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No Hamlet, please. Il teatro in transito di ArteStudio

ArteStudio ha debuttato ieri sera al Teatro India con il suo ultimo lavoro No Hamlet, please. Recensione

Foto di Maria Sandrelli
Foto di Maria Sandrelli

Erano solo due settimane che Riccardo Vannuccini stava portando avanti il suo laboratorio di prove: sin dai primi minuti di ascolto e visione della pratica, ci si è subito resi conto che non si trattava solamente di una metodologia di messa alla prova, definizione di movimenti e filata, c’era ben altro. Lamin Njie, Yaka Jallow, Yeli Camara, Lucky Emmanuel, Joseph Eyube sono i richiedenti asilo della Refugee Theatre Company che tutti i giorni dagli hotspot di Castelnuovo di Porto e Guidonia si recavano autonomamente coi mezzi pubblici fino al Teatro India di Roma per lavorare insieme agli attori della Scuola di Teatro e Perfezionamento Professionale del Teatro di Roma: Maria Teresa Campus, Vincenzo D’Amato, Stefano Guerrieri, Chiara Lombardo e Caterina Marino. Due gruppi in un gruppo, inevitabile non pensarlo, al quale gravitavano intorno anche gli attori della compagnia Cane Pezzato: Eva Grieco, Lars Röhm e Capucine Ferry; questa materia viva di storie, esperienze e personalità è stata unita e consolidata insieme da una progettualità di lavoro che ha avuto come obiettivo primario il divertimento.

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Foto di Alice Valente

In uno di quei giorni di metà novembre, appena arrivati nella Sala C del teatro, non si è potuto fare a meno di notare come Amleto e la sua massiccia letteratura siano stati relegati da una parte: un grande tavolo di legno sul quale erano poggiati tutti i libri di scena, come se stessero lì a ribadire una presenza storico-testuale che ha funzionato da approccio critico per il lavoro condotto da Vannuccini, ma senza veicolarlo né tantomeno dargli una chiave interpretativa: «Se il teatro diventa una fortezza intellettuale, un testo tomba, un intervento umanitario, allora non funziona. “No – mi dicono sorridendo i giovani africani o i bambini siriani – No Hamlet, please”», dichiarazioni riportate nel programma di sala che corrispondono al lavoro osservato nel pomeriggio di prove al quale abbiamo partecipato da uditori. “Due gruppi in un gruppo” ma con l’intento di crearne uno ancora più grande che al suo interno contenga realtà anche contrastanti tra di loro e nel quale, ricorda il regista, «nessuno insegna nulla a nessuno: cosa facciamo non vuol dire cosa stiamo facendo, ma è la necessità che motiva il mio fare, cosicché io sappia cosa faccio ma non dove vada a finire e quali reazioni potrebbero corrispondere a questa mia azione».

Foto Maria Sandrelli
Foto di Alice Valente

Pensiero che contraddistingue il teatro di ArteStudio orientandone la mission: «non vogliamo fare folclore e non mi interessa neanche la distinzione rifugiato-attore, tutti sappiamo che c’è ma scenicamente non deve apparire. Non voglio che lo spettatore dica “quello è rifugiato e interpreta il rifugiato”. Bisogna andare oltre». Vannuccini raggiunge questo “oltre” attraverso la costituzione di una «squadra» con la quale ha lavorato quotidianamente per circa un mese e mezzo, ribadendo loro, con voce piana e ferma ma molto informale, che ciascuno si trova sul precipizio, ogni azione è in bilico sul crinale della possibilità e della sua inevitabilità e «che la voce della donna deve tornare alla terra».
Gravità di pensiero e di pratica che avevamo osservato anche in Sabbia senza conoscerne però la matrice laboratoriale che lo sostenesse e che invece risulta determinante per comprendere il tessuto drammaturgico di quest’ultimo lavoro, il cui debutto ieri sera al Teatro India ha visto la partecipazione di amici e collaboratori, giornalisti e pubblico. No Hamlet, please si muove, prima di tutto. Si rintracciano nugoli di uomini viaggianti che riempiono la scena di movimento: un transito spinto, necessario, ineluttabile. Camminano, corrono, occupano sedie per ricordare che il percorso seguito consta anche di attese, di file ordinate, di compilazione di documenti. Oggetti sparsi, scarpe, matite, taniche d’acqua, tavoli, bicchieri, teloni di plastica, cappotti affollano la scena. Anche loro sono gli strumenti di questo lungo viaggio nel quale lo spettatore può solo osservare gli incroci, incontri, sospensioni ma non vi può prendere parte fino in fondo. Il transito è da guardare perché «il nostro campo di azione scenica mette in prova un’idea di teatro poetico, non discorsivo dunque, […] che possa formarsi e formare in uno spazio altro – minore e non minoritario – e che deve rigenerarsi rispetto alle attuali forme di conoscenza e comunicazione».

