Banner Expo teatro Contemporaneo
Banner Bando Veleia
Banner “emininum maskulinum” regia G. Sepe
Banner Expo teatro Contemporaneo
Banner Expo teatro Contemporaneo
Banner Bando Veleia
Banner “emininum maskulinum” regia G. Sepe
HomeArticoliSocrate poeta e danzatore? Parte II: La danza di Socrate nel Simposio...

Socrate poeta e danzatore? Parte II: La danza di Socrate nel Simposio di Senofonte

Teatrosofia #117. Qual era il rapporto di Socrate con la scrittura poetica e con la danza? Pubblichiamo il secondo di approfondimenti sul filosofo greco. 

Leggi la prima parte

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Questo articolo è scritto con il sostegno della Fondazione Bogliasco (Genova)

Nell’appuntamento precedente, abbiamo visto come a Socrate vengano attribuiti due componimenti poetici: un inno ad Apollo (e Demetra), una favola esopica in versi. Il libro XIV dei Deipnosofisti di Ateneo di Naucrati cita, però, altri due versi del filosofo, peraltro dalla dimensione performativa: «Quelli che meglio onorano gli dèi nella danza sono pure / i migliori in guerra». Subito dopo averli citati, Ateneo aggiunge che, secondo Socrate, danzare insegna la disciplina e la cura del corpo, che sono due caratteristiche precipue del guerriero in armi. Ne segue che il miglior danzatore è insieme il più temibile avversario in guerra.

Qui si pone un problema di ordine filologico. Questa coppia di versi faceva parte di una favola esopica messa in versi da Socrate, o dell’inno ad Apollo (e Demetra)? O magari è l’estratto di un terzo componimento? L’ipotesi più economica è non moltiplicare le poesie socratiche senza necessità, dunque supporre che i due versi facessero parte dell’inno. La menzione della danza come forma di onorificenza degli dèi è forse indizio che, a un certo punto, Socrate avesse descritto le coreografie in onore di Apollo e di Artemide, che sono anche divinità guerresche specializzate nel tiro con l’arco. Da qui egli avrebbe dedotto che danzare è un’attività pia, virtuosa e utile: insegna a rispettare il divino e a esercitare la virtù del coraggio.

Tale immagine di Socrate non trova parallelismi in Platone. I suoi dialoghi mostrano il filosofo che fa riferimenti ai danzatori o molto generici, o persino critici. Il Cratilo li ricorda per spiegare l’etimologia del nome di Atena. L’Alcibiade primo ne fa oggetto di disanima dialettica. Lo Ione afferma che i loro gesti coreografici discendono da ispirazione divina, non da una tecnica o arte insegnabile. Il Protagora mostra, infine, Socrate che invita a cacciare dai simposi suonatori e danzatori, per concentrare tutta la propria attenzione sui discorsi dialettici.

Un parallelismo forte si trova, invece, nelle opere socratiche di Senofonte. Un primo passo che è interessante da ricordare è il punto dei Memorabili in cui Socrate discute con Pericle, figlio del politico omonimo di Atene. Il primo induce il secondo a consentire che nessuno diventa buon stratega capace di guidare gli eserciti senza prima istruirsi, così come nessun coreografo impara a guidare i danzatori, senza prima apprendere a danzare. Benché debolmente, ciò costituisce un primo parallelo con i due versi citati da Ateneo, che dimostra il pedigree socratico dell’accostamento tra l’arte militare e la danza.

