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Bestiale improvviso: la nuova epopea scientifica di Santasangre

Raccontare un fremito, narrare l’indicibile emozione. Comunicare lo stupore di una passione aggrovigliata giù nello stomaco che prova ad arrampicarsi, a venire su alla luce della razionalità, cercando la presa di coscienza dell’attimo mentre le possenti immagini di una mitologia moderna sono impresse ancora sulla mia retina e si rincorrono in un immaginario futuribile. La passione emotiva si scontra con la consapevolezza della responsabilità, con il dovere di fotografare il momento, di dover congelare l’attimo, per dire senza mezze misure di essere spettatore di una svolta unica, probabilmente epocale nel panorama performativo italiano.

Ritrovarsi ancora al Palladium, nuovamente grazie a questo sorprendente Romaeuropa Festival, come più di due anni fa, con lo stesso stupore che mi aveva afferrato al petto durante Seigradi, stordito, eppure sorpreso ancora e genuinamente da Sanasangre. Ritorna il collettivo romano con un peso sulle spalle, quello di aver creato una delle più avanzate opere d’arte performativa degli ultimi anni, manifestazione d’avanguardia pura (perché se proprio dobbiamo utilizzare questa parola Santasangre è uno dei pochi soggetti artistici a potervisi accostare senza renderla desueta), tornare indietro: impossibile; sbagliare: mi spiace non concesso. Soprattutto se il punto di partenza è lontano dal teatro e dal suo statuto narrativo avendo invece l’intuizione (che per alcuni potrebbe suonare come pretesa) di far comunicare arte e scienza.

Il lavoro parte da lontano per questo Bestiale improvviso, da Fonderia 900 dove al festival dello scorso anno aveva debuttato Framerate 0 (leggi gli articoli), primo studio sull’energia, “solo” un blocco di ghiaccio a sciogliere la propria materia e le aspettative dello spettatore incredulo. Da quel momento il lavoro del gruppo procede per tappe successive, diverse ipotesi, figlie di una concezione empirica della creazione artistica, vengono presentate nei vari festival estivi.

Nascondere al pubblico l’accadimento, privarlo di quel controllo cognitivo e stabilizzante che è la vista per incrinarne poi tutti i sensi. D’altronde il massiccio utilizzo del fumo a costituire una nebbia che opacizzi la visuale dello spettatore è presente in ogni tappa. Questo è il primo pensiero che mi cattura negli interminabili minuti iniziali di quella che potremmo definire un’epopea meravigliosamente fantascientifica, mi ricordo di non aver annotato a che ora tutto è iniziato, il tempo scivola via senza che sia pronto a percepirlo. Per eterni attimi di fronte a noi solo un cono di luce dall’alto spezza il bianco della nebbia, una paratia cela qualcosa che si agita dentro l’ombra. Mentre il rumore cresce mutandosi in ritmico battere tre figure iniziano a mostrare il velo della propria presenza, sono tre macchie d’ombra, si allontanano e avvicinano alla parete semitrasparente. Quando in una frazione di tempo successiva, incalcolabile, la parete si abbassa sfamando la curiosità dello spettatore, una fredda scatola bianca è il palcoscenico, di fronte a noi solo il vuoto delle pareti riempito poi da un rincorrersi di particelle, come nell’ acceleratore atomico. Qual’ è il nostro ruolo di spettatori in questa grande macchina teatrale? Ho provato l’abbandono dei sensi, mi sono fatto rapire dall’attesa spezzata nell’ arrivo delle tre figure umane, ho cercato di destarmi per calcolarne la portata razionale; ecco l’omaggio alla scienza, allo stupore acceso dall’affascinante vorticare della più piccola particella, dall’accelerazione di un atomo.

Ora l’umanità d’inanzi a noi, sono tre figure, nascondono il volto ma non il femminino, la luce le sfiora e poi le abbandona, le crea e le distrugge. Allora la vita la devono conquistare facendo qualche passo avanti, e la vita è nel movimento. Poi un respiro, forse umano, pesante, si inserisce tra le pieghe del rumore e il movimento che prima era lento, presa di coscienza instabile delle proprie membra, diventa scomposizione ritmica, scatti e posizioni di un fotogramma animalesco, ma solo per un attimo, ecco il “bestiale improvviso”. Siamo testimoni di una lotta, a tratti una mutazione, sono corpi che fuggono da qualcosa di animalesco, i muscoli si contraggono, ma l’entità animale più che crescere dentro sembra muoverli da fuori, li vediamo impossibilitati e incapaci di fuggire e quando l’animale li lascia sono solo tre manichini femminili, due di loro per un attimo si prendono per mano, raccontando di un’improvviso sentimento d’umanità, parlando con quella stretta di mano di amicizia, amore, paura, sofferenza, di un futuro inevitabile. Come inevitabile è infatti il ritorno della bestialità e il corpo si scompone di nuovo a un ritmo ormai ossessivo, il fondale si accende di una luce piena, accecante, mentre dall’alto inesorabilmente un piattaforma scende e ruotando svela proprio quel ghiaccio da cui un anno fa tutto era cominciato.

Obbligatoriamente dobbiamo rivolgerci alle premesse di lavoro per carpire gli intenti dei nostri artisti “L’operazione riguarderà la traduzione in linguaggio artistico di tutto quello che per natura e per nomenclatura appartiene al mondo della scienza“, così i Santasangre parlano del proprio approccio al lavoro nelle note di regia. Ma il risultato di questo freddo e programmatico pensiero non è uno show illustrativo sui mutamenti di stato della materia, non è l’illustrazione spettacolare di un paradigma fisico, d’altronde come affermava Cocteau “l’arte è scienza fatta carne”, è al contrario la declinazione poetica di quelle ricerche. Banalmente, se volete, potete trovarvi anche il precipitato di un percorso narrativo che si snoda attraverso nuclei primordiali come la creazione della materia a partire da uno stato gassoso, poi l’arrivo dell’uomo, la sua lotta per la vita. E se da una parte questa prova di Santasangre sembra ancora più estrema di Seigradi proprio perché in mezzo a quei nuclei tematici lo spettatore é chiamato ad elaborare ipotesi contenutistiche con il rischio altrimenti di vagare all’interno di una forma astratta, a differenza del precedente lavoro dove l’anima ecologista dava un appiglio più che realistico allo spettatore, allo stesso tempo però Diana Arbib, Luca Brinchi, Maria Carmela Milano, Dario Salvagnini, Pasquale Tricoci e Roberta Zanardo sono ben consapevoli di essere gli ideatori di una macchina scenica senza precedenti, perfetta in ogni ingranaggio, una giostra dalla quale io personalmente non non volevo più scendere. Sono coscienti perciò anche del pericolo di imporre la forma al contenuto ma, a mio avviso, il ragionamento del collettivo non fallisce neanche nella peggiore delle ipotesi: perché se in Bestiale Improvviso il linguaggio brutalmente scalcia via tutto il resto, proprio in quel linguaggio risiede un pensiero concettuale e meta-artistico talmente potente da diventare “significato”.

Andrea Pocosgnich

visto l’11 novembre 2010
Teatro Palladium – Romaeuropa Festival [vai al programma 2010/2011] Roma

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