risentito della crisi del 2008, nello spettacolo di Raquel Silva (visto al Teatro India) questo viene assunto a nome, si fa materia animale in un pupazzo a forma di maiale e materia interiore quasi fosse a metà tra coscienza sensibile e pensiero tentatore. Al centro di questo dialogo a una voce c’è l’illusione del capitalismo che ha inquadrato le nostre esistenze nella necessità dell’accumulo fino e oltre il punto di rottura, definendo l’identità nel possedere sempre di più anziché nell’essere o nel fare. Questa perfida e ammaliante bellezza pare splendente e nuova come la promessa di un oggetto in vetrina, di tanti oggetti dorati invero, che vengono composti a vista (anche da  Alessandra Solimene e Caroline Dubikajtis) e poi disgregati, in un continuo squadernamento della scena, con armadi che diventano tavoli e panche, disegni che si sgretolano, pensieri annunciati mentre i corpi agiscono altro. In questa complessità di temi, si incrociano più storie, reali o ipotetiche: quella di un fratello e sorella opposti nei confronti del denaro, di un padre che non ha altro che 10 euro – “se perdo tutto esisto ancora?” il refrain –  frammentate come il mondo che provano a raccontare. Forse abbiamo bisogno di una nuova unità, forse il tentativo è quello di rendere questa deriva quasi insormontabile, anche se tenere le fila è difficile. Ma rimane negli occhi la bellezza di una ricerca scenica mai paga che restituisce in maniera poetica questa condizione esistenziale, sociale ed economica con un’inventiva originale, delicata e non retorica. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro India, Roma. Regia Raquel Silva; assistente alla regia Elisabetta Scarin; scenografia e oggetti Alessandra Solimene; drammaturgia Silva, Scarin, Solimene; musica e disegno sonoro Daniela Cattivelli; manipolazione e costruzione Raquel Silva, Alessandra Solimene, Caroline Dubikajtis; luci Camille Flavignard

LE OTTO MONTAGNE  #MILANO

Grana è un paesino ai piedi del Monte Rosa. Grana è anche luogo di ritorno, di abbandono, di memoria. È luogo di perdita. Le vette che la circondano sono cornice attiva di un’amicizia che è intima fratellanza: Pietro e Bruno ci hanno passato un’infanzia intera per poi ri-conoscersi e ri-trovarsi solo in età adulta, quando una circostanza luttuosa li porta a fare i conti con un’eredità paterna condivisa. La loro muta complicità attraversa il tempo e la distanza e si fa parole di una scrittura delicata che ha vinto il Premio Strega nel 2017 e che ha trovato sia un adattamento cinematografico (Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch) sia teatrale, con la drammaturgia di Francesca Sangalli e la regia di Marta M. Marangoni. In scena, il racconto di voci narranti esterne che fanno da sfondo a quelle performanti diventa la culla dei ricordi, che sono i sapori, i rumori, gli odori della montagna. Le luci a led, prima ruscelli, poi diventano il perimetro di una casa che vuole essere lo spazio condiviso di un’indagine delle dinamiche affettive famigliari, per innescare quella che è una necessaria ricerca introspettiva. A scandirne il ritmo è Alice Bossi, che in scena si arrampica su strutture fragili, usandole come percussioni e auscultandone i suoni come fossero ventre materno. È la personificazione dell’eco, il richiamo di tempi passati, ma è anche lo sguardo di una madre e l’amore di una compagna, faticando tuttavia a definire un spazio scenico, riflesso di quello narrativo, che risulti propriamente suo. (Andrea Gardenghi)
Visto alla sala Bausch del Teatro Elfo Puccini, Milano. Crediti: tratto da LE OTTO MONTAGNE di Paolo Cognetti, drammaturgia Francesca Sangalli, regia Marta M. Marangoni, con Andrea Lietti, Giuliano Comin, e con la performer Alice Bossi, voce fuori campo Arianna Scommegna, scene e costumi Marta M. Marangoni, musiche e canzoni originali Duperdu (Marta M. Marangoni e Fabio Wolf), installazioni e azioni sonore Dario Buccino, consulenza scenografica Marco Teatro

 CARIÒN   #PALERMO 

Il quartiere Kalsa, nel centro storico di Palermo, è un intrigo di vicoli e stracci; nonostante sia vittima di un turismo di massa, la zona mantiene ancora un suo carattere originario. Tra le architetture che ne delimitano le vie, il complesso del Noviziato dei Crociferi è una grande fabbrica barocca di fine Seicento. All’interno è stato ricavato un teatro: Salvo Piparo vi ha tenuto a maggio il suo Cariòn. Un monologo energico, nel quale l’interprete ha rievocato luoghi sicuramente non diversi da quelli che il pubblico ha attraversato per raggiungere lo spettacolo. Un cunto comico, quello di Piparo, che declina la tradizione nella forma di una biografia collettiva: la condivisione del dialetto e del repertorio musicale tipico (le musiche sono eseguite dal vivo da Michele Piccione) sono i due punti fermi di questo approccio. Vita e cronaca si intrecciano, in un accordo che culmina nel cunto della strage di Capaci. Qui la frase prosodica si segmenta in ritmi brevi e consecutivi, come di consuetudine accade nelle scene di battaglia nel teatro dei pupi; allo stesso modo viene modulata l’intensità vocalica. Uno spettacolo estemporaneo, in parte cucito sul posto sulla base di quanto suggerito dalla vivace interazione con i presenti. In tal senso si fanno perdonare anche alcuni inconvenienti tecnici – il suono era alto quanto basta ad assordare per qualche giorno. Anche questo è, in fondo, colore. (Tiziana Bonsignore)
Visto all’ex-Noviziato dei Crociferi, Palermo. Di e con Salvo Piparo, musiche eseguite dal maestro Michele Piccione, Produzione Associazione Culturale Kleis. Foto di Salvo Damiano