È però il Simposio di Senofonte che insiste ed esplica maggiormente questo punto. Il contesto del dialogo è il seguente. Socrate e alcuni suoi discepoli sono ospiti di un simposio del ricco Callia, che prepara loro una serie di divertimenti. Tra gli spettacoli, Senofonte ricorda cinque coreografie organizzate da un capocomico di Siracusa, che ha al servizio una suonatrice di flauto, un danzatore e una ballerina. Le prime due danze sono assoli della danzatrice. Ella lancia prima dodici cerchi in aria con maestria e li riprende mentre danza per la sala, poi volteggia senza trepidazione e con sicurezza tra delle spade. Il terzo spettacolo di danza è un assolo del ballerino, di cui sappiamo solo che consisteva in un movimento che coinvolgeva tutte le parti del corpo e che doveva essere molto animato, se alla fine lascia il ragazzo grondante di sudore. Segue come quarta coreografia un nuovo assolo della danzatrice. Mentre una ruota da vasaio con sopra delle incisioni in greco gira su sé stessa, ella cerca di leggere le parole scritte e ne scrive delle altre – il tutto agendo sulla scena in modo acrobatico. In ultimo, dietro iniziativa di Socrate che invita il Siracusano ad organizzare delle danze che imitino i caratteri dei personaggi dei pittori (Cariti, Ore, Ninfe, ecc.), il danzatore e la danzatrice allestiscono una coreografia della seduzione di Arianna da parte del dio Dioniso, culminante in baci e abbracci rappresentati così ad arte da sembrare gesti di amore vero.

A seguito di ciascuna di queste esibizioni, il filosofo commenta che esse dimostrano il collegamento della danza con l’arte militare, oltre che la parità cognitiva e fisica dei sessi. Maschi e femmine manifestano la stessa propensione alla fatica come alla virtù del coraggio. La danzatrice mostra, del resto, di avere sia forza, perché dà prova di resistenza fisica e coordinazione, sia conoscenza, perché è effettivamente un sapere appreso che le consente di calcolare l’altezza a cui lanciare i cerchi e di volteggiare coraggiosamente tra le spade ritte. Per converso, il ballerino già avvenente di per sé risulta essere ancora più bello grazie alla danza. Egli sa rendere seducente ogni parte del corpo, in quanto coi suoi movimenti coreografici riesce a sollecitarle tutte, non solo le gambe (come nel caso dei corridori), né solo le braccia (come accade ai lottatori). Proprio per aspirare a questa bellezza, alla proporzione delle membra e alla salute che ne discende, Socrate confessa di danzare spesso da solo in una stanza e di voler apprendere dal Siracusano a ballare come i suoi ballerini.

Da ciò segue che il Socrate di Senofonte non incontri rivali nel dimostrare che danzare è un viatico per la virtù del coraggio e per il rafforzamento del corpo, dunque per la guerra, che è esattamente quanto si legge nei versi socratici sulla danza in onore degli dèi. Manca in realtà un riferimento in Senofonte (e altrove) proprio alla danza come forma di culto del divino. Può però darsi che la poesia di Socrate specificasse semplicemente che anche queste danze cultuali assolvono lo stesso compito di educare alla virtù, come tutte le molteplici altre esistenti.

Platone e Senofonte si trovano si situano allora a distanza abissale su questo punto. Si è visto che il Socrate platonico caccia i danzatori dai simposi e sostiene che essi operano per ispirazione divina, mentre quello senofonteo li include e afferma che la loro arte o tecnica è razionalmente insegnabile. Occorre allora chiedersi se tale contrapposizione possa essere risolta o no.

Sulla questione dell’origine delle pratiche dei danzatori, c’è poco da fare. La tesi dell’ispirazione divina e quella della tecnica razionalistica si escludono per principio a vicenda. Il massimo che si può supporre è che il Socrate storico avesse una visione mediana. Forse egli pensava che i danzatori eseguono i loro movimenti per arte, ma che quelli eccellenti sono anche animati da dio. Platone avrebbe così esaltato più il lato “spiritualistico” di Socrate, Senofonte più quello “razionalista”. Ma si tratta di un’ipotesi al limite dell’escamotage. Nulla esclude che uno dei due autori abbia costruito a tavolino l’immagine socratica che più gli tornava utile. In tal caso, non sapremo purtroppo mai chi tra Platone e Senofonte sia l’ingegnoso mentitore.

