Cordelia - le Recensioni

HomeCordelia - le Recensioni

DELIRIO A DUE (con Elena Bucci e Marco Sgrosso)

Elena Bucci e Marco Sgrosso da decenni fanno (anche) biografia di sé (e del mestiere/destino che hanno scelto) usando trame altrui. Ficcati in scena, tra luci fioche, polvere, vecchi arredi. Un camerino alluso con un telo, come in Risate di gioia, impegnati a «parlare, parlare sempre» come Attilio e Carlotta in Recita dell’attore Vecchiatto. Ora interpretando la rabbia di Thomas Bernhard, ora usando per belletto la vita della Pezzana, di Eleonora Duse o dei suggeritori del teatro all’antica di Tofano. I capelli bianchi di lui che vibrano quando s’infuria; lei che ride appena appena, sgualcendo un viso livido come una maschera di cera. Capita, mi sembra, anche in Delirio a due. in cui la coppia sta tra arredi teatrali ripresi da un deposito più che in una casa dissestata dalle granate: pannelli, trespoli, lampade e uno specchio, una poltrona, un posacenere, un giradischi con altoparlante, un lampadario a sei luci, di cui tre in funzione. Fuori il sonoro di guerra (l’assedio guasto della realtà), dall’alto cade calce che somiglia al borotalco, litigano sul nulla (la tartaruga e la chiocciola sono la stessa bestia?) odiandosi da testo, insopportabili negli anni l’una all’altro, senza sapersi, volersi o potersi separare. Lui che vagheggia carriere mai avute, «sarei potuto essere un pittore», lei che abbellisce esistenze sciupate: «mio marito era un materassaio-artista». Ogni tanto un ballo o una canzone, in memoria di chissà che tempi. «Sei un imbecille», «e tu mi secchi e quando non mi secchi mi secchi lo stesso» ma non bisogna credergli, non più di tanto almeno. Perché se lo scoppio è forte si stringono («sei ferita?», «sei ferito?» all’unisono) con lei che s’appoggia all’avambraccio di lui, con lui che la tiene come per dirle «non aver paura». Tant’è, tremendi sono invece gli istanti in cui non recitano alcuna lite e stanno da soli, come due mucchietti: in ginocchio lei tra penombra e luce calda, lui in poltrona, a occhi sbarrati. Viene in mente la disperazione di Eduardo nei giorni di sosta: o sto in teatro o questa mia, infine, non è vita. (Alessandro Toppi)

Visto a Galleria Toledo. Di Eugène Ionesco, con Elena Bucci e Marco Sgrosso, drammaturgia del suono di Elena Bucci e Raffaele Bassetti, luci di Loredana Oddone, cura del suono Raffaele Bassetti, scene Giovanni Macis e Michele Sabattoli, regia di Elena Bucci e Marco Sgrosso, produzione Le Belle Bandiere, TPE-Teatro Piemonte Europa, Centro Teatrale Bresciano, con il sostegno di Regione Emilia-Romagna.

CASANOVA DELL’INFINITA FUGA (di Ruggero Cappuccio)

Dopo averci catturato trent’anni fa col suo poetico “Shakespea Re di Napoli”, adesso Ruggero Cappuccio ci tende ancora la mano con la scrittura e la regia del suo Casanova dell’infinita fuga, e stavolta al posto del filosofico Roberto Herlitzka, che nel 2015 assunse i panni del seduttore veneziano, ci si imbatte al Mercadante nella placata e tenerissima figura umana di cui è capace un attore come Claudio Di Palma che, vedi caso, spiccava nel testo shakespeariano d’allora. Tutto torna. Col passare del tempo il Casanova di Cappuccio, che in proscenio all’inizio impugna smarrito una valigia, si scopre alle prese con una baraonda di sei poupée incarnanti immaginarie conquiste femminili, lui consapevole di vivere un tramonto nel castello di Dux dove è finito bibliotecario e presagisce la morte. Ma l’autore lo bracca con queste falene vistose e acrobatiche, tra cui svetta la “straniera” in cima a un’altalena, impersonata al di là di ogni genere da Emanuele Zappariello. E a mescolare assai più le carte le voci di tutte le vamp sono assunte, tramutate e doppiate dagli insolenti o arcani toni che appartengono a un’icona della scena come Sonia Bergamasco. Nel lirismo d’un tale purgatorio/pensionato costellato di trapeziste felliniane, carni nude, ventagli e scarpette rosse, il nostro ex dongiovanni nega d’essere Casanova mentre è circondato da intrusioni infantili, mentre racconta come un libertino della sua fatta sia evaso dal carcere dei Piombi, mentre ammette d’aver scritto sui corpi, e mentre, soprattutto, è pedinato da quella creatura androgina che è un suo fantasma, un suo incubo. Se in certi punti lo spettacolo tesse un’enfasi che confina con piaceri cromaticamente intellettuali d’un delirio, di punto in bianco il finale è, grazie anche alla partecipazione profonda e generosa di Di Palma, e al linguaggio rarefatto di Cappuccio, un inno alla sofferenza e alla febbre devastata dell’esistere. Complici la Sarabanda di Haendel, e la fragilità d’un Casanova di vetro di Murano. (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Teatro Mercadante: Scritto e diretto da Ruggero Cappuccio con Claudio Di Palma voci delle donne: Sonia Bergamasco e con Emanuele Zappariello, Francesca Cercola, Viviana Curcio, Eleonora Fardella, Claudia Moroni, Gaia Piatti, Estelle Maria Presciutti coreografie aeree con Maria Anzivino, Sara Lupoli, Marianna Moccia, Viola Russo musiche Ivo Parlati, costumi Carlo Poggioli, progetto scenico Ruggero Cappuccio, aiuto regia Nadia Baldi, scenografi Paolo Iammarrone e Vincenzo Fiorillo produzione Teatro di Napoli

