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Cattedrale Leopolda. Perdere e ritrovare i luoghi

Una riflessione sul festival fiorentino Fabbrica Europa a partire dalla Stazione Leopolda, sua storica dimora e oggi non più sede principale degli eventi, e una panoramica su alcune performace, come quella di OHT e Riccardo Fazi, che proprio sull’appartenza e le possibilità di utilizzo di un luogo da parte di una comunità fondano il proprio agire artistico.

Foto di Marco Caselli Nirmal

Forse è per la consuetudine di chiamare, con inusuale acribia architettonica, “navate” i suoi immensi ambienti, spesso immersi nella penombra. O forse è per il piazzale principale così simile a un sagrato, per i tralicci in ferro con cui Gae Aulenti ne fratturò il cemento e il cielo, per la tenda carminio che da sempre chiude, nei giorni del festival, una delle arcate d’ingresso. O piuttosto è per il silenzio: quell’istante di rigoroso mutismo con cui si è soliti varcarne la soglia e contemplarne le capriate di metallo, per poi affrettarsi verso il fondo della sala, là dove il rito può avere luogo.

C’è qualcosa di religioso nei gesti e nella prossemica con cui una comunità variegata e transgenerazionale, una confusa mescolanza di neofiti e presbiteri, si avvicina alla Stazione Leopolda di Firenze durante i giorni di Fabbrica Europa: è una liturgia di posture, un entusiasmo condiviso e trasmissibile, un riconoscersi come fedeli a una tradizione di soli ventisei anni di età e ciò nonostante antica, radicata nei ricordi e nei desideri, impastata ai pilastri di una cattedrale sconsacrata. Ecco l’ecclesia: al contempo comunità e architettura, paesaggio e idea. In un processo di viscerale identificazione tra l’edificio e il progetto che lo anima, di sovrapposizione ontologica e interscambio creativo, Fabbrica Europa è la Stazione Leopolda, così come la Stazione Leopolda è, dal 1994, il Festival internazionale della scena contemporanea, la messa pagana di una cittadinanza teatrale. Come poche altre rassegne nazionali l’evento fiorentino ha creato e inventato un luogo: lungi dall’averlo recuperato o riqualificato, Fabbrica Europa ha inserito ex novo, nella geografia urbana ed emotiva della città, un edificio preesistente e tuttavia muto, invisibile agli sguardi, sconosciuto ai più. Soltanto dopo Sol Picó, o dopo Rosas, oppure dopo Tomi Janežič, soltanto dopo le parole del teatro e i gesti della danza la Stazione Leopolda è diventata il luogo della politica, della moda, degli affari, delle fiere: a stabilire, una volta tanto, una priorità dell’arte sull’economia.

Foto di Marco Caselli Nirmal

Fin dalla prima edizione, intitolata Il disordine delle arti, il festival creato da Maurizia Settembri e Andrés Morte ha sviluppato con la Stazione Leopolda un’interazione simbiotica, declinatasi in una geniale, inaspettata drammaturgia dello spazio: una capacità unica e commovente di inscrivere e riverberare le performance, gli spettacoli, le installazioni negli scenari postindustriali dell’ex magazzino ferroviario, offrendo al contempo a quelle mura grigie una seconda possibilità che appare oggi la loro più naturale realizzazione, in grado di persistere come un’aura ben oltre le settimane di programmazione degli eventi. Eppure oggi alla Stazione Leopolda si va per una sera soltanto: giusto il tempo di riconoscersi come membri di una congrega laica, celebrarne una delle festività più sentite, e percepire infine un surreale sradicamento.

Già nel novembre 2015 apparivano evidenti i rischi connessi alla privatizzazione dello storico edificio: la messa in vendita della Leopolda da parte delle Ferrovie dello Stato raccolse in sua difesa una comunità transnazionale di artisti, critici, operatori, firmataria di un accorato appello volto a preservarne la destinazione culturale. La volontà del Comune di Firenze di acquisire lo spazio – espressa fin dal 2016, e che sembrava aver definitivamente messo al riparo Fabbrica Europa – non si è tuttavia realizzata, consegnando de facto lo stabile a Pitti Immagine, aggiudicatario della vendita, nello scorso novembre, per “soli” 7,2 milioni di euro, una cifra di poco superiore alla base d’asta.
Utilizzata per gli eventi curati dal colosso della moda, la Stazione Leopolda è adesso parte integrante del patrimonio della società, e a disposizione di chi possa permettersi di pagarne l’affitto. Ma tra questi non ha potuto figurare Fabbrica Europa. Per la prima volta quest’anno, infatti, il festival gestisce anche il PARC, la nuova sede della Fondazione ricavata nei locali delle ex Scuderie Granducali alle Cascine: confermare i consueti dieci giorni di manifestazione alla Leopolda avrebbe visto sensibilmente e pericolosamente lievitare l’impegno economico.