Per quel che riguarda la scelta pro o contro la presenza dei danzatori nei simposi, invece, forse un compromesso è possibile. Anche nel Simposio senofonteo, infatti, Socrate esorta i discepoli a non lasciarsi distrarre dal fanciullo siracusano che suona il flauto, per concentrarsi sui discorsi filosofici che possono svolgere in autonomia tra loro. Non a caso, il Siracusano reagisce con malevolenza al filosofo che gli “rube la scena” e gli muove in pubblico una serie di critiche. Socrate mantiene comunque il controllo della situazione e non reagisce alla provocazione. Egli anzi difende costui dalle insolenze lanciategli contro dal buffone Filippo, istigato dal personaggio di Antistene, nonché storna i paragoni malevoli che altri membri del simposio chiedono al buffone, distraendoli con un invito a intonare una canzone.

Interessante è poi il punto in cui Socrate dà il suo giudizio complessivo sulle prime quattro danze presentategli dal Siracusano. Esse hanno due limiti. Da un lato, Socrate evidenzia che queste danze arrecano un piacere scarso o nullo: quella delle spade intimidisce il pubblico, che teme per la danzatrice, quella dei cerchi e quella della mobilitazione totale delle parti del corpo non sono più piacevoli della contemplazione dei bei ballerini che stanno fermi, quella della ruota che gira non piace affatto, perché non se ne capisce il senso. Dall’altro lato, partendo dalla premessa che lo scopo delle coreografie è stupire il pubblico, Socrate ne decreta l’irrilevanza: tanti altri oggetti o fenomeni possono ispirare tale senso di meraviglia, come la rifrazione della luce e la combustione del fuoco. Tutti questi rilievi sanciscono che gli spettacoli coreografici non sono più piacevoli o stupefacenti di altre cose o attività, dunque che se ne può anche fare a meno. Solo l’ultima danza che imita i caratteri dei pittori è considerata superiore alle altre, perché si segue più piacevolmente e facilmente. Forse su questo giudizio positivo pesa anche il ragionamento su pittura e scultura che Socrate difende nel libro III dei Memorabili. Rappresentando i caratteri e le passioni degli esseri umani, tali arti mostrano le attività non del corpo, ma dell’anima. Il piacere della danza mimetica è allora simile alla pittura e alla scultura, perché ha qualcosa di filosofico: manifesta la psiche invisibile, o la parte migliore di noi stessi, invece di fermarsi al corpo come accade alle altre quattro coreografie che il Siracusano allestisce nel Simposio.

In ultimo, possiamo osservare che sia in Platone che in Senofonte il maestro non si lascia lusingare dal potere seducente dei danzatori. Il Socrate platonico ha la forza di saperli allontanare del tutto, mentre quello senofonteo sa guardarli con impassibilità. Va a tal proposito ricordato di nuovo il finale del Simposio di Senofonte, ossia la reazione del pubblico davanti alla pantomima erotica di Arianna e Dioniso. Socrate e i suoi discepoli sono i soli che riescono a mantenersi composti, tanto che subito dopo accompagnano Callia, Licone e suo figlio a fare una passeggiata. Tutti gli altri sono presi dalla libidine: gli scapoli si ripromettono di sposarsi, mentre gli ammogliati saltano sui cavalli per correre dalle proprie rispettive consorti e giacere con loro. Tenendo conto di ciò, possiamo supporre che, in realtà, anche Senofonte conveniva che il suo maestro era ostile alla presenza invasiva degli artisti performativi nelle discussioni simposiali. Essi vanno accolti se danno un divertimento piacevole ma temporaneo, respinti se impediscono di concentrarsi sulle cose davvero importanti della vita.

Un altro modo ancora per risolvere il contrasto si ottiene pensando al contesto del Simposio senofonteo. Socrate è l’ospite di Callia e, per tale ragione, non può cacciare i danzatori da una casa che non è sua. Può darsi allora che Platone esprima quale sarebbe stata la preferenza di Socrate, mentre Senofonte documenta il suo atteggiamento costruttivo all’interno di situazioni in cui gli artisti non potevano in alcun modo essere cacciati.

