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«All’Italia auguro un teatro libero». Conversazione con Antonio Latella

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Apre oggi la 48esima edizione del Festival Internazionale del Teatro della Biennale, a Venezia fino al 25 settembre. Abbiamo raggiunto telefonicamente il  direttore artistico Antonio Latella. Intervista

Atto primo: Regista, Atto secondo: Attore /Performer, Atto terzo: Drammaturgie, Atto quarto: Nascondi(no). I titoli delle edizioni 2017/2020 del Festival Internazionale del Teatro de La Biennale di Venezia, per la direzione artistica di Antonio Latella (leggi l’intervista del 2018), rivelano un programma. I primi tre atti hanno acceso i riflettori su altrettante maestranze: la regia, l’interpretazione, la scrittura. Il quarto prova a guardare dentro il cono d’ombra. La censura è il tema portante di questa edizione di Biennale, che chiude il quadriennio di Latella nel segno di un teatro ridelineato, sulla scena e in platea, dalle norme sul distanziamento e di una profonda difficoltà, per l’intero settore, a guardare al futuro. Ma la macchina-Biennale non si è fermata, mantenendo la propria compattezza curatoriale e le diverse vocazioni che la animano: selezionare e programmare artisti meno visibili, offrire opportunità di formazione e creazione, premiare, definire un territorio di incontro. Questa sarà un’edizione di soli debutti e tutti italiani: una decisione presa prima che il Covid cancellasse voli e produzioni, volta a mappare realtà sommerse (e a volte silenziate) e a metterle in comunicazione tra di loro. Abbiamo raggiunto al telefono Antonio Latella alla vigilia dell’apertura dei lavori.

Biennale, sotto la sua direzione, si presenta come una macchina complessa e come un “ambiente di conoscenza”. In che modo questa funzione del festival come territorio di incontro si adatta o si rinnova al cospetto con l’emergenza che ha investito il mondo e il settore?
Quando sono stato scelto da Paolo Baratta (allora Presidente della Fondazione, ndr.) per dirigere Biennale Teatro ho accolto la nomina come una grande e importante sorpresa. Non avevo avanzato domanda e sono convinto che nessun altro in Italia mi avrebbe affidato una direzione artistica. Ho inteso questo quadriennio come un tempo dedicato a un lavoro di scouting a livello internazionale e nazionale, per sostenere artisti e compagnie meno visibili. Questo vuol dire assumersi il rischio di edizioni non sempre formidabili, segnalando spettacoli che potrebbero essere dimenticati, ma credo che, a maggior ragione in questo momento, vada rafforzata la funzione del festival come luogo in cui osare, bisogna provare a spezzare le convenzioni e le scelte conservative che sembrano “garantire” il pubblico. Inoltre aprire un festival oggi vuol dire celebrare una festa del teatro e, allo stesso tempo, intraprendere un’azione politica. È un modo per dire che la cultura non è intrattenimento e che i lavoratori dello spettacolo non sono buffoni di corte. Al contrario l’arte è nutrimento ed economia, il biglietto da visita del paese, non il suo fanalino di coda.

Frame Biennale Youtube

Parliamo di scouting: attraverso quali modalità individua e seleziona gli artisti meno noti?
Per quanto riguarda l’estero, nelle passate edizioni, lo scouting è consistito in un ampio lavoro di mappatura sul territorio europeo, cercando registi che non sono valorizzati e a volte neppure piacciono. La programmazione in Biennale prevedeva sempre almeno due o tre spettacoli dello stesso regista, per consentire al pubblico di “muoversi” all’interno di quel processo creativo, di scoprire che può amare un lavoro e odiarne un altro, che non c’è necessariamente uniformità. Avevo in mente, già prima del Covid, di fare di questa ultima edizione del quadriennio un “Padiglione Teatro Italia”, accogliendo il maggior numero possibile di artisti italiani in dialogo tra loro attorno a un tema. Tutti portano un debutto, dunque è un’edizione “senza rete”.

