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Come si sopravvive alla fuga?

Al Teatro Menotti Nicola Di Chio e Miriam Selima Fieno hanno portato sul palco lo spettacolo Fuga dall’Egitto, la storia di un esilio e di più esuli, che ciclicamente si ripete ma che continua imperterrita a gridare, nell’attesa d’essere finalmente accolta ed ascoltata. Recensione e intervista.

Foto Andrea Macchia

«Tieni la telecamera accesa che registra tutto anche quando non siamo pronti», dice Miriam Selima Fieno (attrice e regista) al suo cameraman, che la segue in questo grande e doloroso viaggio, fatto di ostacoli, pericoli, paure, dubbi e insicurezze. Sentimenti questi, che ci vengono immediatamente restituiti da un lavoro che fin da subito dichiara di volersi spogliare di ogni riferimento e categorizzazione, di ‘tagliare il cordone ombelicale’ per perseguire veracemente un obiettivo: la verità, le verità.

Al Teatro Menotti assistiamo passo dopo passo ai due lunghi anni di gestazione del progetto di Nicola Di Chio e Miriam Selima Fieno, che decidono di raccontare eventi non solo recenti ma estremamente attuali, rimasti nell’ombra per un tempo che non riesce ancora a trovare giustificazioni, perché monopolizzato dalla dimensione totalizzante della paura. E per farlo, scelgono di usare un linguaggio ibrido, eclettico, moderno perché nutrito di una tecnologia che si esprime tramite proiezioni video registrate (Julian Soardi e Hazem Alhamwi) e live, musica elettronica (Yasmine El Baramawy), performance e documenti, messaggi vocali whatsapp ed e-mail. Sono scelte, queste, che rientrano nel tentativo «di cucire il linguaggio teatrale e quello multimediale, per creare un dialogo che ti porta fuori dal teatro, per connetterti alla realtà e poi ritornare dentro al teatro. Il video certamente mette un filtro, ma è un video particolare, non è proiezione che fa da contorno al racconto ma fa parte della drammaturgia stessa, la sostanzia, la giustifica – ci racconta Miriam – Il linguaggio della modernità è qualcosa che utilizzo anche per testimoniare quanto tutto fosse reale. In qualche modo i nuovi media sono stati delle altre braccia che mi hanno permesso di portare avanti la narrazione, consentendo allo spettatore di stare con me ma di andare anche un po’ oltre».

Foto Andrea Macchia

Al centro di ogni ripresa, c’è lei, che opera continui sdoppiamenti tra il sé ed il fuori da sé, in primi piani ripetuti che manifestano l’impellenza di dichiarare la propria responsabilità nei confronti di ciò che verrà raccontato. Un atto di coraggio e forse più di un’intrinseca necessità, che ha radici ben più profonde nell’indagine di Fieno. Nello spettacolo Lybia. Back Home era già presente in prima persona a ripercorrere la propria tradizione famigliare e le proprie origini, scontrandosi con la muta difficoltà di una ferita paterna, quella di un esilio sofferto e mai dimenticato. Se prima, da una vicenda estremamente personale era riuscita a risalire ad una memoria collettiva, ora con Fuga Dall’Egitto è attraverso gli altri che parla, mettendo la propria arte al servizio di una causa universale e terribilmente ciclica. Una scelta che vuole condividere con il pubblico: è per questo che si impegna a tessere un dialogo continuo con un interlocutore indistinto della platea, relazione in grado di chiamare in causa ognuno di noi. Inizia così la rievocazione di una storia, la sua, che si intreccia a quella di tutti quegli intellettuali, politici e attivisti costretti alla via dell’esilio, alla diaspora. In piedi sul palco cammina a passi svelti e a tratti veloci, come la sua voce che ora si fa tenue e lattiginosa, ora si fa più acuta, urlante, in un climax ascendente che crea ansia, soffocamento, tensione. La stessa tensione che usa il governo egiziano come arma, per una strategia di controllo e di coercizione. Bloccati, inermi, sui sedili ascoltiamo la storia di governi autoritari, delle rivoluzioni in strada, dei colpi di Stato, delle repressioni. Storie di migliaia di feriti, di migliaia di imprigionati, di migliaia di morti. Nel buio della sala, una luce arancione sopraggiunge per velare la rappresentazione di un angosciante senso di allarmismo. Miriam bisbiglia per non farsi sentire mentre parla dei soprusi, delle torture e degli arresti ingiustificati.