La lunga incursione fatta per decifrare il contenuto filosofico dei pochi frammenti poetici attribuiti a Socrate ha consentito di raggiungere alcuni risultati positivi. Possiamo considerare plausibile l’ipotesi storica che il filosofo fu poeta e danzatore, anzi che intensificò queste due attività in vecchiaia avanzata e reputasse soprattutto la seconda un buon viatico per la virtù. Nonostante ciò, resta impossibile verificare se i versi tramandati da Diogene Laerzio e Ateneo di Naucrati sono autentici. Niente vieta di pensare che siano dei falsi storici, costruiti a partire dal Fedone di Platone, per quel che riguarda le favole di Esopo, e dal Simposio di Senofonte, per ciò che concerne la danza. Purtroppo, non sapremo mai se i versi scritti da Socrate in carcere sono quelli che leggiamo oggi, o se siano andati del tutto perduti, insieme a molti dettagli del suo pensiero.

—————————

Una volta il tipo di danza praticato dai cori aveva una sua nobile dignità, e imitava, per cosi dire, i movimenti di una persona armata. Quindi anche Socrate nei suoi versi afferma che i migliori danzatori sono anche i migliori in guerra, e queste sono le sue parole: «Quelli che meglio onorano gli dèi nella danza sono pure / i migliori in guerra». Infatti la danza era quasi come una parata in armi, e dimostrava non solo il grado di disciplina in generale, ma anche la cura posta nell’esercizio fisico (Ateneo di Naucrati, I sofisti al banchetto, libro XIV, cap. 25 = Socrate, fr. 2 Gentili-Prato; trad. Canfora)

SOCRATE: Intanto, il secondo nome di Atena non è difficile dire perché le fu posto.

ERMOGENE: Quale?

SOCRATE: “Pallade” la chiamiamo.

ERMOGENE: E come no ?

SOCRATE: Questo nome, se dal danzare fra le armi noi pensiamo le sia stato posto, giustamente, credo, pensiamo: infatti il sollevare se stesso o qualche altra cosa, o da terra o nelle mani, diciamo πάλλειν e πάλλεσθα, far danzare e danzare.

ERMOGENE: Certamente.

SOCRATE: Allora diciamo “Pallade” per questo (Platone, Cratilo, passo 406d7-407a4; trad. Lorenzio Minio-Paluello in Giannantoni, Platone)

SOCRATE: Allora, via, dimmi – perché, penso, anche a te farebbe onore saper dialogare bene – qual è l’arte a cui è propria la correttezza nel suonare la cetra, nel cantare e nel danzare? Nel suo insieme, come si chiama? Non sai dirlo ancora?

ALCIBIADE: No.

SOCRATE: Prova un po’ in questo modo: chi sono le dee a cui è propria quest’arte?

ALCIBIADE: Le Muse? È cosi, Socrate?

SOCRATE: Sì. Attento ora. E quale nome trae quell’arte da loro?

ALCIBIADE: Forse vuoi dire la musica.

SOCRATE: Sì. E cos’è corretto secondo la musica? Come io nel primo caso ti dicevo ciò che è corretto secondo la ginnastica, anche tu, allo stesso modo, cosa dici? Come sarà?

ALCIBIADE: Musicale, credo (Platone, Alcibiade primo, passo 108c6-d3; trad. Piero Pucci in Giannantoni, Platone)

SOCRATE: Forse gli uomini che dirigono i flautisti e conducono il canto e che si servono dei danzatori?

ALCIBIADE: No, no.

SOCRATE: Perché questa è arte del capocoro?

