Di fronte alla forza del teatro di Fabrizio Gifuni il pubblico rimane colpito, affascinato, ma non è un fatto di divismo, come spesso accade, gli spettatori non riconoscono in lui solo il grande attore che con disinvoltura passa dal cinema alla televisione al palcoscenico, ma ne apprezzano le cristalline qualità artistiche rimanendo ammaliati dal suo talento attoriale come dalle sue scelte drammaturgiche. D’altronde tutto ciò è accaduto anche ieri (2 novembre) quando al termine dei 70 minuti di spettacolo il pubblico disposto sull’intera platea e su qualche palchetto del Teatro Valle ha applaudito il proprio mattatore per più di cinque minuti costringendolo a uscire diverse volte insieme a Giuseppe Bertolucci, regista complice del successo.
In un ingranaggio drammaturgico dal ritmo incalzante, indomabile e irrequieto, costruito come un labirinto di specchi e ossessivi rimandi, fagocitato nel buio del vuoto scenico con la sola illuminazione cangiante di espressivi quadri a determinare il passaggio (che poi diventa incontro-scontro) tra i diari di Gadda al fronte e gli sprazzi di un Amleto ormai folle, al centro di questa operazione tanto intellettuale quanto popolare, c’è un attore capace di domare le proprie corde interpretative maturando un’esperienza attoriale fisica quanto vocale da vero e proprio mattatore moderno.
Non è la prima volta che Gifuni viene folgorato dalla brillante idea di rendere drammaturgico ciò che l’autore creò solo per la lettura. Risale ormai a quattro anni fa il debutto di Una specie di cadavere lunghissimo, basato sugli scritti di Pasolini e Giorgio Somalvico, spettacolo che chiuderà, dal 17 al 21 novembre, il ciclo monografico dedicato dal fu Eti all’attore. Ma in questo L’ingegner Gadda va alla guerra l’occhio si spinge più lontano per avvicinare due figure apparentemente distanti, perché poi Gifuni stesso ci fa capire che la lontananza è solo cronologica, Amleto e Carlo Emilio Gadda. La solitudine, l’incapacità di vivere il proprio tempo, la capacità puntuale di frustare i politicanti e il dolore che inevitabilmente scaturisce dalla presa di coscienza derivante dall’impietosa analisi della società, tutto questo come non condensarlo nella figura shakespeariana, ecco giustificato allora il sottotitolo “Della tragica storia di Amleto Pirobutirro”.
Nell’ altalena drammaturgica che lo porta dall’autore lombardo al principe di Danimarca, Gifuni trova spazio anche per quello che una volta avremmo chiamato “colpo di scena”: attacca con l’Amleto, ma lo fa con la sua voce chiara (dopo averci ammaliato con una ricerca fonetica colorata di numerosi dialetti, ritmi e sonorità da essere una lunga partitura musicale), quasi fosse una spiegazione della poesia shakespeariana, poi chiama le luci di sala, vuole vedere in faccia il suo pubblico e lì capiamo che le invenzioni linguistiche di Gadda diventano un esplicito strumento di fustigazione del potere, quello attuale, quello schiavo non solo del denaro, ma soprattutto dell’eros, (quello insomma capace di offendere gli omosessuali pur di fare le barricate intorno alla sua demenziale virilità), colui che “giganteggia” su “doppi tacchi”, a lui Gifuni dedica l’ultima invenzione linguistica (che Gadda scrisse per il Duce), prima di tuffarsi in un mare di applausi.
Andrea Pocosgnich
Visto il 2 novembre 2010 – in scena fino al 14 novembre 2010
Teatro Valle – Vai al programma 2010/2011 del Teatro Valle
Roma
Spettacolo in nomination per i Premi Ubu 2010
Prossime date in calendario per la Tournée de L’ingegner Gadda va alla guerra
25 – 28 novembre 2010 – Teatro Comunale di Ferrara
28 – 30 gennaio 2011 – Teatro al Parco (Parma)
9 febbraio 2011 -Teatro Sociale (Bellinzona)
11 -12 febbraio 2011 – Teatro Comunale Giuseppe Verdi (Pordenone)
19 febbraio 2011 – Teatro delle Api (Porto Sant’Elpidio)
23 febbraio 2011 – Teatro dei Rinnovati (Siena)
25 – 27 febbraio 2011 – Teatro Ariosto (Reggio Emilia)
1 marzo 2011 – Teatro Sociale (Bergamo)
9 marzo 2011 – Teatro Fraschini (Pavia)
10 marzo – Teatro Sociale (Como)
12 marzo 2011 Teatro Alfieri (Asti)
15 – 20 marzo 2011 – Fonderie Limone Moncalieri (Torino)
27 febbraio 2011 –
1, 2, 3 aprile 2011 – Arena del Sole (Bologna)
Fabrizio Gifuni in collaborazione con
Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti
L’INGEGNER GADDA VA ALLA GUERRA
o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro
un’idea di Fabrizio Gifuni
da Carlo Emilio Gadda e William Shakespeare
con Fabrizio Gifuni
disegno luci Cesare Accetta
regia Giuseppe Bertolucci
A me, personalmente, con un certo dispiacere, non è piaciuto molto, anzi non mi è piaciuto in maniera quasi radicale, nonostante tutte le sue buone qualità, lui che è molto bravo, il testo di Gadda a monte che è molto bello, un paio di luci molto suggestive…
Avevo visto anche quello su Pasolini, che non mi ricordo benissimo, ricordo dei tavolini, lui che parlava molto più con la sua voce che con la voce artefatta e volutamente trombona dell’altra sera (che stava molto bene con GAdda e con gli inserti di Amleto e col discorso che fa su Mussolini/Silvio B. e l’istrionità ecc, non dico di no…), anche quel lavoro mi era piaciuto e non piaciuto, sempre con un certo rispetto, per carità, ma piaciuto così così..