 IL COLLOQUIO    #NAPOLI 

La gente non se ne accorge, ma il più delle volte somiglia al luogo in cui vive. Ci sono (moltissimi) luoghi scuri di Napoli imbruttiti dalla disperazione, dalla povertà, dalla mancanza di prospettiva, dove la lingua è brutta e la gentilezza è debolezza. Non c’è spazio per oleografie e vezzi, la poesia non sopravvive da sola in mezzo allo sporco. Il Collettivo LunAzione porta lo sporco a teatro e lo mette in bocca a tre splendidi attori. Renato Bisogni, Alessandro Errico e Marco Montecatino sono tre donne in attesa per il colloquio a Poggioreale; rivolte a sinistra, tutte e tre con enormi bustoni di plastica piene di necessità concesse per i loro uomini. La loro postura suggerisce gli anni di attesa, e dall’agitazione si passa alla fiera rassegnazione fino alla disperazione. Gli uomini esistono solo nei loro ricordi e racconti, il carcere esiste solo davanti a loro nei suoni e negli odori. Sono vrenzole, volgari, sboccate, di un’ignoranza a tratti cattiva, inaridite dalla perdita dei padri e dei mariti e dei figli. La violenza muove labbra e corpi. Ogni tanto ci si concede qualche confidenza e qualche cortesia, ma sono attimi di umanità a cui non è permesso abbandonarsi troppo a lungo. Stordisce l’onestà di una scrittura che si impegna di eliminare il superfluo, che si alimenta della sfacciataggine del reale, che si concentra a dimostrare lo sgradevole del reale. Nel reale, avere un figlio può essere una condanna e amare qualcuno è un potenziale rischio. La disperazione poi completa il giro su sé stessa e ride di una risata grassa. (Valentina V. Mancini)
Visto a Piccolo Bellini, Napoli; Crediti Progetto e regia Eduardo Di Pietro; Con Renato Bisogni, Alessandro Errico, Marco Montecatino; Costumi Federica Del Gaudio; Uno spettacolo di Collettivo LunAzione; Foto Malì Erotico

Speciale Arte Fiera 2022 – Oplà. Performing Activities  #BOLOGNA

Gettiamo lo sguardo fra i corridoi della più importante fiera d’arte italiana, giunta alla sua 45a edizione fra i giganteschi spazi del distretto fiersitico bolognese. Fra galleria e galleria, in un percorso che ci racconta le tendenze del mercato dell’arte fra esperienze del ‘900 e variegati linguaggi contemporanei (peraltro segnati da frequenti ritorni allo stesso Novecento), ci soffermiamo sulla rassegna performativa Oplà, curata da Silvia Fanti di Xing. Un itinerario intermittente in quattro capitoli, che animano letteralmente la fiera, come poli magnetici disposti fra uno spazio e l’altro. Un controdiscorso, o semplicemente l’occasione per portare l’attenzione su di sé, più che sull’opera. Spazi performativi per il pubblico. Viva!

 UNISEX 

Un bagno è sempre un bagno. Anche ad artefiera, in bagno, c’è l’odore acre del piscio – in quello maschile forse di più di quello femminile. Magari pensarlo è un errore, un cliché sessista. Nel bagno si celebra questo dubbio, espellendo forse le pregiate bollicine sorseggiate poco prima alla champagnerie della fiera. Un contraltare olfattivo e performativo (della performance fecale et similia) all’allure antologica di immagini che si snoda fuori. Ci pensa Jacopo Benassi a darci un colpetto nelle parti basse, con un photoshooting e una session di live recording fra cesso e cesso. Ciò che era privato – soprattutto il rumore delle deiezione – è fatto pubblico. Merda, e non d’artist*. Fra la vescica piena e gli occhi pieni “d’arte” nasce un desiderio di svuotamento, che Benassi coglie dando continuità ai suoi graffianti lavori degli ultimi anni. Con tanto di carrello delle pulizie innalzato a supporto per gli strumenti di registrazione e mixing. Il sound ambientale della fiera (il suo discorso?) è centrifugato nel live recording della parola “unisex”, scandita dallo stesso Benassi e da quanti volessero unirsi al mantra, rimodulata con una tastiera imbracciata dall’artista. Uno squarcio di club culture autodocumentata dalla reflex incollata con vistose tracce nere di adesivo all’entrata, che manda un flash ad ogni ingresso: un piccolo faro d’Alessandria per dire è qui la festa. Venite e mingetene tutt*. L’opera è performativa, ma pure documentativa (le foto pregne della scanzonata gloriosa trasandatezza benassiana), ma è anche finita giù con lo sciacquone. (Andrea Zangari)
Visto ad Arte Fiera, bagni padiglione 15. Di e con Jacopo Benassi. Foto di Luca Ghedini

 PERSONA 

Alcuni appunti su Persona di Muna Mussie. C’è un filo fra gesto, visione e parola. Non c’è parola senza visione, non c’è sguardo senza immagine. Il filo è sempre il filo del discorso. Ricamare è un gesto che ci dà immagine del tempo. Ecco un’equazione per dire l’umanità, un’alchimia portante nel percorso di ricerca Muna Mussie, che regala al pubblico di Arte Fiera un angolo per portare l’attenzione su se stessi. La sessione performativa one-to-one prevede un colloquio con la performer, bardata di nero come un monaco-ninja che lascia scoperte solo le mani, dolci e accoglienti, posate sulle ginocchia durante il colloquio o operose, a seguire la trama della macchina da cucito digitale. Il viso è coperto da uno specchio, due fessure per gli occhi che fissano ancor più saldamente il nostro volto al suo riflesso. Un esercizio spirituale: qual è il nostro più grande difetto? Che regali devono essere per un* performer questi scambi… Un regalo per un altro: la parola, partorita in confessione, è cucita su un capo d’abbigliamento dello spettatore” che resta oltre un velo nero mentre Mussie ricama.  “Poter esporre anche il peggio di sé può essere un modo per esorcizzare certi timori, alleggerire tensioni e giocare con le convenzioni in occasioni sociali incentrate sul valore” chiosa Silvia Fanti. Oltre che un rituale esorcistico, questo di Mussie sembra illuminare un legame ancora più profondo fra la parola e l’identità come lotta, come ferita – ti guardi nello specchio e ciò che proferisci è una parola negativa. Solo lo scambio ci salva, ci fa dire “io”. (Andrea Zangari)
visto ad Arte Fiera, padiglione 15 stand F4. Di e con Muna Mussie. Foto Arte Fiera