ALCIBIADE: Senz’altro (Platone, Alcibiade primo, passo 125c13-c4; trad. Piero Pucci in Giannantoni, Platone)

Infatti tutti i poeti epici, quelli bravi, non per arte, ma perché ispirati e posseduti recitano tutti quei bei poemi, e lo stesso i poeti melici, quelli bravi: come coloro che partecipano ai riti coribantici non danzano quando sono in senno (Platone, Ione, passo 533e5-534a1; trad. Capuccino)

Tali persone, infatti, per l’incapacità di intrattenersi fra di loro mentre bevono insieme con le proprie risorse, con la propria voce e con i propri discorsi, prive come sono di ogni educazione, fanno aumentare il prezzo delle suonatrici di flauto e pagando cara l’estranea voce dei flauti, mediante tale voce s’intrattengono tra di loro; ove invece si trovano a simposio persone di valore e bene educate, non si vedranno né suonatrici di flauto, né danzatrici, né suonatrici di cetra, ma persone che da sé sono capaci di conversare insieme, senza alcun bisogno di questi cicalecci, di queste fanciullaggini, con la loro stessa voce, parlando e ascoltando a turno, con ordine, sia pur bevendo vino in grande quantità (Platone, Protagora, passo 347c5-e1; trad. Francesco Adorno in Giannantoni, Platone)

Forse… nel campo militare hanno il comando uomini del tutto ignoranti. Non vedi che nessuno, senza un’adeguata competenza, si azzarda a dirigere citaristi, coreuti, danzatori e neppure pugili e pancraziasti? E infatti chiunque li guida può mostrare dove ha imparato l’arte in cui è maestro; degli strateghi, invece, la maggior parte si improvvisa (Senofonte, Memorabili, libro III, cap. 5, § 21; trad. Laurenti)

Dopo che furono tolte le mense, libarono, cantarono il peana ed ecco si presenta per rallegrarli un siracusano che aveva con sé un’eccellente auletride, una ballerina di quelle capaci di far acrobazie e un ragazzo oltremodo bello e oltremodo abile a suonare la cetra e a danzare. Egli li esibiva nei loro esercizi, come fossero maraviglie, e faceva quattrini. Poi l’auletride suonò il flauto, il ragazzo la cetra e si vedeva che tutti erano molto rallegrati dai due. E Socrate: – Per Zeus, o Callia, ci tratti in modo perfetto! Non solo ci hai offerto un pranzo impeccabile, ma ci presenti anche spettacoli e musica graditissimi (Senofonte, Simposio, cap. 2, §§ 1-2; trad. Laurenti)

Ora terminiamo il ragionamento, perché vedo la ballerina che sta qui, pronta, e uno che le porge i cerchi. E già l’altra cominciava ad accompagnarla col flauto, mentre uno stando vicino alla ballerina, le porgeva dei cerchi, dodici in tutto. Essa li prendeva e continuava a danzare e li gettava in alto agitandoli e calcolando a quale altezza dovesse lanciarli per riprenderli in cadenza. E Socrate osservò: -Amici, da molte altre cose e anche da questi esercizi compiuti da una fanciulla, appare chiaro che la natura femminile non si rivela affatto inferiore a quella maschile: solo manca di conoscenza e di forza. Quindi, se qualcuno di voi ha moglie, le insegni con passione ciò che pretende che essa sappia (Senofonte, Simposio, cap. 2, §§ 7-9; trad. Laurenti)

In seguito fu portato un cerchio irto tutt’intorno di lame diritte. La ballerina vi si lanciava contro saltando, poi le superava con un salto mortale e chi guardava temeva si facesse male, mentre ella eseguiva l’esercizio con sicurezza e senza trepidare. Socrate, allora, chiamato Antistene, gli disse: -Non potranno davvero più sostenere, io penso, quanti hanno visto, che il coraggio non si insegni, se costei, pur essendo donna, si lancia sulle spade con tanta audacia (Senofonte, Simposio, cap. 2, §§ 11-12; trad. Laurenti)

