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L’ironia non basta più. La stand-up non è solo comedy

Su Netflix, Nanette, uno spettacolo di stand-up comedy, di Hannah Gadsby, (su temi quali omofobia, identità, misoginia) che ribalta il genere. Recensione

Un momento dello show

Lo stereotipo impresso col fuoco dal romanticismo vuole che l’arte sia originata da una ferita, lì dove c’è sofferenza c’è anche una fertile germinazione poetica. È un cliché, certo, ma è vero che quella incontrollabile potenza, quando veicolata dalla tecnica, può lasciare traccia anche sulla pelle di chi da quella sofferenza è lontanissimo.

Allora eccomi, maschio, eterosessuale, seduto di fronte al mio computer in un’anonima serata tra quelle più silenziose delle feste natalizie, con gli occhi umidi, di fronte a una donna in grado di frustare la mia razionalità con la sua storia, l’unica possibile, quella della sua vita.

Hannah Gadsby è nata nel 1978 in Australia, è una stand-up comedian, molto famosa a giudicare dal grande teatro della Sidney Opera House totalmente pieno. Viene da una regione che la mia generazione conosce solo per un vecchio cartone animato, la Tasmania. Non sono lì di fronte a lei in teatro, non la conosco, non so chi sia, eppure alla fine dello spettacolo visto su Netflix vorrei scriverle, conoscerla, ridere con lei.

Il teatro in video è spesso frustrante, ma nel caso della stand-up comedy la ripresa televisiva dell’opera non implica un decadimento simile a quello di altri generi teatrali. Qui c’è un canone preciso, l’elemento minimo ed essenziale è il “discorso”: un unico e lungo monologo che, per certi versi, ha ritmi e tensioni più vicine a quelle del discorso politico che a quello del monologo drammatico. Proprio perché con il dramma condivide solo l’andamento e la creazione delle emozioni. Voce e primi piani forniscono la punteggiatura sufficiente.

In questo genere di scritture la costruzione per la maggior parte delle volte è focalizzata sullo spettro comico, anche quando l’origine è tragica, rabbiosa o di denuncia, la risata è comunque la valvola di sfogo. La potenza del monologo di Hannah Gadsby, dal titolo Nanette, sta invece proprio nel tentativo di misurare il canone e nella capacita di sottoporlo a una torsione tale da rivelarne il suo contrario senza trasformarlo in qualcos’altro.

L’abilità dei migliori e delle migliori stand-up comedian è racchiusa nella tessitura drammaturgica, non bastano le battute, le rasoiate comiche, la ricercatezza del tema o la pressione sui tabù della società contemporanea che serve a svelarne le contraddizioni, senza una scrittura efficace e organica l’effetto è quello di uno spettacolo frammentato.

Definito da The New York Times come «the most discussed comedy special in Ages» – in un articolo nel quale addirittura si parla della nascita di un nuovo tipo di stand-up comedy – Nanette mette al centro del palco la vita dell’autrice e lo fa con una sincerità disarmante e attraverso una drammaturgia chirurgica che si muove per piccoli passi, cominciando da un semplice e accogliente: «Benvenuti al mio spettacolo. Il mio spettacolo si chiama Nanette.» Da qui la comica comincia spiegando che il titolo è stato ispirato dall’incontro con una donna, chiamata proprio Nanette, avvenuto in un piccolo bar di provincia. La struttura alterna freddure metalinguistiche (che giocano sulle reazioni e sull’aspettativa del pubblico rispetto al linguaggio della stand-up comedy) a micro storie nelle quali lentamente prende corpo il tema principale: l’identità di genere in una società spesso omofobica, misogina, maschilista e violenta.

Punto cruciale è il ruolo dell’autoironia, ne viene fatto un largo uso nella primissima parte dello show per far entrare nel clima gli spettatori o forse per tendere loro quella trappola drammaturgica che li terrà impiccati alla gola quando la donna darà voce a una sorta di liberazione per autocombustione. Secondo Gadsby far ridere non basta più, l’ironia è usata come scudo per non approfondire, per non raccontare la vera storia. La tensione sale fino a un acme emotivo nel quale la protagonista si denuda completamente, si libera di ogni scudo, non ci sono risate, non c’è umorismo – se non per alleggerire dopo la tempesta – ma il racconto, a tratti quasi urlato, dolente di occhi umidi e rabbiosi, di tutto il dolore e le violenze subite. Il canone della stand-up comedy lascia spazio alla biografia, libera di fluire, è l’esposizione di una vita martoriata dalle ferite, ma ancora lì, in grado di stare in piedi e di testimoniare.

Foto Usa Today

Il finale vorrebbe essere estremo «I quit comedy», lascio la comicità, afferma l’artista di fronte alla platea gremita, rispettando la coerenza drammaturgica contemplata fino a quel momento. E poco importa se poi in un’intervista dichiarerà il contrario, soprattutto dopo il successo planetario avuto grazie a Netflix. È, invece, determinante questo tentativo di ribaltare un assunto millenario: il comico come fustigatore dei vizi, il comico come strumento morale. Non funziona più, oggi non basta più riderci sopra, lo affermava anche David Foster Wallace vedendo nell’ironia uno strumento che fu utile a smantellare le illusioni; ora, con questo processo di svelamento portato a temine, l’ironia secondo Wallace è diventata fine a se stessa e altro non fa che spostare l’attenzione dei problemi.
Recentemente la riflessione ha trovato diverse sponde intellettuali, tra le quali il pensiero di Adam Zagajewski, poeta e saggista polacco (Nobel nel 1980) secondo il quale l’ironia «non è più un’arma puntata contro la barbarie del sistema primitivo che stava trionfando nel cuore stesso dell’Europa, ma esprime la disillusione per il crollo delle aspettative utopistiche […]. A volte nasconde solo una certa povertà intellettuale: se non sappiamo cosa fare, di sicuro la cosa migliore è essere ironici. Poi si vedrà.» Insomma, proprio perché strumento anche del potere (basti pensare all’uso dell’ironia nella politica nostrana o allo sberleffo cinico con cui viene spesso alimentato il dibattito nei social network) la risata oggi rischia di seppellire tutto, anche la verità. Come nel caso di Nanette, rimane la testimonianza mediata dal racconto, ma pur sempre una ferita a cuore aperto.

Andrea Pocosgnich

Visto su Netflix, dicembre 2018

NANETTE
Con: Hannah Gadsby
Regia di: Madeleine Parry, Jon Olb

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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