 Speciale IMMAGINA. Festival internazionale del teatro di figura   #ROMA 

Il teatro di figura spesso rimane ai margini del panorama teatrale, relegato a un generico “pubblico infantile” o inserito in un discorso iper specializzato a rischio di isolamento. Immagina – Festival internazionale del teatro di figura, con una curatela a più teste,  ha provato a disseminare sui più spazi romani (alternando repliche mattutine, pomeridiane e serali al Teatro del Lido di Ostia, Teatro Villa Pamphilj, Teatro Tor Bella Monaca, Teatro Biblioteca Quarticciolo) una rassegna di 10 spettacoli varia per temi, tecniche e pubblici, ospitando il convegno UNIMA, un premio, quattro mostre e laboratori. Tra le proposte, abbiamo scelto due dedicate a un pubblico più grande, delle quali la prima, Noose, è della compagnia greca naturalizzata tedesca Merlin Puppet Theatre (vincitore qui del premio Miglior Performance) e Io e Einstein di e con Jessica Leonello.

NOOSE

Se a interessarci della morte fosse non l’atto in sé ma lo spazio immaginifico, impossibile nella realtà e dunque possibile solo nella finzione teatrale? Noose si presenta con un piccolo teatro sul palco, ricostruzione precisa dell’inizio di un giorno qualunque, congelato come l’ultimo e esplorato nel suo dopo. Due personaggi dormono a letto, combattono contro la sveglia che vorrebbe scuoterli dal torpore, si alzeranno poi, pesanti i corpi, giunture rigide, facce smunte. Sono pupazzi, manovrati al nero, ma la loro plasticità restituisce il peso delle vite che si trascinano. Prima dal letto e poi in bagno, in salotto, la scena ruota più volte. Davanti allo specchio si guarda lui, ma davanti ci siamo noi, riflessi in questi occhi cavi e pesti, assistiamo alla sua disfatta. Una corda piomba dall’alto, mezzo e simbolo di fine, noose, cappio. Ma lo spettacolo va avanti: la condizione di morte, sembrano suggerire  Dimitris Stamou e Demy Papada, non ferma l’immaginario. Lui lo vediamo danzare appeso, distruggere il soffitto per il suo peso, poi arriva lei ancora in pigiama, dinoccolata, chiamare a raccolta poliziotti, preti, nella vana speranza di rianimarlo, quando solo la musica sembra portare conforto. Su questo poetico ma lugubre teatrino si stagliano spartiti, dischi, vinili, così come la musica (a volte precisa, a volte stonata, fallibile anch’essa) che ci accompagna mentre le parole rimangono sospese, tra riso e inquietudine, tra conforto e annientamento. Asciugata qualche gag o quale tempo di troppo Noose è uno spettacolo fuori target, per pupazzi affannati e però ancora vivi che rimane sottopelle. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo, Roma. Produzione, scene e luci Merlin Puppet Theatre; regia Dimitris Stamou; creazione e animazione marionette Dimitris Stamou, Demy Papada; testo introduttivo Hronis Missios

 IO E EINSTEIN 

Io e Einstein è una storia di conforto, come quello che ricerchi quando immagini qualcosa che ancora non esiste, o pensi a qualcuno che ha reso “possibile l’impossibile”. La citazione è di Walt Disney, ma così si potrebbe dire dell’operato dello scienziato tedesco che ha trasformato radicalmente la percezione della realtà, ribaltandone i fondamenti e facendone tremare le certezze consolidate. Conforta pensarci perché spinge a creare la propria realtà se questa non soddisfa, facendoci i conti certo, ma anche a non negare la capacità bambina di immaginare un altrove. Allora interviene l’impossibile che diventa reale, nei panni di un “illustrissimo pupazzo” (tenero e pacioso, nel concept di Irene Lentini), manovrato a vista quasi fosse compagno da ventriloqua. Jessica Leonello, in questa asciutta regia di Sergio Mascherpa, gli presta la voce e abbassa il viso, annullandosi quel tanto che basta a rendere autonomo il pupazzo che le poggia in grembo, ma lo ascolta e naturalmente passa da l’uno all’altro, da voce a voce, da fantasia a realtà. Il gioco allora è tutto qui: accettare di poter ascoltare il proprio essere bambini, di ritrovare allora, nella semplicità del mezzo, un  modo per accettarsi e per scoprire qualcosa di inatteso. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo, Roma. Produzione Teatro Laboratorio; di e con Jessica Leonello; regia Sergio Mascherpa; pupazzo Irene Lentini.

