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Faust. La lettura psicanalitica di Tiezzi

Recensione Scene da Faust, della Compagnia Lombardi Tiezzi, prodotto dal Teatro Metastasio. Visto al Teatro Storchi di Modena, poi in tournée al Piccolo di Milano

Foto Luca Manfrini

Le persone che vedete in meditazione sulla scena mirano a ottenere la levitazione dell’attore seduto al centro. Se il tentativo avrà successo, la rappresentazione si riterrà conclusa. In caso contrario, verrà rappresentato lo spettacolo Scene da Faust”

Così, mentre il pubblico del Teatro Storchi di Modena si attarda in chiacchiere, fra le solite suonerie dei cellulari non ancora silenziati, veniamo apostrofati dalla didascalia sul fondale. Al centro del palco è seduto Marco Foschi e tutto intorno, in cerchio e salmodianti, gli attori neodiplomati del Teatro Laboratorio della Toscana. Nulla è cominciato, la platea è ancora illuminata a giorno, ma tutto potrebbe essere già finito. Oppure ogni cosa è già lì, contenuta in questa anteprima: possiamo assistere alla rappresentazione perché l’impossibile non accade. Scene da Faust, ultima produzione del Teatro Metastasio e della Compagnia Lombardi-Tiezzi, accade al di qua del limite del possibile, di contro al paradigma della sospensione dell’incredulità. Oppure, anzi proprio per questo, la rappresentazione è data come sublimazione di quel desiderio impossibile. Allora restiamo seduti, forse perché vorremmo davvero che quell’attore levitasse. Chissà che non accada, durante lo spettacolo, l’esperienza concreta del volo?

Foto Luca Manfrini

È infatti un volo, ma a testa in giù, quello della prima (o seconda?) scena, il Prologo al cielo. Tre cherubini, torniti corpi maschili in perizoma color carne, sono appesi al cielo (quello tecnico dell’architettura teatrale) dalle caviglie. Inquietante è la loro litania di appesi: quale dio stanno magnificando? Quello che appare in uno specchio infranto e con voce fuori campo, o quello nel corpo di Sandro Lombardi, Mefistofele in pastrano e con volto imbiaccato che sale alla ribalta dalla prima fila della platea? Già appare in discussione la diatesi fra il dio benevolo e la figura maligna: il loro dialogo è allo specchio, quasi che di due non ci fosse che uno solo. La riscrittura di Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi dal testo goethiano seleziona e valorizza qui i passaggi di complicità: “tu puoi liberamente apparire nel mondo; non ho mai avuto in odio i simili a te. Di tutti gli spiriti che negano, quello che mi dà minor noia è l’ironico”. Chi conosce il testo, avverte poi una torsione in quella voce cupa: non vi risuonano la fiducia di fondo nella bontà di Faust, l’empatica sicurezza della redenzione finale, sostituite dall’indifferenza che consegna alla tentazione del patto. I cherubini boccheggiano come soffocati da quella voce secca e cavernosa, la loro posa di carcasse al macello stride con gli accenti del Magnificat.

Capitolo uno. Notte insonne immette alla prigione del Faust di Marco Foschi. Prigione luminosissima e liscia, disegnata dal fondale e nelle quinte spietatamente candide, come schermi pronti ad assorbire ogni proiezione. Libri altrettanto bianchi piovono dal cielo: pagine senza parole, perché intrise dell’utopia di un sapere organico e totale, come luce che assorbe l’intero spettro cromatico. La conoscenza di Faust è quella prigione mentale, è la follia del mentale come negazione della vita molteplice e sensuale. In ciò la visione di Tiezzi segue il pensiero dell’autore tedesco, che illustra la trappola mefistofelica come un percorso (di fatto pedagogico) nell’esperienza dei sensi. Qui la chiave di lettura psicanalitica reclamata da Tiezzi: il mito della conoscenza totale altro non è che la rimozione di una libido smisurata. “Nel 1923, [Freud] affermava in un illuminante saggio su un caso di ‘nevrosi demoniaca’ del diciassettesimo secolo come il Diavolo non sia altro che la proiezione dell’inconscio turbato sul mondo reale: i demoni – scriveva – sono i desideri ripudiati, prodotti di moti pulsionali rifiutati o rimossi”. Uno sguardo sul dramma certamente non nuovo, già gettato, fra gli altri, da Ernst Bloch, Oswald Spengler, Gernot Böhme, per i quali Mefistofele sarebbe il doppio di Faust, il suo inconscio, l’ombra.