Dopo danzò il ragazzo. E Socrate disse: – Vedete come il ragazzo, pur essendo bello, appaia tuttavia più bello in questi atteggiamenti che quando sta fermo? E Carmide: – Par che tu voglia lodare il maestro di danza. – Senz’altro, per Zeus, disse Socrate. E anche di un’altra cosa mi sono accorto e cioè che, mentre danzava, nessuna parte del suo corpo stava ferma, ma si muovevano insieme il collo, le gambe, le mani: così deve danzare chi vuol mantenere il corpo in piena efficienza. lo, anzi, siracusano, apprenderei molto volentieri da te queste figure. E quello: – A che ti serviranno? – A danzare, per Zeus. Qui tutti si misero a ridere. Allora Socrate, molto serio in volto: – Ridete di me?, disse, perché voglio far esercizi per conservarmi meglio in salute, per mangiare e dormire più volentieri? o perché desidero compiere questi esercizi e non quelli dei corridori cui si sviluppano solo le gambe, mentre il torace resta gracile, né quelli dei lottatori cui si sviluppa il torace, mentre le gambe restano gracili, faticando con tutto il corpo, onde armoniosamente s’accresca in ogni parte? o ridete perché non ci sarà bisogno che mi trovi un compagno di esercizi, né che mi spogli, alla mia età, tra gli altri, ma mi basterà una stanza, capace di sette letti, come ora al ragazzo è bastata questa sala per grondar di sudore, e potrò, quindi, esercitarmi d’inverno al coperto, quando, poi, il caldo è eccessivo, all’ombra? o ridete perché voglio ridurre alle giuste proporzioni il mio ventre, più grosso del normale? Non sapete che qualche giorno fa Carmide, qui, mi sorprese, di mattina, a danzare? – Proprio cosi, per Zeus, confermò Carmide: e dapprincipio rimasi stupito e temetti tu fossi impazzito; ma quando mi portasti ragioni analoghe a quelle che ora hai ricordato, non dico ch’io pure, tornato a casa, mi mettessi a danzare – ché non l’ho mai imparato – ma, via, cominciai a muovere in cadenza le mani: questo sapevo farlo (Senofonte, Simposio, cap. 2, §§ 15-20; trad. Laurenti)

Ed ecco Arianna, abbigliata da sposa, s’avanzò e prese posto sul seggio. Siccome Dioniso non appariva, il flauto intonò un motivo bacchico. E qui ammirarono tutti il maestro di danza, ché Arianna, appena l’udì, fece intendere a ognuno che l’aveva udito con piacere: lo si capiva dai gesti – non si avanzò per andargli incontro, né si levò, ma era chiaro che penava a star ferma. Quando Dioniso la vide, danzandole vicino come uomo innamorato, le sedette sulle ginocchia e, presala tra le braccia, le dette un bacio. Ella, pur vergognandosi, l’abbracciò a sua volta con tenerezza. A quella vista i convitati applaudirono insieme e insieme gridarono il “bis”. Allora Dioniso, alzatosi, fece alzare Arianna e, dopo, si mostrarono in atteggiamento di baciarsi e di carezzarsi tra loro. Vedendo Dioniso tanto bello e Arianna tanto delicata, che non per scherzo, ma per davvero si baciavano, rimasero tutti a guardare, in preda a una violenta emozione. E udirono Dioniso che chiedeva alla fanciulla se gli volesse bene e lei che giurava in guisa tale che non soltanto Dioniso, ma i presenti tutti avrebbero affermato che si amavano tra loro. Sembrava che non si atteggiassero a quel modo perché l’avevano imparato, ma perché volevano soddisfare un antico desiderio. Infine i convitati, vedendoli così stretti, in procinto quasi di andare a letto, gli scapoli giurarono di sposarsi, gli sposati, invece, balzati a cavallo, si diressero in fretta dalle loro spose per godere anch’essi come quelli. Socrate e gli altri rimasti uscirono fuori con Callia per accompagnare Licone e il figlio a far due passi. Questa fu la fine di quel convito (Senofonte, Simposio, cap. 9, §§ 3-7; trad. Laurenti)