 TRE DONNE ALTE    #MILANO 

“Questo è il momento più felice. Quando tutto finisce. Quando ci fermiamo. Quando ci possiamo fermare”: queste le battute conclusive di A (Ida Marinelli) mentre il suo corpo da novantenne (in scena, un manichino) sta morendo. Accanto a lei ci sono le sue versioni più giovani: B (Elena Ghiaurov), di cinquantadue anni, e C (Denise Brambillasca), di ventisei. Nei due caustici atti, Edward Albee riflette su cosa si diventa alla fine di un percorso estenuante, su quanto il dolore e le delusioni che subiamo e facciamo subire ci inaridiscono. Ci si muove tra le sfumature della sofferenza, indicate tutte dalle lapidarie indicazioni del drammaturgo, e la pungente ironia di certo non maschera l’amaro o la stanchezza o la furia. Un vago senso di abbandono è dato dagli interni della stanza, in un ricercato stile francese che andrà invaso da “medical stuff”. La regia di Ferdinando Bruni invece carica quelle sfumature di violenti contrasti, saturando la scena di un impeto decadente, fatto anche di simboli (come l’enorme orologio senza lancette, o un “sorrentiniano” lampadario di cristallo abbandonato su un drappo), non necessario; il muto figlio omosessuale (Ettore Ianniello) diventa un oggetto piuttosto démodé, e si muove come il bel Tadzio. La sola Marinelli riesce a modularsi nella costante altalena emotiva del suo personaggio, mentre le interpretazioni della Ghiaurov e della Brambillasca sono in costante crescendo, come se il dolore avesse sempre bisogno di manifestarsi in violenti suoni gutturali o monotoni acuti.(Valentina Vittoria Mancini)
Visto a Teatro Elfo Puccini, Milano; Crediti Di Edward Albee; Traduzione di Masolino D’Amico; Regia di Ferdinando Bruni; Con Ida Marinelli, Elena Ghiaurov, Denise Brambillasca e Ettore Ianniello; Scene di Francesco Frongia; Foto di Laila Pozzo.

 STORIE DI NOI    #PALERMO 

Sul palco dello Spazio Franco un uomo gioca a pallone. Indossa una tuta dai colori sgargianti: viene dagli anni Novanta. Nei suoi panni, Giuseppe Provinzano narra le storie di palermitani qualunque, che in un giorno qualunque sono stati investiti da un boato assordante. L’ordigno innescato trent’anni fa a Capaci esplode sul palco, causa il buio. Gli studenti presenti alla replica un poco ne ridono, ma subito subentra un’attenzione assoluta. La drammaturgia di Provinzano e Beatrice Monroy racconta storie comuni, ma segnate da quell’esplosione. Alcuni di questi fatti sono evocati dalle parole degli altri interpreti che hanno offerto la propria voce: storia particolare e storia collettiva si incrociano in un discorso unico. Dramma, suono (di Beercock) e installazioni video (del collettivo Pixel Shapes) plasmano la scena di Valentina Greco come un organismo elettronico pulsante. Il sonoro è un battito cardiaco, stabilisce una relazione biologica con i presenti. Ogni momento ne viene scandito, succedendosi in una ritualità che interessa anche gli oggetti di scena (di Sebastiano Zafonte). Cadaveri di stoffa si sciolgono in lenzuoli bianchi estesi nella loro ampiezza: nel sacrificio è già il riscatto. Bianca è anche la maglietta che Provinzano scopre sotto la felpa, ma è macchiata di sangue. Gli studenti in sala ne rimangono impressionati. Nel dibattito conclusivo, molti esprimono le loro sensazioni, di razionalizzandole con domande e riflessioni. Nel sangue è tutto: l’origine della stirpe, di un cognome troppo ingombrante. Il sangue divide e unisce. Può essere individuale o collettivo, come quello sparso nei sacrifici. Ma anche in questo caso, è sempre sancu miu. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Franco, Palermo. Crediti: di Beatrice Monroy, diretto e interpretato da Giuseppe Provinzano, con (in voice off) Dario Aita, Emmanuele Aita, Ninni Bruschetta, Filippo Luna, Lucia Sardo, Manuela Ventura, Luci e Allestimento di Gabriele Gugliara, Drammaturgia sonora di Beercock, Foto di Nayeli Salas

 CUANDO PASES SOMBRE MI TUMBA   #MILANO

C’è una sottile ma significativa differenza tra eutanasia e morte assistita. È di quest’ultima che Sergio Blanco vuole parlare attraverso un bizzarro racconto in cui è il paziente, dopo dosaggio medico, a farsi carico della somministrazione autonoma del farmaco letale. Una scelta che è via di non ritorno, interpretata a teatro dall’alter ego del regista, Sebastian Serantes. Ricoverato in una clinica di Ginevra, di cui vediamo le cime innevate sullo schermo di sfondo, decide di intraprendere un percorso con il dottor Godwin per terminare la propria vita, di lunedì perché è il giorno in cui tutto ricomincia. Al suo desiderio di morte si lega il desiderio di un giovane necrofilo di impossessarsi della morte stessa, di canzonarla quasi, per rendere il corpo un feticcio con cui fare all’amore. Passione e ossessione diventano così un’arma letale nelle scelte drammaturgiche, che trovano un proprio corrispettivo musicale e visivo nell’uso della telecamera in scena, in grado di riprodurre uno sdoppiamento che è al tempo stesso lente di ingrandimento nell’animo dei tre personaggi. Sempre giocando sul labile (e inutile a suo parere) confine tra verità e menzogna, tra reale e finzione, Cuando pases sombre mi tumba torna a ragionare, dopo Zoo ed El Bramido de Düsseldorf, sullo statuto del corpo, contenitore di qualcosa che è destinato a scivolare via ma che riesce ad essere trattenuto dall’ immortalità dell’arte. Per farlo, decide di rinunciare ad ogni esplicito giudizio per insistere con venale ironia su tabù che solo con il suo teatro di autofinzione riescono davvero ad essere scardinati. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro Grassi, Milano. Testo e regia Sergio Blanco, video Miguel Grompone, scene e luci Laura Leifert, Sebastián Marrero, assistente luci e scenografia Paula Martell , costumi Laura Leifert, suono Fernando Tato Castro, suoni dal vivo Gerardo Hernández, produzione e distribuzione Matilde López Espasandín, con Gustavo Saffores, Sebastián Serantes, Felipe Ipar, produzione Marea Productora Cultural , coproduzione Teatro Solís, Festival Internacional De Artes Escénicas & Festival Internacional de Buenos Aires. Foto Masiar Pasquali