L’impressione generale, se posso permettermi di esprimerla senza apparire troppo snob e troppo un pregiudiziale difensore della scena teatrale (indipendente ma non solo) cui appartengo, è stata quella di una grande ingenuità di costruzione, ingenuità, dico, non incapacità (tutt’altro) ma proprio ingenuità, come di un linguaggio che fino in fondo non appartenesse loro, né al bravissimo Gifuni né allo stimatissimo Bertolucci (che grazie a “Berlinguer ti voglio bene”resterà in eterno, e con amore, nel mio album di famiglia): il linguaggio della scena. Certo, è una dichiarazione che può sembrare un pregiudizio, visto che stiam parlando di un attore che al teatro ritorna dopo tanto trionfo al cinema e in televisione, ma è una dichiarazione che è nata spontanea vedendo lo spettacolo: vedendo tutta quell’ansia di riempire la scena con spostamenti di moto a luogo, cambi di luce non sempre necessari (anche se sempre suggestivi), come se si avesse paura che senza inventarsi tanti piccoli stratagemmi lo spettatore non avrebbe potuto che annoiarsi; e poi una cesura troppo brusca tra una prima parte forse troppo lunga (Gadda che effettivamente va alla guerra) e seconda parte (tutta costruita su Eros e priapo) in fondo quasi indipendente e autoconclusiva. GAdda che va alla guerra rimane un primo spettacolo che appare interessante ma un po’irrisolto, che secondo me la seconda parte (quasi in sé un vero e proprio spettacolo, anche non male) non risolve. E poi c’è tutta la faccenda dell’Amleto, che come dicevo trova un suo senso, anche forte, nella seconda parte ma – qui ammetto l’idiosincrasia personale – per tutto il resto dello spettacolo non son riuscito a non pensare che fosse una volontà di Gifuni di infliggerci una sua prova d’attore con il testo dei testi.
Ingenuità, che è la più grande accusa, nel senso che vedo, ho visto, milioni di spettacoli con altrettanta volenterosità e altrettanti buoni spunti, spettacoli meglio o peggio riusciti, che davan tutti l’idea di un linguaggio personale, un pensiero, nati sulla scena, radicati nella scena, fattisi carne e sangue in anni di spettacoli e tentativi e riflessioni sul proprio stare in scena etc.
Lo spettacolo di Gifuni, in tutte le sue parti (tranne forse la rielaborazione drammaturgica, quanto a struttura, dei materiali di Gadda, forse non stupefacente) è valido e meritava gli applausi che ha avuto, ma – lo ripeto, so di apparire snob e pregiudiziale, ma l’alternativa è il silenzio, come nel finale dell’amleto – è lo spettacolo amatoriale realizzato da un ottimo professionista, anzi artista, che viene però da un’altro mestiere, con ancora tutta una gavetta da farsi prima di avere un suo linguaggio scenico coerente. Se vogliamo è anche un complimento: anche Pasolini arrivò al cinema dalla letteratura. Però mi sembra che il bravo Gifuni non abbia cominciato già col suo “Accattone” e debba farne di strada per passare da un ottimo e rispettabilissimo lavoro teatrale a trovare un suo teatro.
Non son stato molto sintetico, e mi sono già pentito. Il critichetto amatoriale che era in me si è destato per una volta e ha fatto danni.
Scusatemi per le critiche…
Eccoci qui,
finalmente ho trovato un attimo di tempo in questo pomeriggio domenicale per rispondere alla tua analisi caro Daniele e provare a continuare l’interessante discussione da te innescata.
Chiariamo subito un fatto: non ci troviamo certo di fronte a un capolavoro, su questo mi trovi d’accordo.
Però io ho trovato nella modalità di rapportarsi con la scena ideata da Gifuni e Bertolucci un approccio linguistico molto specifico e una volontà di sperimentazione che mai mi sarei aspettato da un attore che ha trovato il successo con il cinema e la tv.