Foto Andrea Macchia

«La primavera della democrazia si è trasformata nella primavera dell’esilio dei democratici». Dal primo nucleo drammaturgico che vuole smitizzare l’idea di un Paese del turismo e dei resort, delle piramidi e dei faraoni, veniamo trasportati in un secondo nucleo, quello che descrive l’incontro con la giornalista Rai Azzurra Meringolo Scarfoglio al festival Internazionale di Ferrara e la nascita di un sodalizio umano e artistico che ad un certo punto deve affrontare la propria inequivocabile interruzione. Poi il tentativo di proseguire da sola, di indagare, di mettersi in contatto con gli esuli attivisti sfuggiti da un Egitto autoritario per raccogliere il loro dolore e la loro testimonianza. Entriamo così in un terzo nucleo drammaturgico che ci relega dietro a una macchina da presa: attraverso l’obiettivo seguiamo il percorso di Miriam, che diviene il nostro. C’è l’entusiasmo nella ricerca di più storie possibili e lo scontro con un enorme vuoto, quello del silenzio, quello prodotto dall’inquietudine e dal terrore di essere scoperti, trovati, uccisi. Ci sono incontri avvenuti e incontri mancati. C’è la pandemia e la sensazione di un’angosciante attesa. C’è la voglia di ricominciare.

Attraverso la tecnica del video-diario, sostanziato di documenti e interviste ci addentriamo nella storia di quattro esuli che condividono lo stesso lacerante dolore di una perdita. Sono Bahey, Taher, Ahmed e Yasmine (che doveva completare lo spettacolo con la sua presenza del palco, ma impossibilitata perché risultata positiva al Covid). Quattro diversi punti di vista, e quattro verità che vengono messe in discussione con la proiezione video di un’intervista fatta ad Abdel Fattah al-Sisi, attuale ‘presidente’ dell’Egitto, che nega la detenzione di sessantamila attivisti egiziani.

In un continuo intrecciarsi di domande e risposte a cui Miriam stessa presta la voce riusciamo a comprendere le ragioni di un progetto tanto rischioso eppure così indispensabile. Un progetto che riesce a mettere in luce anche il ruolo di un’Europa silente e di un’Italia che continua a vendere software ad un Paese che li usa per controllare i personaggi scomodi al governo, violando i diritti umani di cui l’Italia stessa si dichiara eterna protettrice. Ma perché parlare oggi di Egitto? La regista ci chiarisce subito: «L’Egitto potrebbe essere qualsiasi altro posto. Potrebbe essere la Siria, l’Afghanistan, oggi l’Ucraina. È il momento, questo, di andare oltre i nostri confini, dobbiamo necessariamente uscire. Una forte spinta è stata anche la mia identità mista, il mio sentirmi perennemente in mezzo a due culture e mancante di qualcosa. Sono partita anche io da zero, per questo motivo ho deciso di continuare la ricerca individualmente, per poi portarla avanti a teatro, assieme al pubblico».

È così che «il rito collettivo diventa il tentativo di una sincera consapevolezza per creare un senso di comunità che loro mi hanno insegnato – spiega Miriam –. Le loro, le mie, sono radici necessarie ma dolorose, che ci portiamo dentro per sempre. Per questo volevo che il mio teatro fosse una cassa di risonanza e portasse un messaggio di resistenza, perché il teatro deve essere utile». E forse, proprio per questo nello spettacolo non viene mostrata alcuna conclusione. Sono storie che vengono raccontate perché mosse da un vento dentro, ma per le quali non c’è risoluzione finale, non ci sono certezze. Sono atti di resilienza ancor più che resistenza, per chi, ancora oggi, corre tutti i giorni tra il coraggio di prendere una voce e la ritirata. E allora, come sopravvivere alla fuga? Forse, solo raccontandola.

«Perché tutto questo mi riguarda – poi si gira ci inquadra con la macchina da presa – ci riguarda».

Andrea Gardenghi

marzo 2022 Teatro Menotti Milano

ideazione e regia Nicola Di Chio, Miriam Selima Fieno con Nicola Di Chio, Yasmine El Baramawy, Miriam Selima Fieno
e con la partecipazione di Bahey eldin Hassan, Taher Mokhtar, Ahmed Said
testi e drammaturgia Miriam Selima Fieno
musiche originali e musiche live Yasmine El Baramawy
videomaking Julian Soardi video di archivio Hazem Alhamwi
disegno luci Giacomo Delfanti tecnica video e audio Antonello Ruzzini
traduzioni e cura dei sottotitoli Miriam Selima Fieno, Cecilia Negro
consulenza sulle tematiche Riccardo Noury, Azzurra Meringolo Scarfoglio
assistente di produzione Riccardo Porfido organizzazione Cecilia Negro
produzione Teatro Piemonte Europa, Festival delle Colline Torinesi_Torino Creazione Contemporanea, Tieffe Teatro Menotti 
in collaborazione con Amnesty International, IAC (Inter Arts Center) Malmö, ICORN, Malmö Stad Kulturförvaltningen
con il sostegno di Centro di Residenza IntercettAzioni (Circuito Claps, Industria Scenica, Milano Musica, Teatro delle Moire, Zona K Scappatoia Culturale);
MOVIN’UP SPETTACOLO – PERFORMING ARTS 2020/2021 a cura di MIC – Direzione Generale Spettacolo e GAI insieme con TPP Teatro Pubblico Pugliese – Regione Puglia e Associazione GA/ER
PROGETTO VINCITORE Bando INTERCETTAZIONI promosso dal Centro di Residenza Artistica della Lombardia IntercettAzioni;
Bando MOVIN’UP sostegno alla mobilità internazionale dei giovani artisti italiani

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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