 TITINA, LA MAGNIFICA    #NAPOLI 

Liberamente adattato dalla bellissima biografia scritta da Augusto Carloni in ricordo della madre, Titina, la Magnifica poteva essere un’ottima occasione per raccontare la figura sempre apparentemente minuta della prima sorella De Filippo. Il lavoro di riscrittura di Francesco Saponaro e Domenico Ingenito purtroppo risulta assai debole per la scelta, non del tutto insensata ma poco riuscita, di impostare un rapporto tra Titina (Antonella Stefanucci) e tutti gli uomini della sua vita (Edoardo Sorgente), in cui è previsto che la donna si trovi nella posizione di reagire soltanto e non di agire. Insomma, quello che le esce da bocca è sempre una risposta e mai un’affermazione. Anche nella costruzione dei rapporti si ha un disequilibrio d’immagine: da una parte l’esuberanza affascinante di Sorgente nell’interpretare più ruoli, e dall’altra la quasi completa staticità di Stefanucci che ha un breve ed efficace impeto solo nell’interpretazione di Filumena Marturano. Questa Titina parla, ma dice poco. Dice poco di quel corpo che le remava contro, non propriamente bello e malato; della violenta contraddizione tra un carattere schivo e una passione instancabile per il teatro, tra la volontà di essere “donna di casa” e la spiccata attitudine autoriale, o ancora tra l’amore travolgente per i fratelli e il bisogno di autonomia. Le vere presenze, in virtù della loro naturale capacità di compensare le mancanze, sono gli oggetti a cui si delega la parola: come unico vero omaggio della vastità di Titina, la poltrona di Filumena. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Trianon Viviani, Napoli Drammaturgia Domenico Ingenito e Francesco Saponaro; Con Antonella Stefanucci ed Edoardo Sorgente; Regia e spazio scenico Francesco Saponaro; Scene Carmine De Mizio; Costumi Anna Verde; Luci Gianluca Sacco; Direttore di scena Costantino Petrone; Fonico Daniele Chessa; Realizzazione scene Vincenzo Fiorillo e Paolo Immarrone; Foto Pino Miraglia

 LA DONNA È MOBILE    #NAPOLI 

Napoli non è in grado di liberarsi della narrazione che ha contribuito a costruire, e forse non lo sarà mai perché non ne sente l’esigenza. Diventa complicato capire di quale tradizione si ha bisogno, dal momento che dietro ci sono generazioni e generazioni di educazioni sentimentali. Un genere di educazione che porta con sé non poche dolorose contraddizioni. La donna è mobile scritto da Vincenzo Scarpetta e riadattato da Francesco Saponaro è l’esempio calzante della contraddizione. Questa pochade, questa parodia d’Opera (in cui trovano spazio anche Liberato e Carosone) è allestita con imponenza nel disegnare la precisa coreografia tra i movimenti della scena e di quella dei corpi. I personaggi appaiono e scompaiono sul palco esponendo i caratteri topici delle maschere con l’ovvia naturalezza di chi ha familiarità proprio con questi caratteri. Biagio Musella è un virtuoso nei panni inediti e antichi di Felice Sciosciammocca. Tutti si era in familiarità; non c’era battuta o smozzico di parola che non avesse un riverbero nella vita di chi era in platea. Al netto del piacere provato bisogna comunque aprire una questione sulla scelta del testo. Se la battuta volgare è un sollazzo a cui ci si può abbandonare, se la lacrimevole narrazione sul generoso cuore del popolare napoletano (come se la fame rendesse migliori) in qualche modo si può tollerare, non si transige sulle battute misogine e nemmeno su quelle razziste. La tradizione non deve essere assolutamente un totem. Se il rischio è questo, allora è meglio che questi totem vengano abbattuti.
Visto a Teatro Trianon Viviani, Napoli; Crediti La donna è mobile Commedia musicale parodia in 4 atti di Vincenzo Scarpetta; Arrangiamenti e direzione musicale Mariano Bellopede; Regia e spazio scenico Francesco Saponaro; Con Luigi Bignone, Giuseppe Brunetti, Viviana Cangiano, Salvatore Caruso, Elisabetta D’Acunzo, Tony Laudadio, Ivana Maione, Davide Mazzella, Biagio Musella, Serena Pisa, Marcello Romolo, Luca Saccoia, Ivano Schiavi, Federica Totaro