La censura, nelle sue tante sfaccettature tematiche, è il cardine di questa edizione. Lei ha parlato di censura come «valore alto», un’idea contro-intuitiva, ma anche come condizione di marginalità di tanti artisti italiani non programmati, dunque «censurati o nascosti». Qual è la distinzione (o il confine) tra censurare e nascondere?
Molti artisti, soprattutto ma non solo giovani, lavorano senza trovare alcuno spazio nei cartelloni nazionali. Chi è del settore li conosce e li segue attraverso altri circuiti, dunque esistono ma sono “silenziati”. Tra i giovani vengono effettivamente programmati soltanto quelli che hanno già ottenuto un riscontro: così il pubblico perde la possibilità di osservare il lavoro di un nuovo artista nel proprio tempo evolutivo, raccogliendone, forse, solo gli esiti. Ai giovani ho chiesto di osare, soprattutto nella scelta dei testi e dei temi, di lavorare completamente al di fuori del pensiero «cosa è che porta pubblico?». Alcuni lavori si occuperanno di tabù del nostro tempo: la riflessione sulla morte, che tentiamo continuamente di cancellare, ma anche quella sul femminile che tende a tacitare alcune pulsioni (o non pulsioni, come l’assenza di desiderio di avere figli) per un disagio di fronte alle istanze sociali. Dal dialogo, virtuale e in presenza, tra gli artisti si compone Nascondi(no), una sorta di grande spettacolo diffuso che si porta nel nome la coesistenza della dimensione del gioco con l’imperativo “Non nasconderti!». Prima di nascondere agli altri o a te stesso qualcosa, devi almeno tentare di conoscerla, altrimenti è come se vietassi una crescita naturale.

Anche la scelta nelle assegnazioni dei Leoni alle maestranze (quello d’Oro è andato al sound designer Franco Visioli, mentre quello d’Argento al regista e coreografo Alessio Maria Romano) sembra rispondere a una volontà di gettare luce su mestieri dell’arte meno visibili e meno celebrati di quello registico. Si tratta di un segno politico o che è stato recepito in termini politici. Visioli ha collaborato a lungo con lei: crede che, in qualche modo, solo il regista possa avere cognizione della precisa qualità del lavoro di chi opera dietro le quinte? Mi spiego meglio: se lo sguardo dalla platea non è tenuto a saper scorporare l’opera di una maestranza dall’opera nel suo insieme, è necessario un atto simbolico per valorizzarla?
Il lavoro teatrale è fatto di grandi collaborazioni. Ho desiderato, in questi quattro anni, premiare attraverso i Leoni tutte le maestranze, dunque anche gli incontri con i maestri che sono stati e saranno fondamentali per la crescita degli artisti. Credo molto nel talento dei collaboratori e ritengo che chi cura la luce, il suono, il movimento scenico sia per l’appunto un maestro, un artista, non un tecnico. Ho lavorato con Franco Visioli, è vero, ma ai miei esordi, quando ero soltanto un giovane attore, lui era già un sound designer di grande rilievo. Dare un Leone d’Oro a lui significa, a livello simbolico, premiare la categoria, coloro che costruiscono i suoni in tutti i grandi teatri del mondo. Romano è un giovane coreografo che ha scelto la pedagogia, dunque la formazione che guarda al futuro, ed è questo il valore che è stato premiato con il Leone d’Argento.

A proposito: da questo iperpresente di aggiornamenti, bollettini sanitari e grande provvisorietà, come immagina il “teatro del futuro” e quali sono le strategie per la sua sostenibilità?
Non so rispondere a questa domanda se non dicendo che, in quanto esseri umani, abbiamo il desiderio e il bisogno di raccontare storie, e di ascoltarle. Per questo il teatro ha resistito a tutto, attraverso i millenni: le storie rendono la nostra vita più facile, ci aiutano ad avere meno paura. È un onore avere questo compito. Non so se il teatro del futuro sarà un teatro povero, ecologico, tecnologico, elettronico… all’Italia auguro un teatro libero, che sappia e voglia parlare a tutti e che non si soffermi sulle distinzioni nominali tra on e off, tra ciò che è o non è “di ricerca”. Soprattutto un teatro che riceva supporto su base davvero meritocratica e non in funzione di ciò che viene discusso e concordato nei salotti. Solo allora saremo liberi.

Il quadro quasi illeggibile della fase istruttoria per la nomina del nuovo direttore del Piccolo Teatro di Milano, la poltrona vacante al Teatro di Roma sono esempi di come, a livello nazionale, manchino limpidezza e rigore progettuali?
È indispensabile, intanto, chiarire cosa sia un progetto. Un progetto teatrale per una città e quello per un paese devono saper parlare ai cittadini. Non possono essere elaborati a partire a vincoli tipo «L’Europa ci dice…». L’Europa siamo noi, lo siamo nel DNA, quindi prendiamoci la responsabilità di declinare i verbi alla prima persona plurale: «noi diciamo, noi facciamo». Sappiamo tutti di autori che non vengono chiamati per la logica del “non far perdere pubblico” o per il timore di “fermare i soliti nomi”. Ecco, semplicemente le regole non scritte devono essere cambiate. Questo non è un discorso che vive fuori dalla realtà e dalla consapevolezza della necessità di cercare compromessi. Il compromesso è un importante momento politico, ma il compromesso che guarda indietro invece che avanti è pericoloso. Mi auguro che tutti i futuri compromessi che dovremo stabilire siano altrettante occasioni per portare il nostro sguardo in avanti.

Ilaria Rossini

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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