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Foto di Maria Sandrelli

La partecipazione dello spettatore è quindi relegata a un momento diverso dall’atto del guardare, che corrisponde con la fine dell’esperienza visiva, quando ha lasciato la poltrona, nella sedimentazione di un racconto di immagini che raggiunge la stasi della riflessione. La drammaturgia accade e cade senza consequenzialità narrative, sviluppandosi per lo più attraverso quadri simbolici – primo fra tutti quello della “corsa all’acqua” in cui si può bere da un unico bicchiere pieno mentre gli altri sono tutti vuoti – espressi in lingue diverse. Così ci si ricorda di quando, con fare provocatorio e durante la “prova”, Vannuccini spiegò: «Ti chiederai perché mi sono complicato la vita scegliendo di lavorare con ragazzi che parlano lingue che non conosco? Perché così il corpo e la mente tutti si devono predisporre all’ascolto e tutto deve essere in tensione per poter comprendere ciò che accade in scena». Anche il pubblico lo sa, infatti si nota una fatica a seguire alcuni momenti del lavoro, gap solamente linguistico che rientra dunque in quella «stanchezza dell’andare», da esperire durante le circa due ore di spettacolo. Ci saremmo aspettati una maggiore naturalezza da parte degli attori della Scuola del Teatro di Roma, meno “impostazione” a beneficio dell’urgenza del dire, la quale invece esplode nella fisicità energica e nelle tonalità furiosamente francesi di Capucine Ferry.

Dov’è quindi Amleto? Amleto sta, come stava nei libri poggiati sul tavolo durante la fase delle prove. Amleto sta e con lui anche alcuni estratti da Franz Kafka, Ingeborg Bachmann, Walter Benjamin, Colette Thomas e Patrizia Vicinelli. E proprio nel confine tra il riconoscimento e l’ascolto anche passivo di un linguaggio il cui codice ci è sconosciuto, transita il lavoro di ArteStudio. Non sono importanti inizio e fine ma viviamo da spettatori, sia a livello partecipativo che cognitivo, quel “mentre” dell’esperienza che si muove, muove, e non si arresta.

Lucia Medri

Teatro India, Roma – dicembre 2016

in scena fino a domenica 11

NO HAMLET. PLEASE

Dedicato a Fatim Jawara
da William Shakespeare
uno spettacolo di Riccardo Vannuccini
con i richiedenti asilo della Refugee Theatre Company
Lamin Njie, Yaya Jallow, Yeli Camara, Lucky Emmanuel, Joseph Eyube
con gli attori della Scuola di Teatro e Perfezionamento Professionale del Teatro di Roma
Maria Teresa Campus, Vincenzo D’amato, Stefano Guerrieri, Chiara Lombardo, Caterina Marino
e con Eva Grieco, Lars Röhm, Capucine Ferry
testi da William Shakespeare, Franz Kafka, Ingeborg Bachmann, Walter Benjamin, Colette Thomas, Patrizia Vicinelli
scene, costumi, luci Yoko Hakiko
colonna sonora Rocco Cucovaz
musiche Simeon Ten Holt, Underground Youth, Warren Ellis, Carla Bruni, Nick Cave
produzione ArteStudio nell’ambito del progetto Teatro in Fuga
in collaborazione con
Teatro di Roma
Refugee Theatre Company
Cane Pezzato

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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