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Il teatro sociale e la trappola del dilettantismo

Una riflessione sulle contraddizioni del teatro sociale e la necessità di mettere in luce i percorsi e non solo i risultati.

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Sono decenni che il teatro contemporaneo si interroga sulla centralità dei processi, ogni volta ce lo ripetiamo in tutte le tonalità: dobbiamo mettere al centro i processi invece dei risultati; il prodotto finale non sempre è corrispondente alla forza messa in campo da lunghi percorsi. Questo refrain, quasi sempre disatteso, vale ancora di più per tutti quei teatri agiti con i non professionisti, comprese le forme del teatro sociale di cui ci occuperemo, ma prima di spiegare il perché di questo assunto proviamo a chiarire quali sono gli ambiti del discorso.

Esiste il teatro amatoriale puro e il suo valore è incontestabile: si tratta di quella pratica per la quale un gruppo di persone appassionate si incontra e decide di mettere in scena uno spettacolo. Viene presa in affitto una sala prove o si recita nell’ampio soggiorno di casa schivando i soprammobili della nonna e poi si noleggia un teatro da riempire con amici e parenti. Nel suo stato di purezza, questa pratica non ha ambizioni economiche o esagerate velleità artistiche, al netto del percorso di crescita che può coinvolgere i partecipanti; è un gioco, serio, ma un gioco. Il patto che si crea tra chi guarda e chi pratica è sincero: vengo a vederti non perché tu sia bravo, ma perché sei mio amico e assistere al tentativo di articolare espressioni e battute scritte da qualcun altro è qualcosa di molto divertente e liberatorio per entrambi.

Esiste poi un ambito legato alla formazione, la cui risultante spesso non è molto diversa dal primo esempio. Anche in questo caso, quando il patto tra chi guarda (pure qui la platea è formata da conoscenti e parenti degli allievi attori), chi agisce e il formatore è sano, è inevitabile decretare la necessità di un prodotto teatrale finito, perché questo naturalmente diventa il luogo didattico in cui esperire pratiche alle quali il futuro professionista dovrà abituarsi. Potremmo poi aprire un discorso sui numeri della formazione teatrale in Italia e sull’impossibiliità del mercato del lavoro di assorbire le truppe che annualmente escono da scuole e accademie, ma è appunto un altro tema.

Questi due casi dunque entrano in crisi quando i partecipanti cominciano a coltivare obiettivi diversi da quelli prefissati, senza avere le caratteristiche per poter spiccare il salto. Facciamo un esempio, la compagnia amatoriale, dopo anni di sold-out tra amici, inizia a pensare di avere le carte in regola per un pubblico di estranei: porta il progetto a un direttore artistico di un piccolo teatro, il quale trova un buco in cartellone per avere in cambio il 30% degli incassi. In una città come Roma, ad esempio, questa confusione è all’ordine del giorno e sono sotto gli occhi di tutti cartelloni pieni di “vorrei ma non posso”, di progetti teatrali anche al limite tra l’amatoriale e il professionista; uno stato confusionale che rende tra l’altro il “lavoro” del pubblico difficilissimo anche solo nella scelta.

In entrambi i casi descritti, quello della compagnia di amici e quello relativo al saggio finale della scuola, è nella norma trovarsi di fronte a una messinscena piena di errori tecnici e teorici, ma questi esempi ci tornano utili per comprendere quello che invece accade all’interno di percorsi ibridi, ovvero in tutti quei progetti che hanno altre finalità ma che con questi esempi condividono alcune caratteristiche.

Parliamo ad esempio del teatro sociale o comunitario, ovvero quell’insieme di pratiche e percorsi in cui tecniche e modelli teatrali vengono utilizzati con finalità altre: di recupero sociale (nelle carceri, nei centri di salute mentale, negli ospedali), di integrazione (il teatro con migranti, rifugiati e parlanti di altre lingue). Esistono delle eccellenze, ovvero artisti e gruppi che nei decenni hanno creato collettivi di professionisti e spettacoli importanti per la storia recente. C’è chi ha lavorato creando visioni a partire dall’impatto iconico derivante dal disagio, chi si è concentrato su un lavoro drammaturgico, altri hanno innestato la disabilità in dispositivi post drammatici o nello stupore di una scena barocca per obiettivi estetici, e altri ancora hanno ripreso forme e tradizioni non occidentali da mescolare e mostrare in un ambito più o meno tradizionale. Purtroppo però, spesso capita di assistere anche ad allestimenti spettacolari mediocri, nei quali è davvero difficile intravedere i processi o comprendere le necessità sociali e politiche.

Che cosa condividono questi percorsi con quelli relativi alle compagnie amatoriali, alle scuole a i laboratori di recitazione? Il minimo comune denominatore è la relazione tra corpi teatralmente non alfabetizzati oppure non addestrati a sufficienza o, ancora peggio, malamente addestrati. Se per un momento eliminiamo dal nostro orizzonte di pensiero le finalità politiche e sociali di questi percorsi non possiamo non riconoscere questa limitazione. Ma attenzione, riconoscerla vuol dire anche saperla gestire, vuol dire riuscire anche a trasformarla, sinceramente, in un problema artistico. E se si vuole fare arte con i non professionisti questa è una questione che non può essere elusa, è una ferita che andrebbe lasciata in qualche modo aperta.