 NEL TEMPO CHE CI RESTA. ELEGIA PER GIOVANNI FALCONE E PAOLO BORSELLINO   #PALERMO 

Tommaso Buscetta, il traditore di Cosa Nostra. César Brie vi affida il ruolo di narrare non gli ultimi momenti della vita di Falcone e Borsellino, ma i primi della loro rinascita. Ciò accade nel suo Nel tempo che ci resta, da lui scritto e diretto, visto a maggio a Palermo. Nei panni del pentito per antonomasia, Brie dirige i momenti di uno spettacolo che non si offre come semplice commemorazione cronachistica. Sul palco si svolge piuttosto una delicata rievocazione narrativa, le cui protagoniste non sono soltanto le anime dei due giudici (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, rispettivamente Donato Nubile e  Marco Colombo Bolla), ma anche quelle delle loro compagne (Francesca Morvillo e Agnese Piraino Leto: Rossella Guidotti, Elena D’Agnolo). Tutte si ritrovano in una rimessa di Villagrazia, ultimo luogo attraversato da Borsellino prima della morte. Qui, tra lamiere e casse di legno, i quattro personaggi non sono più figure istituzionali, ma persone capaci di amare e di essere amate. La scena è animata dai loro movimenti, disposti secondo le direttrici di una coreografia dinamica e coinvolgente. Belli gli espedienti scenici e il sonoro (Pablo Brie, arrangiamenti di Matìas Wilson): il palco è un congegno in continuo movimento, sempre sottoposto a nuove disposizioni. La scrittura, a tratti didascalica, illanguidisce talvolta in momenti di retorica ingenua; tuttavia, il pubblico palermitano è stato investito dalla convinzione degli attori, che hanno agito nel rispetto delle implicazioni etiche del proprio lavoro. Gli applausi del Libero, da dove oltretutto è iniziata l’esperienza di Brie in Italia, sono stati sinceri. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero, Palermo. testo e regia César Brie, con César Brie, Marco Colombo Bolla, Elena D’Agnolo, Rossella Guidotti, Donato Nubile; assistenti alla regia Adele di Bella e Francesco Severgnini; scene a cura della Compagnia; tappeto Giancarlo Gentilucci; assistente scene e costumi Camilla Gaetani; luci Stefano Colonna; musiche Pablo Brie – variazioni su temi di Verdi; arrangiamenti musicali Matìas Wilson; produzione Campo Teatrale e Teatro dell’Elfo. Foto di Laila Pozzo

 

 DO NO TOUCH YOUR PRECIOUS ME    #NAPOLI

La sacerdotessa sumera Enheuduanna, la prima autrice riconosciuta della storia, canta la discesa negli inferi della sua Dea Inanna  in un viaggio di iniziazione dalla morte alla rinascita. Nella visione del coreografo Wim Vandekeybus, gli inferi sono un’incontinenza orgiastica di espedienti narrativi tenuti insieme dalla sola emotività inquietante delle produzioni sonore della compositrice Charo Calvo. I piani dell’azione sono polarizzati ai lati opposti del palco da Inanna (Lieve Meeussen) e sua sorella Ereshkigal (Olivier De Sagazan), a cui si frappone lo stesso Vandekeybus munito di telecamera per riprendere in diretta i volti distorti dei performers da proiettare sull’enorme pannello monolitico, che è porta e finestra infernale. Laterale eppure principale, De Sagazan manipola terracotta, paglia e l’enorme massa di due velli per modificare il proprio corpo e accrescerne le potenzialità fino al mostruoso; nello spazio tutt’intorno i corpi si fratturano nelle distorsioni di movimenti che si risolvono tra un rapido guizzo o una disarticolata fluidità. La condivisione che è la misura del rito è nelle corse come follia collettiva o nella reiterazione del cerchio. Ogni attimo è scandito da una violenza inaudita. La sovrabbondanza di linguaggi e impulsi, che in parte frustrano lo sguardo, per quanto hanno ricreato perfettamente il caos di una sacralità fatta di terra e umori, disperdono nelle dinamiche di relazione la coerenza della danza in favore del gesto puramente performativo che per di più gioverebbe del respiro di vasti spazi aperti. (Valentina Vittoria Mancini)
Visto a Teatro Bellini, Napoli; Crediti: Coreografia, regia, camera live Wim Vandekeybus

 QUEL CHE RESTA    #MODENA

«Quello che state per vedere sono gli ultimi trenta minuti del trentesimo giorno» ci dice la voce fuori campo scandendo con calma il conto alla rovescia per il processo di cancellazione totale delle parole. Un gruppo di persone cerca però di resistere e si rifugia portando con sé le cose più care che le e li rappresentano. Quel che resta è il titolo del lavoro scritto e interpretato dal Gruppo L’Albatro, prodotto all’interno del progetto regionale Teatro e Salute Mentale e presentato durante la decima edizione di Trasparenze Festival. Sembra una scena beckettiana, i sognatori, o diremmo i visionari, anzi gli “stravisionari” giocano a ricordare le parole, ad associarle le una alle altre opponendosi all’abbandono, all’oblio della memoria che è anche perdita di se stessi. Cosa saremmo noi senza il mare, il sole, una coperta, una tazzina, una radio, un ritaglio di giornale, una bambola… La temperatura emotiva dei primi dieci minuti di spettacolo, mantenuta fino alla sospensione del finale, è poesia: i personaggi si presentano con le loro biografie minute, eterogenee e peculiari fatte di espressioni, gesti, rumori. Si è rapiti dall’empatia che suscitano, dalla precisione con cui scandiscono con verità ogni singola frase di parole. Non stentiamo neanche per un attimo a credere fino in fondo e con tutto il nostro più profondo rispetto al loro ultimo tentativo di salvataggio. Ci riusciranno? Non importa, è tanta la riconoscenza del pubblico per questo intenso atto di amore eterno. (Lucia Medri)
Visto al Teatro dei Segni, Modena. Con Luca Bartoli, Elisabetta Borille, Sara Camellini, Antonio Congedo, Giulio Ferrari, Gilberto Gibellini, Francesca Nardulli, Maria Chiara Papazzoni, Marcello Padovani, Patrizia Vannini. Voce fuori campo Massimo Don. Regia Oxana Casolari, Danilo Faiulo e Francesca Figini. Drammaturgia Damiana Guerra e Teatro dei Venti. Supervisione artistica Stefano Tè. Foto Chiara Ferrin