Foto di Marco Caselli Nirmal

Fabbrica Europa si è vista costretta a limitare a una sola serata, quella inaugurale, la propria permanenza nello spazio di viale Fratelli Rosselli. Quello del 3 maggio è così sembrato un gesto simbolico, un atto politico e al contempo performativo, quasi un flash mob volto a ricordare – al Comune e a Pitti Immagine, così come ai cittadini e agli artisti – che il Festival nasce là, tra quelle mura e al di sopra di quel cemento. O addirittura che proprio quel cemento, quei pilastri e quegli archi devono la proprio permanenza, finanche la loro stessa esistenza, soprattutto a Fabbrica Europa. Gli eventi che hanno costellato l’apertura 2019 sono sembrati, non caso, muoversi sul ripido crinale tra dinamismo e staticità, in una complessa rinegoziazione delle identità che siamo soliti attribuire ai luoghi.

Little Fun Palace, progetto di OHT – Office for a Human Theatre, ha costituito in questo senso l’epifenomeno di un processo ancora in fieri: la roulotte attorno alla quale spettatori e artisti si sono ritrovati è simbolo della necessità di un punto di fuga delle prospettive, di un fulcro attorno al quale costruire e ricostruire relazioni e scambi, e al contempo segno tangibile di una sua trasportabilità, di una salvifica impermanenza e adattabilità ai contesti.
Omaggio al Fun Palace sviluppato nel 1961 – e mai realizzato – dall’architetto Cedric Price e dalla regista Joan Littlewood, da allora caposaldo dell’idea di polifunzionalità degli spazi e tentativo di svecchiare il teatro da qualsiasi rigidità architettonica e concettuale, la creazione di Filippo Andreatta è sia un’installazione sia un modello di interazione e partecipazione. Posteggiata nella navata centrale della Leopolda – una scelta determinata dal maltempo, e che forse ne ha compromesso l’istanza di relazione con lo spazio pubblico – la roulotte è il totem postmoderno intorno al quale sono disposte file di sedie a sdraio: la porta spalancata lascia intravedere all’interno dell’abitacolo una mirror ball, mappe stradali, post-it attaccati alle parete con chissà quali messaggi, quali segreti, quali ricordi.

Foto di Marco Caselli Nirmal

E tuttavia anche l’allestimento interno della roulotte è modificabile, a seconda degli eventi che attorno al veicolo hanno luogo: in una mise en abyme curatoriale, Little Fun Palace è a sua volta un micro festival, un meccanismo che mette a disposizione di artisti, scienziati, scrittori, un setting atipico all’interno del quale proporre performance, dibattiti, incontri. Come in una collezione di scatole cinesi, la grande comunità di Fabbrica Europa si è rispecchiata nella piccola società assiepata attorno alla roulotte, in una rappresentazione plastica e miniaturizzata di quei legami che solo il teatro sa stringere: ma ha altresì avuto modo di sperimentare una dinamica dialogica tra artisti, un concatenato farsi da parte, un reciproco offrirsi al servizio delle progettualità altrui. C’è, al cuore della creazione di Andreatta, la quintessenza di un “fare teatro” democratico e interdisciplinare, che espone agli sguardi degli spettatori quella spessa tessitura di affetti, di condivisione di idee, di stima professionale che attraversa la comunità artistica nazionale e che qui si rifrange in un fitto calendario di talk e spettacoli, aprendosi finanche al mondo accademico e scientifico. Un dispositivo che può trovare – come nel Talk Show curato da Sotterraneo con ospite Jacopo Jenna, inserito nei primi giorni di programmazione di Little Fun Palace – la scoperta di un’ennesima matrioska, in una potenzialmente infinita apertura della roulotte, e di Fabbrica Europa con lei, alla città e al territorio.

Foto di Marco Caselli Nirmal

Quei post-it intravisti dal finestrino della roulotte sono le vestigia della quête compiuta da Riccardo Fazi e raccontata in Antologia di S., il primo evento della rassegna di Little Fun Palace: un radiodramma nato sotto forma di installazione in occasione dell’edizione 2015 del Festival di Santarcangelo, poi trasmesso a puntate nel programma Tre Soldi di Radio RaiTre, infine distribuito, in forma ridotta, nei teatri e nei festival. Approdato qui, davanti alla roulotte di OHT, è diventato il catalizzatore meccanico degli sguardi di un piccolo gruppo di ascoltatori, ironico monolite che accompagna la platea nella struggente immersione in una memoria intima e collettiva.
Fazi racconta di avere ritrovato in una libreria della casa paterna una musicassetta, una mixed tape incisa da una ragazza di Santarcangelo di Romagna e consegnatagli nell’estate del 1993, di cui sentiamo, al di sotto della voce del narratore, quelle tracce che hanno costruito un intero immaginario generazionale. Antologia di S. è, in questo senso, il precipitato spettacolare di una madeleine uditiva.
È un corpo a corpo con il passato e con i suoi sentieri interrotti, grazie al quale scoprire quanto di esso informi e abbia modellato il presente, o esplorare ciò che siamo diventati, ciò che potremmo ancora essere.