Dopo, accordata la lira al flauto, il fanciullo suonò e cantò. E tutti lo elogiarono e Carmide disse: – Mi sembra, o amici, che, come Socrate ha detto del vino, cosi, quando la bellezza dei fanciulli si consegna a quella dei suoni, gli affanni si placano, sorge l’amore. E Socrate, a sua volta: – Costoro, amici, a quanto pare, sono bensì capaci di allietarci: ma io so che noi ci riteniamo molto superiori a loro. Non è brutto, quindi, che, stando insieme, non cerchiamo di aiutarci e di rallegrarci tra noi? (Senofonte, Simposio, cap. 3, §§ 1-2; trad. Laurenti)

Come il siracusano vide che, tenendosi tali discorsi, nessuno più badava ai suoi spettacoli, ma si divertivano tra loro, mosso da malignità disse a Socrate… (Senofonte, Simposio, cap. 6, § 6; trad. Laurenti)

Finito il canto, fu portata alla ballerina una ruota da vasaio, sulla quale essa doveva far acrobazie. E Socrate disse: -C’è caso, o siracusano, che io, come tu dici, sia davvero un sapiente: adesso, per esempio, penso come possano, questo tuo ragazzo e questa ragazza, esibirsi nel modo più facile per essi, e come noi, nondimeno, possiamo ricavarne il godimento più grande a guardarli. Anche tu, lo so bene, non cerchi altro. In realtà, saltare tra le spade è un’esibizione un po’ pericolosa, non adatta a un convito: scrivere e leggere su una ruota che gira può certo stupire, ma non ce la faccio a comprendere quale diletto possa dare: infine, mirare giovani belli e floridi mentre distorcono il corpo e imitano i cerchi, non riesce più gradito che contemplarli in riposo. Del resto, non è affatto difficile trovare ciò che possa destar stupore, se proprio lo si vuole, perché si hanno tante cose a portata di mano, davanti alle quali si resta pieni di meraviglia: perché, per esempio, la lucerna dà luce con la sua fiamma splendente, mentre il bronzo, pur essendo splendente, non dà luce, ma riflette in sé gli altri oggetti? Ancora: come può l’olio, che è umido, alimentare la fiamma, mentre l’acqua, ch’è pur essa umida, spegne il fuoco? Certo, tali questioni non producono gli stessi effetti del vino: però, se i ragazzi danzassero al suono del flauto, imitando gli atteggiamenti che i pittori danno alle Cariti, alle Ore e alle Ninfe, io penso che per essi sarebbe molto più facile e per noi il convito riuscirebbe molto più gradito. E il siracusano: -Per Zeus, Socrate, parli bene davvero e io vi darò una rappresentazione che vi· rallegrerà (Senofonte, Simposio, cap. 7, §§ 1-5; trad. Laurenti)

