Può una generazione sotto scacco ribaltare per dieci giorni all’anno le sorti della propria influenza sulla società? A Torino un manipolo di giovani ha lasciato un segno, ha tracciato una linea dietro la quale non si torna: il Fringe è una riscossa generazionale, è la possibilità di svegliare una città e la sua cultura teatrale dominante. 52 compagnie distribuite su 8 spazi non convenzionali; un flusso continuo di arti performative che attraversa la città dalle 16,30 fino alla sera inoltrata. Vinerie, caffè, spazi multidisciplinari, circoli ARCI, una ex-chiesa, il festival abita questi spazi, li attraversa con le sue storie fatte di grandezze e di banalità. Per partecipare gli artisti non debbono pagare centinaia di euro come accade altrove, a loro va il 70% degli incassi, le compagnie torinesi ospitano in una sorta di couch surfing i colleghi che vengono da fuori, dal Sistema Piemonte Teatro sono arrivati 5000 euro, durante l’anno il festival è stato preceduto da eventi per la raccolta fondi: un sistema insomma di economie autonome capaci di innescarne altre, per riflesso, all’interno della città.
In tre giorni di rassegna abbiamo avuto l’occasione di assistere a numerosi e vari spettacoli: una festa del teatro, o meglio dei teatri. Perché, a voler realizzare un censimento riguardo ai linguaggi scenici, al Torino Fringe abbiamo trovato di tutto e – a dimostrazione che un’organizzazione funzionante ed economicamente sostenibile è imprescindibile – questa moltitudine si è espressa con un livello qualitativo molto alto.
La Narrazione civile. La piccola platea ricavata nei locali del Rainbow è colma, qualche minuto dopo Beppe Casales inizia a spremere le sue arance; chi abbia letto la sinossi dello spettacolo è già costretto a fare i conti con una metafora che stringe lo stomaco, un gesto usuale che condensa uno dei tanti drammi italiani. È la schiavitù dei raccoglitori di arance in Calabria, evocata in un confronto tra la storia di due ragazzi: uno nasce in Liberia e l’altro a Rosarno, uno parte col sogno di studiare in Italia, l’altro ha cucito addosso sin da piccolo un destino da ‘ndranghetista. Nella Spremuta di Casales la forma si fa invisibile per far emergere il contenuto, alla tragedia dei fatti di Rosarno viene opposto un certo candore recitativo, una sincerità scevra di pietismi. E la realtà prende fuoco per autocombustione.
Arti circensi e teatro di figura. Non manca in questo Fringe un’onda, quasi anomala per il resto d’Italia, ma che in Piemonte è invece presente e viva, che sposta l’attenzione verso discipline legate alle tradizioni circensi o a un certo tipo di teatro fisico che incrocia le proprie strade con quelle dei “pupazzi”. Hanno studiato all’Atelier di Teatro Fisico di Torino Martina Soragna e Silvia Laniado (scuola che ora purtroppo è in grosse in difficoltà), protagoniste con la loro compagnia (Le Due e un Quarto) di Senza Denti, divertente doppio atto nel quale cabaret, trasformismo e teatro di figura tracciano interessanti prospettive spettacolari. Da una buffa donna incinta spunteranno due bebè demenziali e crudeli con i volti delle protagoniste e le sembianze sinistre di nani di pezza. Le evoluzioni fisiche e vocali delle manovratrici saranno il culmine di un intrattenimento artigianale e ironico. Nello stesso spazio, il multidisciplinare Cecchi, e nella medesima serata si fa in tempo a conoscere Martina Nova, vincitrice di numerosi premi per il circo contemporaneo e qui autrice e protagonista de Il viaggio di una Crinolina, spettacolo – selezionato per la residenza di Creazione de La Central de Circ di Barcellona – nel quale la giovane artista si misura con un tentativo drammaturgico di ampio respiro. L’ambizione, in parte concretizzata e in parte alla ricerca di un equilibrio e di una modalità che superi lo scoglio della didascalia e del facile approdo, è quella di utilizzare le forme acrobatiche per costruire un racconto intimo ed emozionale.
Teatro per l’infanzia e per tutte le età. In questa bolgia teatrale che alla fine della fiera ha visto compagnie e artisti provenienti da tutta Italia calcare palcoscenici, strade, pavimenti al chiuso e cortili, non sono mancati neanche i lavori destinati a un pubblico di bambini, Questo Pinocchio è differente di La TurcaCane – Compagnia Teatrale Fiabesca ne è un esempio. Due percezioni contrastanti hanno mosso l’attenzione di chi scrive: da una parte la riluttanza, figlia di un rapporto sanguigno e personale con il fatto teatrale, che porta a respingere il teatro “per” l’infanzia e tutto l’immaginario moralista con il quale viene rappresentato il testo di Collodi; dall’altra parte però bisogna riconoscere una certa sapienza artigianale nell’uso dei materiali che si sposa con un’interessante scelta politica riguardo al riciclo, piccole opere d’arte sono ad esempio le maschere del Gatto e la Volpe stratificate in lamelle di metallo, dettagli che sorprendono e catturano sguardo e memoria.