Foto di Rosa Lacavalla

Ventidue anni dopo il primo incontro con la ragazza, l’artista e cofondatore (insieme a Claudia Sorace) di Muta Imago decide di mettersi alla sua ricerca usando come mappa soltanto una manciata di ricordi, mosso dal desiderio di contraccambiare il primigenio regalo con la registrazione delle voci e dei suoni ascoltati lungo il tragitto: e questo logbook sonoro testimonianza di un itinerario fisico ed emotivo tradotto in una drammaturgia quasi etnografica è un documentario su due epoche così vicine e ciò nonostante così lontane. La Riviera degli anni Novanta si sovrappone a quella di metà anni Dieci, l’età dell’innocenza a quella dei compromessi e della maturità; la voce di Fazi, diffusa dagli altoparlanti posti accanto alla roulotte, tratteggia un panorama di scuole, bar e palestre, dipinge la piazza Ganganelli di Santarcangelo, si alterna a quella di Anna, di Elena, dei cittadini intervistati perché forniscano informazioni sul destino di S., di una città, di un tempo.

«Queste conversazioni – si ascolta in Antologia di S. – mi incuriosiscono sempre di più, questi incontri stanno diventando quello che mi sta più a cuore. Da una parte, mi sto dimenticando di lei. Il suo volto si sta mescolando con quello di tutte le donne che incontro, la sua voce è sempre più lontana. Ma dall’altra, allo stesso tempo, lei è sempre più vicina». Il senso profondo, il telos dei racconti epici, è nel viaggio stesso, più che nella sua meta: nelle storie di vita incrociate, nel tragitto compiuto su strade conosciute e poi dimenticate, nel moto della spola tra la memoria e le sue falsificazioni, e tra i desideri e le loro forme.

Nonostante tutto, anche quest’anno la comunità teatrale fiorentina si è data appuntamento alla Leopolda: numerosa, entusiasta, e tuttavia malinconica, forse frastornata da una rassegna obbligata ad abbandonare il proprio centro propulsivo e a disseminarsi sul territorio, abitando il PARC e il Teatro della Pergola, il Teatro Cantiere Florida e il Chiostro di Santa Maria Novella. Un festival che i co-direttori Maurizia Settembri e Maurizio Busia hanno immaginato diffuso e permeabile ma che, malgrado ogni ammirevole tentativo di resilienza, ha in quello spoglio, gigantesco altare ottocentesco che è la Leopolda il proprio spazio d’elezione. Ecco che il rendez-vous con il passato, con le biografie degli individui e dei luoghi, si tramuta in un’interrogazione aperta sul futuro, sul destino nostro e degli spazi che abitiamo e animiamo: chissà che forma avrà, tra ventidue anni, il nostro primo amore, la nostra città. Chissà dove sarà, tra ventidue anni, Fabbrica Europa.

Alessandro Iachino

Stazione Leopolda, Firenze (Fabbrica Europa) 3 maggio 2019

LITTLE FUN PALACE
un progetto di OHT – Office for a Human Theatre
idea Filippo Andreatta
coproduzione Fabbrica Europa, Il Vivaio del Malcantone

ANTOLOGIA DI S.
ideazione Riccardo Fazi, Claudia Sorace
realizzato da Riccardo Fazi – Muta Imago
prodotto da Muta Imago, Santarcangelo Festival Internazionale del Teatro in Piazza, TreSoldi Radio3
curato da Daria Corrias
redazione Fabiana Carobolante, Daria Corrias, Lorenzo Pavolini, Elisabetta Parisi
supervisione Jonathan Zenti
con il supporto di Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Direzione generale spettacolo
un ringraziamento particolare va agli abitanti di Santarcangelo che hanno donato un pezzo delle loro storie per trovare S.

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Alessandro Iachino
Alessandro Iachino
Alessandro Iachino dopo la maturità scientifica si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2007 lavora stabilmente per fondazioni lirico-sinfoniche e centri di produzione teatrale, occupandosi di promozione e comunicazione. Nel novembre 2014 partecipa al workshop di visione e scrittura critica TeatroeCriticaLAB tenuto da Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich nell’ambito della IX edizione di ZOOM Festival, al termine del quale inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica. Ha partecipato inoltre al laboratorio Social Media Strategies for Drama Review, diretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès per Biennale College ‑ Teatro 2015, e ha collaborato con Roberta Ferraresi alla conduzione del workshop di critica della Biennale College ‑ Teatro 2017. È stato membro della commissione di esperti del progetto (In)Generazione promosso da Fondazione Fabbrica Europa, ed è tutor del progetto Casateatro a cura di Murmuris e Unicoop Firenze.

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