Se talora s’intratteneva con qualche artista, che esercitava, per ragioni di lavoro, la sua arte, era utile anche a questo. Essendosi recato un giorno da Parrasio, il pittore, parlando con lui, gli domandò: -La pittura, Parrasio, non è rappresentazione di quel che si vede I E infatti, i corpi bassi e alti, all’ombra e alla luce, , ruvidi e morbidi, aspri e lisci, giovani e vecchi, voi li imitate ritraendoli mediante i colori. -È vero, disse. -E quando raffigurate modelli di bellezza, siccome non è facile trovare un uomo perfetto in ogni parte, voi, mettendo insieme i più bei dettagli presi da ciascun individuo, fate si che appaia bello il corpo intero. -Facciamo proprio così, disse. -E che I l’atteggiamento dell’anima estremamente seducente, dolce, amabile, piacevole, attraente, riuscite a riprodurlo o non si può imitare? -Come si può imitare, Socrate, ciò che non ha proporzione di parti, né colore, né alcuna cosa di quelle ch’era hai enumerato, e non è in nessun modo visibile? – Eppure, riprese Socrate, non può l’uomo guardare qualcuno con simpatia o inimicizia? -Credo di si, disse. -E tutto ciò non si può rendere nell’espressione degli occhi? -Senza dubbio. -E ti sembra che abbiano lo stesso atteggiamento del volto quelli che s’interessano al bene e al male degli amici e quelli che non se ne interessano? -No certo, per Zeus: chi s’interessa ha un’espressione contenta quando gli amici stanno bene, diventa cupo se stanno male. -Dunque, pure questo si può ritrarre? -E come! -E anche la magnificenza, la liberalità, la grettezza, l’ignobiltà, la temperanza, la prudenza, la tracotanza e la volgarità traspaiono dal volto e dall’atteggiamento dell’uomo – sia fermo che in movimento. -È vero. -Dunque si possono imitare? -E come! – E pensi che si contempli più volentieri quel che lascia trasparire caratteri belli, buoni, amabili, o quel che li lascia trasparire brutti, cattivi, odiosi? -Oh, c’è una bella differenza, Socrate! Andò un giorno da Clitone, lo scultore, e conversando con lui, gli disse: -Clitone, che i tuoi corridori, lottatori, pugilatori e pancraziasti siano belli, lo vedo e lo so: ma l’elemento che più trascina gli uomini attraverso la vista e, cioè, quell’essere le tue statue così piene di vita, come riesci a infondervelo? E siccome Clitone, rimasto interdetto, non rispose subito: -Non è, disse, modellando le tue opere sulle forme degli esseri viventi che le fai apparire più animate? -Senza dubbio, rispose. -E non è ritraendo accuratamente le varie parti del corpo nelle diverse pose, e cioè abbassate o levate, contratte o allungate, rigide o rilassate, che fai apparire le tue statue più simili a creature vive e più seducenti? – E come! – E l’esatta imitazione di quel che accade ai corpi in movimento non produce un piacere gradito in chi l’osserva? -È naturale. -Non si devono quindi ritrarre anche i minacciosi occhi dei combattenti, non si deve imitare lo sguardo dei vincitori pieni di gioia? – Senza dubbio. – Dunque, lo scultore deve rendere attraverso la forma esteriore l’attività dell’anima (Senofonte, Memorabili, libro III, cap. 10, §§ 1-8; trad. Laurenti)

[I frammenti sull’attività poetica di Socrate e quello di Solone sono raccolti da Bruno Gentili, Carlo Prato (ed.), Poetae Elegiaci. Testimonia et fragmenta, Leipzig, Teubner, 1985. Le altre raccolte di fonti e le traduzioni italiane usate sono le seguenti:

  • Carlotta Capuccino,
  • Gabriele Giannantoni (a cura di), Platone: Opere. Volume primo, Roma-Bari, Laterza, 1974;
  • Luciano Canfora (a cura di), Ateneo di Naucrati: I deipnosofisti, o i dotti a banchetto. Vol. 3: libri XII-XV, introduzione di Christian Jacob, Roma, Salerno Editrice, 2001;
  • Renato Laurenti, Le opere socratiche di Senofonte, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Socrate: tutte le testimonianze da Aristofane e Senofonte ai Padri della Chiesa, Roma-Bari, Laterza, 1971, pp. 75-269]

Telegram

Iscriviti gratuitamente al nostro canale Telegram per ricevere articoli come questo

Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Pubblica i tuoi comunicati

Il tuo comunicato su Teatro e Critica e sui nostri social

ULTIMI ARTICOLI

È possibile salvare il mondo prima dell’alba?

Recensione. Il nuovo spettacolo di Carrozzeria Orfeo compone un monito severo e ruvido sui vizi della società capitalista, ma lo fa attraverso una lista...

Media Partnership

Prospero – Extended Theatre: il teatro europeo in video, già disponibile...

Raccontiamo con un articolo in media partnership gli sviluppi del progetto dedicato alla collaborazione internazionale che ha come obiettivo anche quello di raggiungere pubblici...