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Radicalismo e libertà. Senza filtri, Babilonia Teatri

Abbiamo incontrato Enrico Castellani di Babilonia Teatri a Castrovillari: lo spettacolo Natura morta, dopo il debutto alla Biennale di Venezia, è andato in scena anche nel programma del festival Primavera dei Teatri organizzato da Scena Verticale. Intervista.

È freddo a Castrovillari, il festival, che ha la primavera nel titolo e nei tempi, quest’anno si è tenuto a Ottobre. Non è mancata la pioggia e qualche spolverata leggera di neve sul Pollino. Non ero abituato a vedere la piccola cittadina lontano dal sole di maggio, mi sembra tutto meno rilassato. Ma il gruppo di lavoro (guidato da Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano) nonostante le difficoltà metereologiche e le norme per contrastare la pandemia è riuscito ad essere ancora una volta centro imprescindibile per la comunità teatrale nazionale e per il territorio calabrese.

Qui è andato in scena anche Natura Morta, di Babilonia Teatri; lo spettacolo ha debuttato alla Biennale di Venezia, programmato nell’ultimo anno della direzione di  Antonio Latella. Un progetto che è una provocazione, Enrico Castellani e Valeria Raimondi parlano di esodo, un grande esodo dai nostri corpi, da un mondo fatto di relazioni che ci porta a vivere “virtualmente” nei nostri smartphone. Ho riflettuto nei giorni successivi al debutto veneziano sulla possibilità di raccontare quella provocazione, uno spettacolo che anticipa anche la critica perché in qualche modo già prova a mettersi in discussione con il proprio svolgersi. Incontrare a Castrovillari Castellani è stata dunque l’occasione per fermarsi a riflettere su quella provocazione ed entrare nelle pieghe del senso di fare un teatro lontano dalla stasi e dalla conciliazione.

Radicalismo, cominciamo da questa parola, che da sempre penso sia legata al vostro modo di fare teatro; in questo ultimo spettacolo con cui avete debuttato alla Biennale di Venezia, arrivate a negare la possibilità di mettere in scena qualcosa, di fare spettacolo, dunque negate il teatro. Cosa vuol dire essere radicali, oggi?

Vuol dire avere il coraggio e la libertà di non preoccuparsi di cosa gli altri si aspettano. Sapere che ciò a cui stai lavorando può non incontrare il favore di tutti. Essere radicali vuol dire tentare di creare qualcosa che sia in grado di discutere, di non lasciare indifferenti. Vuol dire essere fotografia di ciò che noi sentiamo di essere, senza filtri che possano ammorbidire l’immagine, in modo ruvido, che possa infastidire…

Ti assicuro che in effetti quest’ultima vostra creazione può infastidire, lasciare interdetti; è accaduto anche a Venezia, alcuni colleghi giornalisti se ne sono andati…

Non può non accadere, però, d’altra parte, c’è qualcosa in questo progetto che prova a portare alle estreme conseguenze una modalità di relazione, di comunicazione che di fatto abbiamo sposato, una via che non sappiamo dove ci porta. Il teatro è un luogo di incontro tra corpi e il fatto che questo incontro non avvenga è una provocazione, però prova a raccontare di come questo incontro sempre più spesso non avvenga e non solo a causa del lockdown.

Cosa vi aspettate dal pubblico di fronte a un lavoro del genere, in cui non c’è una relazione con la scena (se non all’inizio e alla fine), nel quale la drammaturgia si esprime solo sullo smartphone degli spettatori?

Ci aspettiamo che chi assiste allo spettacolo sia disposto a mettere in campo quello stesso tipo di libertà di cui si parlava: di non continuare a ragionare secondo delle categorie date, ovvero è teatro se ci sono in scena delle persone che dicono delle battute ed è danza se ci sono in scena delle persone che danzano. Ormai questo tipo di schema, soprattutto in alcuni contesti, è desueto, quindi dobbiamo provare a guardare e a metterci in ascolto invece di metterci immediatamente a giudicare e a rintracciare le categorie in cui sistemare ciò che stiamo guardando. Forse se queste categorie ogni tanto saltano è una benedizione per tutti, noi per primi, perché questo ci permette di farci delle domande: cosa accade se non seguiamo queste categorie, questi schemi? Altrimenti continuiamo a perpetuare noi stessi e ognuno la propria modalità, quella che funziona; per carità è un atteggiamento lecito, anche a me capita di farlo, ma è evidente che in alcuni contesti – come quello della Biennale (il direttore Antonio Latella aveva richiesto proprio un atteggiamento sperimentale, radicale anche nei confronti del pubblico, ndr.) un progetto come questo possa incontrare quella libertà di sguardo di cui ha bisogno.

