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Il Giulio Cesare di Rifici, o la responsabilità del potere

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Ricordate il nano vestito di rosso in Twin Peaks? O il perfido Bob dai lunghi e unti capelli grigi che appare tra fiamme e tende scarlatte scandendo la frase «fuoco cammina con me»?
È un’immagine identica, di lynchiana memoria, quella che apre il Giulio Cesare di Carmelo Rifici. Massimiliano Speziani sibila, profetizza, per poi saltellare cantando “fire and blood, blood and fire”. Questa e altre eco pop – in uno stile che per il resto vorrebbe mostrarsi pulito, sofisticato, sorvegliato – rendono la Musa di Rifici sfuggente alle definizioni.
La scelta è quella di un avvicinamento al testo shakespeariano che ne faccia risaltare l’attualità senza forzare troppo la mano: Roma diviene archetipo di un centro di potere conteso, instabile, traballante sotto la spinta di frizioni opposte. Il copione rinuncia a espliciti riferimenti al contemporaneo, ma vi allude con i costumi e con la regia. La congiura ai danni di Cesare, ordita da un gruppo di gentlemen in giacca e cravatta attorno a un tavolo, ha tutta l’aria di un cambio al vertice in azienda, di una presa di potere di colletti bianchi, di una politica che non si sporca troppo le mani. Non a caso, il sangue – nel corso di tutta la messa in scena – ha un sapore più simbolico che realistico: gocciola dalle statue, zampilla a fiotti ad ogni coltellata, macchia i congiurati: unica impronta visibile in una società che si mostra ordinata, pulita, asettica.

Seguendo la stessa intuizione, Rifici sottolinea anche la natura mediatica della vicenda: il discorso di Antonio rimbalza di famiglia in famiglia, come trasmesso da una invisibile televisione, mentre Bruto rilascia dichiarazioni attaccato a un microfono da conferenza stampa. La messinscena procede, insomma, oscillando tra l’esigenza del sobrio, dell’elegante, dell’essenziale – così operano i chirurgici coni di luce, che fanno comparire e scomparire nell’oscurità i personaggi – e il palpabile desiderio di tentare qualche scelta più ardita (le divise militari, i passamontagna e le spranghe): lo squilibrio sembra emergere con maggiore forza nel secondo atto, complice forse un po’ di stanchezza del pubblico e della regia. Altrettanto eterogeneo il corpus degli attori: a un gruppo di eccellenze, che dimostra non solo talento ma anche personalità, si affianca una più ampia cerchia di interpreti che non riesce a saltare alto come dovrebbe. Il Cesare di Massimo De Francovich è di straordinario spessore: regale e dignitoso come un vecchio pater familias, incarna bene un’autorità che si vuole rovesciare ma di cui non si possono eguagliare potenza e doti. Marco Foschi mette in gioco la sua esperienza cinematografica e la sua lunga collaborazione con un maestro di attori come Latella: il suo Bruto è credibile, vibrante, mai autocompiaciuto o declamatorio. Accanto a loro, altri interpreti sembrano parlare un’altra lingua: quando la Porzia di Federica Rosellini dialoga con Bruto si ha l’impressione di vedere sovrapposti due spettacoli. La stessa sensazione di “accademia” lasciano alcuni brani corali: la dinamica scenica, anche dove è ben orchestrata, appare un compito eseguito con rigore ma senza anima né sorprese.

Emerge, nel complesso, una personalità registica – certo non priva di talento – che sta cercando il suo linguaggio, tra chiari debiti ronconiani e interessanti specificità ancora in fieri; ma è una mano che sembra soccombere sotto il peso del meccanismo scenico, della scenografia da kolossal teatrale, della responsabilità della produzione più importante del più importante Stabile di Milano.
E mentre si guardano calare dall’alto i cilindri vitrei in cui prorompono fiamme abbaglianti (è la sobria tempesta che precede l’attentato Ndr.), mentre si osservano i tre orologi che corrono rapidi per fermarsi in sincrono sull’ora dell’omicidio, mentre le pareti si muovono e i divani scivolano fuori scena, molte sono le domande che affiorano. Ci si chiede quale sia il senso di un’operazione così mastodontica in tempi come questi, quante settimane di lavoro ci saranno volute ai tecnici del Piccolo per perfezionare ogni minuzia scenica, quante compagnie vedranno mai un budget simile per una propria produzione. Ma ci si domanda – più in generale – se un siffatto e sontuoso apparato faccia bene a un giovane regista alla prova e se le troppe possibilità, i pochi limiti, la necessità di pensare così in grande siano davvero uno stimolo per una ricerca creativa.

Maddalena Giovannelli

Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Stratagemmi

GIULIO CESARE
di William Shakespeare
regia Carmelo Rifici
traduzione Agostino Lombardo
ideazione e progetto scenico Marco Rossi e Carmelo Rifici
luci A.J. Weissbard
costumi Margherita Baldoni
musiche Daniele D’Angelo
adattamento drammaturgico Renato Gabrielli
con Ivan Alovisio, Marco Balbi, Giulio Baraldi, Elio D’Alessandro, Leonardo De Colle, Massimo De Francovich, Angelo De Maco, Pasquale Di Filippo, Gabriele Falsetta, Marco Foschi, Tindaro Granata, Sergio Leone, Danilo Nigrelli, Rosario Petix, Francesca Porrini, Federica Rosellini, Giorgia Senesi, Max Speziani, Angelo Tronca
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

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