 PETROLINI INFINITO & FRIENDS    #ROMA 

Dimenticati sono i più grandi attori del nostro teatro novecentesco a meno che non siano passati per il cinema o per la genialità divenuta popolare di un Carmelo Bene. Riprendere Ettore Petrolini vuol dire tornare a un modello che è stato in grado di influenzare le generazioni successive, ma vuol dire anche tornare, sul palco del Teatro Trastevere di Roma, a rievocare l’avanspettacolo, la rivista e quei talenti estremi che la amavano. Enoch Marrella da anni studia il celebre attore e drammaturgo romano – che oggi forse chiameremmo anche performer viste le sue differenti e numerose abilità – e sul palco gioca al limite della rievocazione (qui la puntata di una serie web in cui spiega le tappe di avvicinamento): una sorta di seconda pelle, quella di Petrolini, che viene indossata da Marrella con precisione, grazia, grandissima tecnica ma anche un evidente affetto. In questa grottesca e affettuosa seduta spiritica di Petrolini Infinito & Friends, che meriterebbe repliche e investimenti produttivi importanti si alternano alcune delle maschere petroliniane più conosciute, Gastone, Fortunello, Salamini, Nerone. L’invettiva, la giocoleria della parola, il trasformismo, una comicità con ritmi e grammatiche che potrebbero sembrare lontanissime da noi ma che nello spirito di Marrella diventano invece più vicine. Il cortocircuito è rappresentato anche dagli ospiti (comici e artisti del panorama cittadino) che arricchiscono questo avanspettacolo di risate, sorprese e malinconia, quella che talvolta si legge negli occhi di questo clown del secolo scorso. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Trastevere, Roma. Crediti: Enoch Marrella Paolo Panfilo al pianoforte Laura Marcucci (Atte) Francesca Romagnoli (Poppea) Nilo Brugnano (Petronio) Adattamento musicale: Paolo Panfilo; Makeup Nina Labus, David Bracci; Costumi Laura Verza; Graphic Suzana Todorovic-Marrella; Comunicazione Cristiana Piraino; Foto di scena: Valerio De Rose, Valerio Faccini

UNA VITA CHE STO QUI    #MILANO

Una cucina si riempie di scatoloni di rabbia e malinconia, anche se ci hai passato una vita intera, quando è qualcuno a mandarti via. Per Adriana (Ivana Monti) è l’Aler, l’Azienda Lombarda Edilizia Popolare, a dettare la sua obbligata dipartita, mandandole per lettera l’avviso di un’imminente riqualificazione del quartiere di Lorenteggio, e con esso del suo palazzo. Un progetto di queste nuove affamate “arcistar”, così le chiama lei, che utilizzano le zone periferiche di Milano come strumento di autoaffermazione professionale. L’amara notizia diviene il movente per rievocare i fantasmi di una vita trascorsa che nella performance di Adriana acquisiscono pregnante presenza scenica: sono i vicini di casa, prima “negher” e poi “terroni”, sono le scappatelle e i primi amori, è un padre che si volta con una lacrima sul viso, è il tormento della perdita. È così che tra i fornelli della cucina l’atmosfera inizialmente calda si lacera, per accogliere nei vuoti d’aria i sensi di colpa di una donna che sente di non essere riuscita come madre. Le sue confessioni in dialetto milanese se all’inizio hanno un sapore ironico e nostalgico, alla fine si rivelano violente, squassanti e raggiungono l’epidermide della platea, per infilarsi in uno strato ancora più sottile. Sono ruvide come la sua voce, come il suo volto, come la sua storia di cui apprezziamo la naturale autenticità che la regia di Giampiero Rappa riesce ad evocare nell’ alternarsi sapientemente orchestrato di presenze-assenze. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti, Milano. Crediti: di Roberta Skerl, con Ivana Monti, regia Giampiero Rappa, scene Laura Benzi, luci Marco Laudando, assistente alla regia Maria Federica Bianchi e Beatrice Cazzaro, montaggio audio Alberto, Basaluzzo, macchinista Paolo Roda, elettricista Nicola Voso, sarta Simona Dondoni, scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti, produzione Teatro Franco Parenti. Foto Francesco Bozzo

 IL CORO DI BABELE     #ROMA  

Esiste un tema, fatto di statistiche (anche amare e taglienti quando creano spopolamento e sono l’unica chance per alcuni): la massiccia emigrazione dal nostro Paese verso mete europee più appetibili – nell’ultima statistica pre-covid 19, del 2019, in un anno più di 130 mila italiani avevano registrato la propria residenza all’estero. La compagnia palermitana Barbe a papà su queste tematiche ha creato il primo spettacolo di una trilogia dedicata alla cosiddetta Generazione Y. Cosa vuol dire “casa” per i giovani nati tra la fine degli Ottanta e i Novanta? Cosa significa lasciare tutto e ricominciare in un luogo sconosciuto? Con la regia e il testo di Claudio Zappalà, Barba a papà compone uno spettacolo ancora incerto dal punto di vista del linguaggio teatrale (prodotto nel 2019) La scrittura scenica si compone di fronte agli spettatori con uno schema prevedibile per i più smaliziati ed esperti: scene fisiche senza parole su musiche pop orecchiabili e conosciute, al termine delle quali uno dei protagonisti si stacca per il proprio monologo. Tecnica funzionale per evidenziare le solitudini che si agitano nella molteplicità, ma che che rischia di risultare prevedibile e di maniera. Però l’idea di partenza e l’urgenza non sono da trascurare, come d’altronde la comunicatività dell’ensemble. Alcune storie sono potenti, come quella raccontata in francese e tradotta sul momento. Altre scene recitativamente cercano il raggiungimento di un pathos troppo affrettato come richiesta emotiva allo spettatore (visto l’andamento e la struttura di certi monologhi), ma questi trentenni sono alla ricerca, e hanno una voglia disperata di raccontarsi, vale la pena starli a sentire e a guardare. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Basilica Crediti Testo e regia: Claudio Zappalà Con: Chiara Buzzone, Federica D’Amore, Totò Galati, Roberta Giordano, Claudio Zappalà produzione Barbe à Papa Teatro