Questa necessità di libertà, di radicalismo, come si coniuga con gli spettacoli in cui lavorate con disabili e non professionisti?

Per noi è lo stesso, si tratta però di trovare la modalità con la quale mettere a proprio agio le persone con cui si lavora: questo sia se lavoriamo con una bambina di 11 anni (Lolita, 2013), sia quando è capitato con persone che provenivano da una situazione di coma (Pinocchio, 2012), oppure quando lavoriamo con Paola Gassman e Ugo Pagliai (Romeo e Giulietta, 2020). Sono persone con storie completamente diverse, alle quali puoi chiedere anche cose diverse, rimane però una matrice nostra che riguarda proprio la necessità di non seguire uno schema dato, ma di trovare sempre cosa abbiamo in comune all’interno dello spettacolo che stiamo creando, dove risiede l’interesse nel farlo, cosa comunicare attraverso di esso e con il pubblico. Insieme agli spettatori possiamo portare alla luce degli incontri che sono possibili solo grazie al teatro, nella quotidianità io vivo una vita separata da queste persone che porto sulla scena.

Sono passati 13 anni dalla vittoria al Premio Scenario, da un concorso insomma che vi ha lanciato, come è cambiato il teatro d’arte italiano in questo periodo?

Sono sincero, non ho una visione chiara di come sia cambiato. Alcuni piccoli spazi e luoghi importanti sono spariti, però allo stesso tempo continuo a vedere un fermento, una volontà dal basso di cercare di costruire, ho visto anche istituzioni e stabilità pubbliche che hanno cominciato ad aprirsi ai linguaggi del contemporaneo. A queste istituzioni manca però la capacità, alla maggior parte di esse, di ragionare con le logiche proprie dei teatranti invece che con quelle di leggi fatte per rispettare altre logiche che non siamo artistiche.

Voi non siete mai entrati nel Fus (Il Fondo Unico per lo Spettacolo dedicato a teatri, compagnie e soggetti che devono rispettare una serie di stringenti regole per essere finanziati), vi producono dunque i teatri stessi. É possibile per degli artisti quarantenni vivere di teatro, fare impresa teatrale e mantenere una famiglia?

Noi da 13 anni lo facciamo, certo dal punto di vista delle economie siamo una piccola realtà. Ogni spettacolo, ogni anno, è un salto nel vuoto, non abbiamo un teatro di riferimento con cui produrre in tempi comodi (triennalmente ad esempio), ogni volta dobbiamo ricercare la produzione e alcune volte questa si rivolge ad alcuni teatri, altre volte a piccoli festival. Dunque è possibile, ma non si sta molto comodi. Noi però abbiamo fatto quella scelta, di non entrare nel Fus – in cui tra l’altro mi pare non si stia così comodi – anche perché non abbiamo mai avuto una componente spiccatamente organizzativa nella compagnia. Abbiamo sempre preferito pensare a che spettacolo fare; quello dell’organizzazione è un lavoro che ha bisogno di competenze precise…

Questo momento storico, con una pandemia in atto e mesi di lockdown sulle spalle, ha scoperchiato una serie di problematiche da sempre esistenti e una delle conseguenze più interessanti è proprio il rafforzamento delle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo, e delle compagini sindacali; una presa di coscienza generale insomma. Ma come è possibile tenere insieme la questione dei diritti e delle lotte con quella del riconoscimento del lavoro artistico nella società di oggi – la storia dei bonus e delle giornate lavorative ci ha raccontato anche questa contraddizione? Tenere insieme battaglie e necessità di ricerca del talento?

Io credo siano due binari separati. Penso che questo lavoro si possa fare dignitosamente anche non essendo artisti e di artisti veri ce ne sono pochi. Credo che gli ammortizzatori sociali dovrebbero essere ripensati totalmente, non solo in relazione a un’emergenza. Mi interrogo però anche come sia possibile costruire delle garanzie che non cristallizzino il lavoro, cioè, se dicessero a me “tu per 10 anni devi lavorare con questi attori e li paghiamo noi perché noi ti produciamo…” io non farei i salti di gioia, mi sparerei in testa, non saprei cosa fare. Spesso le persone che cerchiamo per i nostri lavori non sono attori e se cerchiamo attori li scegliamo prima per altri motivi non legati alle capacità tecniche. Però tutto questo non deve farci dimenticare che le condizioni di lavoro spesso sono al limite della decenza.

Andrea Pocosgnich

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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