E proprio in quella bulimia di movimenti che tu trovi, giustamente secondo la tua sensibilità di artista, ridondanti ed eccessivi nei momenti in cui la scena viene riempita nel suo intero spazio, c’è una ricercatezza del gesto a mio avviso molto interessante, un didascalismo al contrario (perché alcune volte il corpo sembrava dire altro rispetto alle parole) che insieme alla ricerca fonetica dà vita a un “segno” molto preciso palesando mesi di lavoro per raggiungere questa forma.
Una forma che in questo caso può anche andare oltre l’inappuntabilità drammaturgica. Perché è vero quello che di ci tu rispetto al fatto che le sezioni di cui lo spettacolo è formato non sono concluse, ma non ne trovo il bisogno, non vedo perché completare l’idea quando forse alcune volte basta farsi attraversare da alcune sensazioni. Non trovo insomma la necessità di chiarire, di sviluppare ulteriormente o di chiudere il cerchio.
E poi quell’appendice finale è secondo me un atto artistico fortissimo, con quel cambio di registro nel raccordo proprio tra Shakespeare ed Eros e Priapo quando Gifuni improvvisamente spoglia la sua voce di qualunque orpello e ricerca fonetica e inizia a parlare con il proprio respiro straniando il discorso e aprendolo così a quel ragionamento metateatrale onnipresente nel teatro indipendente. Questo prima di affrontare un discorso politico senza rete: facendo accendere le luci di sala e sedendosi su quella sedia in proscenio come se fosse in piazza o al bar, facendo sì che le parole di Gadda diventassero le sue, ma sempre con la stessa precisione nel segno, con la stessa cura fonetica.
Vi ho trovato inoltre, tra le altre cose, un professionismo, una dedizione nello scegliere il tono, nel levigare ogni parola e sbalzo sonoro che oggi in giro si vede con difficoltà, soprattutto nel teatro dei grandi circuiti.
I grandi circuiti appunto. Perché dobbiamo a mio avviso cercare anche di analizzare l’evento teatrale fuori da certi schemi e lontano da alcuni inevitabili condizionamenti. Mi riferisco al fatto che qui parliamo di un artista che ha scelto la modalità del monologo all’interno di uno spazio perfetto nel rendere quasi tutto più freddo e distante. Immagina Daniele cosa ne risulterebbe se tra Gifuni e il pubblico ci fosse una distanza minore, immagina che all’accensione delle luci di sala non si debba posare lo sguardo su quei palchetti settecenteschi, immagina di vedere L’ingegner Gadda va alla guerra in un teatro sotto i 200 posti, non pensi che Giufuni sarebbe uno degli alfieri del teatro indipendente di ricerca che noi tanto amiamo?
Andrea
Guarda, nonostante la mia analisi, che comunque ribadisco, sono abbastanza, anzi molto d’accordo con te su quel che scrivi. Oltre al suo percorso bisogna tener anche conto, visto che parli di grandi circuiti, cosa circola di solito nei c.d. “grandi circuiti”, tipo il Castri con Popolizio, per restar al t. pubblico, tipo La Presidentessa qualche anno fa al Brancaccio con la Ferilli che ostentava le tette in locandina, per passare al t. privato. Che un bravo attore si sia fatto un culo così e porti al Valle Gadda o Pasolini e un discorso, anche politicamente, di un qualche rilievo, non può che farmi piacere e forse ben sperare.
Però questo contesto, e questa sua provenienza, è fondamentale tenerla presente, proprio perché – ed è l’unica cosa che contesto dei tuoi ragionamenti – secondo me in un contesto a noi più consueto e familiare, in una sala sotto i 200 posti, o sotto i 100 o sotto i 50 o a Riunione di condominio, sarebbe sì assimilabile ad un esponente del c.d. teatro indipendente di ricerca, ma certo non ne sarebbe -non ancora, almeno, e nonostante l’ottimo lavoro artigianale sul corpo, sullo spazio e sulla voce – un alfiere, mi verrebbe da dire che lo giudicherei bravissimo ma come “autore” di spettacolo (non nel senso della drammaturgia) pieno di potenzialità ma ancora un poco “acerbo”.
Non sto difendendo una categoria (il teatro indipendente) con la quale ho un rapporto anche di amore e odio, visto che è sì piena di persone che stimo ma è anche una prigione, come la Danimarca di Amleto, e si sfuggirà forse solo con la morte, o con l’espatrio…
Vabbè, a presto,
PS: complimenti per gli interventi su Klp a seguito dell’intervista di Teatro Forsennato. Pensi che potremmo postarlo anche sul Blog di novo critico? Vorremmo dar testimonianza di tutte le discussioni in merito anche sul blog… naturalmente chiederei anche alla Ferraresi e a chi dovesse intervenire..