Foto Luca Manfrini

Scene da Faust inizia dunque come una costruzione tutta al singolare: Faust-Mefistofele-dio sono le voci di una sola coscienza ripiegata nel desiderio infantile di potere infinito. Se il mito della sete di conoscenza potrebbe risultare estraneo all’uomo contemporaneo, certo non lo è quello della rimozione del limite, ritualizzato in esergo nella preghiera al corpo che levita. Anche la lettura del Faust come critica al programma di dominio totale dell’uomo sulla natura non è, d’altro canto, nuova. Natura infatti appare in scena nella scritta al neon, in una luce verde sul fondale, nel lupo imbalsamato nel gabinetto del medico-mago: natura dominata, appunto, desiderio immobilizzato. Ma anche natura ridotta ad atmosfera, ad artificio della scena. Questo di Lombardi-Tiezzi è infatti Scene da, come già Scene da Amleto del 2000, carrellata di quadri che scompone la materia drammatica attuando una riscrittura particellare, irriducibile all’unicum di un’interpretazione, verso un montaggio lirico. Spesso infatti il disegno luci, le pose attoriali e la drammaturgia sonora, danno l’impressione di trovarsi di fronte ad un’opera in musica. È concertistica la recitazione di Lombardi, che sembra avere un’orchestra in gola per flessibilità timbrica. Ma è lirica anche la concezione del piano visivo, un impasto di luce che irradia e fa cantare nel puro volume, liberato dal bianco, i pochi oggetti che fanno le scene. Per non parlare delle scelte musicali, come gli intensi brani da Requiem for a friend di Zbigniew Preisner.

Foto Luca Manfrini

Gli attori del Teatro Laboratorio agiscono da attrezzisti, sono la sintassi corporea di questo montaggio: allestiscono i quadri dei dodici capitoli in camice bianco e mascherina, con movimenti misurati, secondo una coreografia interstiziale e geroglifica (a firma Thierry Thieû Niang). La loro tenuta asettica rimanda, in questi giorni di fobia virale e virologica, proprio alla religione della scienza, unica salvezza designata contro l’ennesimo spettro dell’apocalisse in forme di peste. Le scene descrivono infatti ambienti ospedalieri: lo studio di Faust è una fredda sala d’aspetto, l’antro della strega è una camera operatoria in cui gli stessi giovani attori sono medici con maschere scimmiesche. La pozione per donare a Faust l’eterna giovinezza è come un intervento di chirurgia estetica, officiato in un’orgia intorno al corpo del protagonista. Fin troppo didascalicamente, la prima immagine che Faust vedrà dopo l’operazione è L’origine du monde di Gustave Courbet, proiezione del desiderio sessuale finalmente smascherato, a ribaltare la figura del sapiente in quella del seduttore. Il tono declamatorio, l’aulico vigore romantico di Marco Foschi vira in note autoritarie ed esacerbate, mentre l’uomo si fa animale rispecchiandosi nel lupo impagliato. Nella pura istintualità che orienta il regime maschile e pornocratico (inaugurato, se vogliamo anche nella storia dell’immagine moderna, da L’origine du monde in poi) c’è l’estrema conseguenza della fuga dal mondo, nel sogno e nel segno del dominio del reale.

Di qui in avanti nel teatro mentale del Faust di Foschi irrompe il femminile, oggettificato nella preda-Margherita, un’eccezionale Leda Kreider. Se, però, nel flusso del poema la donna è detrito ancillare, espediente sacrificale di un percorso di salvezza tutto egoico e maschile (come Elena di Troia nella seconda parte), qui diventa punto di rottura della sinossi, perno intorno al quale la riscrittura costruisce un dramma altro. Fino alla fine l’adattamento condensa, grazie anche all’appoggio di una densissima drammaturgia visiva, l’intera struttura drammatica; in extremis si opera un troncamento, un’elisione del duo Faust-Mefistofele dalla scena risolutiva. Kreider-Margherita si prende la scena, a gridare il corpo e la mente violentati dal potere faustiano. La follia mutua le forme del canto, in una partitura che riduce il dialogo originale in monologo, estromettendo Faust dalla sua stessa storia (qui Margherita sembra una Lucia di Lammermoor). La conseguenza del delirio di potere è l’essere che muore solo, abbandonato in una prigione-manicomio dove si mortificano, riunificate, la vita mentale e quella dei sensi. E Faust, salirà comunque al cielo come volle Goethe?

Andrea Zangari

Visto a febbraio 2020, Teatro Storchi di Modena

Scene da Faust

di Johann Wolfgang Goethe

versione italiana Fabrizio Sinisi

regia e drammaturgia Federico Tiezzi

con Dario Battaglia, Alessandro Burzotta, Nicasio Catanese, Valentina Elia, Fonte Fantasia, Marco Foschi, Francesca Gabucci, Ivan Graziano, Leda Kreider, Sandro Lombardi, Luca Tanganelli

scene e costumi Gregorio Zurla

luci Gianni Pollini

regista assistente Giovanni Scandella

coreografo Thierry Thieû Niang

canto Francesca Della Monica

 

produzione Teatro Metastasio di Prato, Compagnia Lombardi-Tiezzi in collaborazione con Fondazione Sistema Toscana/Manifatture Digitali Cinema Prato e Teatro Laboratorio della Toscana/Associazione Teatrale Pistoiese

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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