Torniamo però sul valore politico e sociale. Nessuno può mettere in dubbio l’importanza dei percorsi citati: il teatro in carcere rappresenta un’occasione di educazione alla socialità e in taluni casi può concorrere ad abbassare la percentuale di recidiva; le pratiche teatrali spesso accompagnano la riuscita di numerose terapie e promuovono il benessere dei pazienti; nel caso del teatro con i migranti i collettivi misti diventano luoghi di integrazione, amicizia, mutuo aiuto e affermazione dell’identità. In questo articolo Luca Lotano evidenziava le parole di Valentina Esposito di Fort Apache, che vede nel teatro in carcere «lenimento alla sofferenza, una possibilità di riflettere su alcuni nodi conflittuali irrisolti, un modo per attivare e innescare un processo di consapevolezza e revisione del passato» e dunque «una possibilità di riscrittura della propria vita e della propria identità, fornendo le basi tecniche necessarie per fare in modo di proseguire con questo lavoro».

I problemi arrivano quando tali percorsi devono offrirsi allo spettatore indistinto e senza che a esso venga fornito il corretto accompagnamento, nascondendo in taluni casi una finalità differente da quella primaria e cercando visioni artistiche non aderenti ai corpi con cui debbono confrontarsi. Eludendo sostanzialmente la problematica da cui siamo partiti, ovvero l’analfabetismo teatrale. Oppure, quando la spinta politica non viene problematizzata dal punto di vista sia dei contenuti che della forma.
Quando il teatro sociale non svolge questa contraddizione il rischio è di trovarsi di fronte a spettacoli schierati e retorici che non hanno una visione prismatica delle questioni, ma che consegnano allo spettatore una visione chiusa e accomodante, rispetto alla quale la platea è spesso già in accordo prima di entrare in sala. E la retorica che ne deriva è amplificata non solo da questo circolo chiuso, ma anche dalla mancata alfabetizzazione dei partecipanti rispetto alla richiesta artistica.

Quando ad esempio il modello scelto è quello relativo al “teatro di rappresentazione”, il rischio di implosione è molto alto a causa della mancata sospensione dell’incredulità. Un tale costrutto, basato sull’illusione della scatola scenica, rende immediatamente visibile proprio l’assenza di tecniche o di talento costringendo gli interpreti ad affidarsi a cliché e pathos. Far finta di essere qualcun altro in scena, muoversi e parlare con la coerenza di un personaggio e con la sincerità necessaria a convincere un pubblico è un mestiere che non può essere compreso con i tempi dei laboratori settimanali.
Il teatro sociale, quando vuole puntare all’eccellenza e a quello statuto di teatro d’arte di cui parla Andrea Porcheddu nel suo recente volume Che c’è da guardare? La critica di fronte al teatro sociale d’arte, deve tenere bene in mente a chi si rivolge, senza dimenticarsi la finalità politica e senza lasciar correre rispetto alla forma prescelta, ché ancora una volta, la forma è contenuto, la forma è politica.

Marco De Marinis nel Il teatro dell’altro. Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea scrive: «[…] gli strumenti del teatro risultano tanto più efficaci in ambito socio-pedagogico-terapeutico, negli interventi sul disagio e sulla diversità, quanto più alta è la loro qualità a artistica». Torniamo allora al principio del discorso, alla centralità dei processi: la necessità è quella di rompere con la “dittatura del prodotto spettacolare” e trovare spiragli per mostrare al pubblico i percorsi e le domande che sono emerse.
Perché il teatro sociale abbia un forte senso politico ha bisogno di sperimentare modelli aperti che eludano la rappresentazione spettacolare o quantomeno che, per qualche momento, problematizzino i ruoli innestando forme teatrali non solo aristoteliche, lavorando sul concetto di sincerità, interrogandosi sulla capacità del dispositivo teatrale di accogliere il tema avendo a disposizione quegli esseri umani e non altri. Strutture drammaturgiche, in sostanza, che lascino intravedere i processi che quel percorso ha fatto emergere. È sempre De Marinis a sottolineare: «Se il prodotto, il risultato riguarda soprattutto chi vi assiste, il pubblico insomma, selezionato o indifferenziato che sia, è soprattutto il processo di lavoro che porta a quel risultato, a servire a chi vi prende parte. È nel processo, più che nel risultato, che il teatro dispiega tutte le sue potenzialità benefiche, e addirittura curative, per coloro che ne siano, in qualche modo, partecipi».

L’impegno di chi guarda e di chi chi produce deve essere diretto a evitare la costruzione di un santuario per un cosiddetto “teatro sociale”, quando è il teatro in sé lo strumento, usato in questi casi in un contesto di disagio o di alterità ben definito. L’etichetta “teatro sociale”, insomma, non deve giustificare l’assenza dell’arte e del mestiere teatrale in favore del dilettantismo; altrimenti in nome dei beneficiari si offre a essi uno strumento involuto e non efficace, che si giustifica solo grazie alla loro stessa presenza.

Andrea Pocosgnich

 

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

1 COMMENT

  1. Non sono d’accordo.
    “Esiste poi un ambito legato alla formazione, la cui risultante spesso non è molto diversa dal primo esempio. ”
    Non è vero per niente. Lo è per i corsi di teatro, ma non per le scuole accademie.”
    “Potremmo poi aprire un discorso sui numeri della formazione teatrale in Italia”
    Non apriamolo. Basta con l’elitarismo formativo di poche scuole e possibilmente pubbliche e ampiamente selettive. Si all’accesso ampliato alla formazione. Il Teatro non è un luogo dove si viene inseriti. E’ un luogo spesso dove si CREA il lavoro, altrimenti in mano a pochi gruppi e conventicole. Ci sarebbe altro. Ma ho finito le righe.

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