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Barbareschi riapre l’Eliseo, ma la sua tigre non graffia

Barbareschi direttore, interprete e regista. Riapre l’Eliseo ristrutturato, ma Una tigre del Bengala allo Zoo di Baghdad delude le aspettative. Recensione

 

Foto Bepi Caroli
Foto Bepi Caroli

Ha aperto il portafogli  e ha calato sul tavolo l’asso, quattro milioni e mezzo di euro per il rilancio del Teatro Eliseo, a giugno ha presentato le attività in pompa magna e ora è in scena nella sala grande con lo spettacolo di apertura della stagione 2015/2016, Una tigre del Bengala allo Zoo di Baghdad, il primo del nuovo corso dopo la lunga gestione di Massimo Monaci (qui le riflessioni e il racconto del cambio gestione). Inoltre Luca Barbareschi per promuovere lo spettacolo è sceso letteralmente in strada con gli “stracci” di scena (la tigre protagonista del testo di Rajiv Joseph è una sorta di homeless) pungolando i passanti per carpirne la reazioni – andava in giro con una testa mozzata in una busta – e poter pubblicare il risultato video online. Alla fine dello spettacolo è di nuovo l’attore nato a Montevideo a prendere la parola per ricordare «Ce l’abbiamo fatta, il teatro è riaperto», snocciolando poi le novità della sua gestione: l’orario delle repliche fissato alle 20, l’imminente apertura del ristorante, la stagione concertistica.

Foto Bepi Caroli
Foto Bepi Caroli

Insomma è un direttore artistico più che presente, d’altronde quello che emerge dando un’occhiata alla stagione all’indomani del debutto di Una tigre del Bengala allo Zoo di Baghdad  è un’idea di intrattenimento culturale di alto livello per cura e dettagli, basato su un corpus drammaturgico contemporaneo (e su volti noti). Su questo Barbareschi ha battuto il ferro più volte. Lo spettacolo in scena fino a domenica 11 ottobre è emblematico sia per scrittura che realizzazione. Già nel testo piani e atmosfere sono mescolati, le situazioni tragiche si alternano a quelle comiche e gli slittamenti tra l’azione e la riflessione filosofica sono continui. Qui, con la sua regia, emerge il più evidente problema: l’accumulo e l’incapacità di rinunciare proprio a nulla, neanche a scene e dialoghi palesemente di troppo, o porzioni di testo in cui viene mostrato qualcosa che narrativamente già sappiamo, con la volontà di rafforzare il concetto o forse più semplicemente la paura che qualcuno non abbia capito.

Foto Bepi Caroli
Foto Bepi Caroli

Il testo qualcosa da dire ce l’avrebbe eccome: due soldati fanno da guardia nello zoo di Baghdad a una vecchia tigre, siamo nel 2003 (in scena ornamenti mediorientali, sabbia, pregevoli fondali, perfetti costumi da soldato e sangue finto proprio come al cinema) gli americani sono entrati in città facendo cadere definitivamente il regime di Saddam Hussein. Uno dei due militari ha partecipato al blitz nella casa reale dove sono stati uccisi i due figli di Saddam trafugando una pistola e l’asse di un water, entrambi d’oro massiccio. Il soldato stuzzica l’aggressività della tigre che gli strappa una mano a morsi. L’altro la uccide dando il là drammaturgico alla pièce. La tigre, come accade a Banquo in Macbeth apparirà al suo assassino e proprio come spesso accade in Shakespeare assisteremo a una catena di uccisioni a discapito di quasi tutti i personaggi, ognuno dei quali si troverà a vagare in un purgatorio senza speranza. A questo punto la trama inizia a ruotare solo attorno alla vicenda della pistola d’oro, simbolo di avidità e potere, diventando il pretesto per una più ampia riflessione filosofica sull’etica che dovrebbe stare alla base di scelte politiche e private, sull’opportunità o meno di credere in un Dio che permette atrocità quali l’uccisione di una bambina in guerra e sull’origine predatoria dell’uomo. Quest’ultimo è anche il cruccio principale della tigre che a un certo punto arriva a discolparsi davanti a Dio per i suoi peccati con l’argomento più immediato: se un Dio esiste è stato lui a volerci predatori. Inoltre Rajiv non lesina critiche all’operato degli Stati Uniti disegnando uno dei due soldati, interpretato qui dal convincente Denis Fasolo, come un violento egoista assetato di denaro. A fronte però di questi spunti testuali lo spettacolo sembra non riuscire a calibrare la propria energia disperdendola invece in dialoghi spesso inutilmente urlati, eccessivo pathos (in pochi si salvano, tra questi Hossein Taheri con l’interpretazione chiaroscurale e grottesca del figlio di Saddam) dove il testo è più a rischio e una deriva esageratamente goliardica proprio nell’interpretazione di Barbareschi che trasforma la figura simbolica della tigre in un personaggio a tratti forzatamente comico.

Andrea Pocosgnich Twitter @AndreaPox

In scena fino all’11 ottobre 2015 Teatro Eliseo, Roma UNA TIGRE DEL BENGALA ALLO ZOO DI BAGHDAD
di RAJIV JOSEPH
con e regia LUCA BARBARESCHI
con DENIS FASOLO, ANDREA BOSCA, MAROUANE ZOTTI, HOSSEIN TAHERI, SABRIE KHAMISS, NADIA KIBOUT
scene MASSIMILIANO NOCENTE
costumi ANDREA VIOTTI
luci IURAJ SALERI
musiche MARCO ZURZOLO
regista assistente NICOLETTA ROBELLO BRACCIFORTI
Il trucco e parrucco di Tigre è realizzato da ROCCHETTI & ROCCHETTI S.R.L.
PRODUZIONE CASANOVA TEATRO

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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