Stand Up Comedy. È facile affermare che il comico riempie la sala, soprattutto quando si appoggia a una tecnica eccellente e a meccanismi narrativi e ritmici da orologeria svizzera. È il caso di Dario Benedetto, al quale riconosciamo una padronanza del gesto e di una certa satira dei costumi e che però corre sempre il rischio di scivolare in ragionamenti non solo già ascoltati ma che ormai hanno anche perso la propria funzione dissacratoria. Fortunatamente accade una manciata di volte in uno spettacolo godibile e comicamente inarrestabile.
Nuova Drammaturgia. A legare insieme tre percorsi teatrali completamente differenti quali 2! di Michelon Dei Folli, La protesta del collettivo La Ballata dei Lenna e Woof! della compagnia Blusclint, è l’indiscutibile centralità della parola intesa come mezzo primario per sondare la profondità delle crepe in cui si svuota il nostro presente. Nel primo, visto nello spazio di San Pietro in Vincoli (ex cimitero gestito da tre associazioni del territorio), le liriche, intime anche se volte acerbe nella modalità narrativa con cui avviene lo svelamento, vengono fatte confliggere con un uso molto intenso della scena e della fisicità dell’attore. Andrea Primignani si muove a proprio agio tra una serie di pericoli che tengono alta l’attenzione dello spettatore: bombole del gas, elettricità, stufette alogene. Basterebbe la ricerca di questo pericolo, la percezione del rischio anche nella scrittura per completare un lavoro promettente.
Se qualcuno vi sfidasse a raccontare la crisi vissuta dalle giovani generazioni, ovvero quelle paludi in cui i ventenni e i trentenni stanno affogando un po’ in tutto il paese, come vi approccereste al problema? La compagnia pugliese La ballata dei Lenna, coadiuvata nella fase di scrittura dalle indicazioni di Michele Santeramo, ha lavorato prima sul campo con incontri e interviste e poi ha scelto un mezzo propriamente teatrale e del tutto artistico. La perdita del lavoro è infatti al centro di un meccanismo finzionale che anche se non del tutto risolto – nella mancanza di una cifra che sia completamente metaforica o che al contrario affondi a piene mani nella complessità del reale – fa intravedere le ottime possibilità del gruppo.
Una scrittura nera, aggressiva, ma a tratti poetica e una fisicità intensa e sopra le righe costituiscono il tratto formale inequivocabile di Woof!, spettacolo visto con estremo piacere al Circolo ARCI Oltrepò. Paolo Faroni, vero animale da palcoscenico, è il Lupo, protagonista di una storia in cui un amore inarrivabile si trasforma in follia pura: ma non quella ai danni delle donne, di cui i giornali sono pieni, è una violenza che si manifesta su tutti i pretendenti di colei che rimarrà sconosciuta al pubblico, sappiamo solo che il nostro eroe la chiama Pecorella. È un immaginario punk e fumettistico quello in cui si staglia questa periferia scura e malata, una downtown di piaceri a buon mercato, violenze, peepshow, ma anche poeti che si aggirano nei boschi. Faroni si cala nei panni di quello che sembra essere un affascinante incrocio tra Mercuzio e Joker in un ritmo teatrale trascinante e potente.
Tra danza, performance e video. Interessante lo spunto del Teatro Instabile di Aosta di lavorare con e sul pubblico, ma le premesse debbono piegarsi a una struttura scenica troppo debole: la scusa per la quale i collaboratori non sono riusciti ad arrivare allo spettacolo non è credibile e Marco Chenevier fa salire sul palco gli spettatori con i quali giocherà a ricreare la coreografia di uno spettacolo prodotto anni prima e dedicato alla figura della Montalcini. Il risultato di questo Quintetto è poco divertente e confuso, sarebbe invece stato interessante vedere lo spettacolo originale, sempre se sia mai esistito.
Nelle parole del regista uno spettacolo “creato a partire da una serie di incursioni più o meno rapide e più o meno violente nell’opera di Shakespeare e dal conseguente dialogo delle macerie di questi blitz con frammenti di “drammaturgia” rintracciati tra canzoni, film, videoarte”. Per immaginarvi Shakespeare Blitz di Andrea Lanza, pensate a un interminabile flusso di video di tutti i tipi, dagli estratti di Kubrick (naturalmente), ai video di guerra, alle giustapposizioni statiche di simboli esoterici. In questa tempesta quasi da discoteca underground la musica rock cantata dal vivo, dai Muse ai Beatles di Sgt. Pepper’s, è interrotta da celebri frammenti shakespeariani, recitati da attrici in nero, immobili, di fronte agli immancabili microfoni. Lanza, sempre nelle note, spiega che lo spettatore può apprezzare le dinamiche narrative solo se capace di “spegnere la parte sinistra del proprio cervello” e lasciarsi “guidare da essa in un luogo di coscienza condivisa che può esistere compiutamente e nella sua molteplicità solo se attraversato ed esplorato con logiche non razionali”. Insomma abbandonatevi a una sorta di meditazione teatrale, la rivelazione è vicina! E che il Fringe sia con voi.
Andrea Pocosgnich