SPECIALE FOG TRIENNALE MILANO PERFORMING ARTS    #MILANO

NEVER TWENTY ONE

È una danza per la memoria quella portata dall’artista franco-maliano Smaïl Kanouté, di corpi che portano con sé i segni del dolore, restituiti nella pittura di Lorella Disez: i tre ballerini si fanno  metafora e incarnazione della morfologia della perdita, scavando nei recessi degli avvenimenti sanguinari di New York, Rio de Janeiro e Johannesburg. Brevi luci si accendono a intermittenza su un palco sommerso completamente in un nero buio; sono torce la cui luminosità si compendia nella fisicità di figure che dall’oscurità tentano di riemergere, divenendo il pretesto di un moto serrato e dinamico. Nella danza le parole incise sulle membra sussultano, riprendono la vita che è stata loro tolta, per assumere una valenza tanto universale quanto famigliare. È così che la coreografia si assume la responsabilità del racconto di molteplici perdite, disegnando gli schematismi triadici delle violente sopraffazioni, per cui c’è una vittima ad incassare i colpi di due carnefici. In questo spazio d’azione, la narrazione si estrinseca nei gesti interrotti, nei passi trascinati, nei sospiri cadenzati, nei palmi che sbattono sui corpi, scandendo il ritmo di una mescolanza di rumori urbani e di motivi elettronici, nel richiamo di uno sciamanesimo ancestrale. Never twenty one diviene un tributo che racchiude nel numero 21 la sua luttuosa simbolicità, ancorandosi alle manifestazioni del movimento del Black Lives Matter, per fare della relazione dinamica della carne il crepuscolo di un ricordo, che sono ventuno, ricordi. (Andrea Gardenghi)
Crediti: coreografia: Smaïl Kanouté; con: Aston Bonaparte, Salomon Mpondo-Dicka, Smaïl Kanouté; pittura corpo: Lorella Disez; assistente alla coreografia: Moustapha Ziane; scene, luci: Olivier Brichet; suono: Paul Lajus; direzione luci: Josselin Allaire [vedi crediti completi]

LES BAGNEURS

Nel solco di una ricerca artistica già ben consolidata, la coppia di scultori, performer e registi Clédat & Petitpierre porta negli spazi della Triennale la performance diffusa Les baigneurs, interpretando un tema iconografico ricorrente nella storia dell’arte. È un reenactment che affonda le radici nei/nelle “bagnanti” di Courbet, Seurat, Cezanne per assorbirne la dolce placidità, per poi giungere fino ai corpi voluminosi di Picasso, Botero e Dalì. Da Renoir acquisiscono la resa soffice, spugnosa, riproposta dai due artisti francesi attraverso costumi a righe realizzati interamente in tulle, evocando al tempo stesso un’atmosfera calda, impalpabile ed eterea. A partire dall’atrio di ingresso, la performance si propaga negli ambienti dell’istituzione museale per poi salire le scale e concludersi con la propria sparizione: le due figure ora passeggiano mollemente nel corridoio, ora si stiracchiano, ora si sdraiano per prendere irrealisticamente il sole. È attraverso una sintonia di gesti, di sguardi e di giochi che riescono a creare una complicità sospesa, nutrita di un linguaggio immediato che fa dello svago una dimensione fuggevole, silente nel suo lento divenire. In questo happening ricco di una poesia che si coglie nei dettagli, il museo diviene così spazio teatrale performativo, in cui la messinscena si costruisce e si modula attraverso le dinamiche di spostamento del pubblico; un pubblico attivo, che sperimenta quell’atmosfera di contemplativa quiescenza che permette ad un’iconografia di assumere la presenza, materica, della vita. (Andrea Gardenghi)
Crediti: concept, realisation, performance: Clédat & Petitpierre; produzione: lebeau et associés; co-produzione: far festival des arts vivants Nyon, Musée du Léman; con il sostegno di Fondazione Nuovi Mecenati – Fondazione franco-italiana di sostegno alla creazione contemporanea

PASIONARIA

Visionario, apocalittico, postumano. In Pasionaria, lo spettacolo agito  dalla compagnia La Veronal di Marcos Morau, si sedimenta una poliedrica complessità. In esso si stratificano i molteplici riferimenti visivi e letterari, riuscendo a far convivere in un simposio ottico-sonoro i transumani costumi di Silvia Delagneau, le luci distopiche di Bernat Jansà e i rumori allarmanti di Juan Cristóbal Saavedra, creando un forte contrasto con il suono melodico di Bach diffuso a inizio spettacolo. È il tramonto di un’umanità, quello a cui allude la scelta sinfonica, smarrita nell’inarrestabile progresso di un mondo tanto alienato quanto alienante, di cui si è persa ogni forma di controllo. In realtà si tratta di un controllo al limite del parossismo, perché interpretato da otto danzatori che tramite assoli, duetti e collettivi, si muovono all’interno di uno scenario sterile con gesti strozzati che finiscono per sciogliersi in moti fluidi: sono i passi meccanici di marionette senza anima, il cui corpo prende vita in coreografie dalla particolare resa plastica. All’assenza di umanità fa da contrappunto l’esuberante ricerca di pathos, da cui il titolo dello spettacolo, che indica tanto la capacità di soffrire quanto quella di emozionarsi. Morau indaga nelle turbine di questo termine, servendosi di riferimenti visivi fantascientifici, attraverso una coreografia ossessiva e inquietante di automi che sembrano agire solo in funzione di una fuga, reiterata su di una rampa di scale su sfondo interstellare. Un sali/scendi di moti e sensazioni che vengono annientati da un gas che invade la scena e che traccia vitale, dopo di sé, non lascia. (Andrea Gardenghi)
Crediti: ideazione, direzione artistica, coreografia: Marcos Morau, consulenza artistica e drammaturgica: Roberto Fratini, Celso Giménez; con : Lorena Nogal, Marina Rodríguez, Sau-Ching Wong, Ariadna Montfort, Núria Navarra, Àngela Boix, Alba Barral, Jon López
[vedi i crediti completi]

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