UNA RELAZIONE PER UN’ACCADEMIA (di Franz Kafka, Regia Luca Marinelli)

Chissà mai se Darwin avesse avuto modo di intervistare le scimmie cosa ne sarebbe emerso, ma più di tutto una domanda sarebbe stata decisiva: ne è valsa la pena? Questa trasformazione in essere umano, se dal nostro punto di vista prende il nome di “evoluzione”, al contrario potrebbe definirsi come un raggiungimento del limite di una condizione, una perdita di caratteristiche peculiari che forse non si era pronti a perdere. Del rapporto tra uomo e natura, tra evoluzione e conservazione, si occupa con estrema ironia Franz Kafka nel noto racconto Una relazione per un’accademia, scritto nel 1917 e pubblicato nel 1919 nella raccolta Un medico di campagna, che oggi Luca Marinelli dirige in forma teatrale al Teatro India. È un monologo, già nella sua forma originaria, che si cuce nell’abito e sulla pelle dell’attore tedesco Fabian Jung, interprete di Rot Peter, quest’uomo cui si richiede di affrontare di fronte alla platea di una conferenza il rapporto con il proprio passato da scimmia, la sua trasformazione in qualcosa di diverso e simile, come proprio è un essere umano. Jung raccoglie tutta la tesa attenzione del pubblico vestendo a ritmo di musica gli abiti civili, appena all’inizio, acquisendo dunque i simboli del mutamento cui presto darà voce: parla dell’adattamento, della crisi culturale, sotto l’indagine e la rivelazione di una luce saettante che lo rincorre per l’intero palco, che lo mette inizialmente a disagio ma poi impara a sfruttarla a proprio vantaggio; quando poi la luce si estende e diventa totale, scopre un panneggio semicircolare che circonda e avvolge i pochi elementi della sala conferenze, proiettando la sua ombra sulle pareti laterali a ingigantirne la figura eretta che si mostra così ancora bestiale. Oltre dunque al dialogo dinamico con la luce, emerge nella regia di Marinelli il ricorso al linguaggio come fulcro di conoscenza (proietta attraverso una lavagna luminosa parole chiave via via imparate dal protagonista), capace di portare da una forma all’altra pur riformulandone da capo l’identità. Il finale è poco chiaro e impreciso, ma una domanda resta in fondo allo spettacolo che rende l’utilità dell’esperienza: l’essere umano è un punto d’arrivo o una via di fuga? A due o quattro zampe, la vita cambia non di poco. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro India. Crediti: tratto dall’omonimo racconto di Franz Kafka; regia Luca Marinelli; con Fabian Jung; light designer Fabiana Piccioli; regista assistente Danilo Capezzani; set designer Sander Looner; foto Anna Faragona; produzione Spoleto Festival dei Due Mondi, Teatro Stabile dell’Umbria, Società per Attori

LIDODISSEA (di Berardi/Casolari)

Parto dalla fine: dagli applausi convinti del Teatro Palladium, con Gianfranco Berardi incontenibile, presenta gli attori, scherza ancora con loro, come se fossimo a un un concerto. Verrebbe voglia di chiedergli un bis, per riascoltare i passaggi più lirici, per vedere ancora quel corpo atletico muoversi abbracciando il pubblico cercandone i rumori e l’energia, giocando come spesso fa Berardi sulla sua cecità, sull’impossibilità di vedere chi risponde ai suoi richiami. Ma non è solo in scena l’attore pugliese, con lui l’altra metà della compagnia Gabriella Casolari - graffia la sua Penelope in questa riscrittura dell’Odissea e non ha più pazienza per il maschio avventuriero -; c’è la voce bellissima di Silvia Zaru che scandisce le scene con il canto, e poi Ludovico D’Agostino, un efficace Telemaco schiavo dello smartphone. Di scritture dei classici se ne vedono a bizzeffe, l’idea non è dunque nuova, neppure la vena comica con cui vengono ritratti gli eroi omerici, però nello spettacolo scritto da Berardi e Casolari (con la collaborazione di César Brie) c’è tutto il mondo lirico di questa compagnia, e poi la parola veloce e poetica di Berardi, che trasforma l’epica greca in un canto tutto contemporaneo in cui stigmatizzare il paradossi della nostra epoca, come quando se la prende con la schiavitù subita dagli schermi che affollano le nostre vite. Ulisse dunque libero di vivere la propria libertà lontano da Penelope - che lo tartassa su WhatsApp - si ritrova incatenato prima alla maga Circe e poi alla dea Calipso. E infatti non c’è avventura, i personaggi sono in attesa su spiagge desolate: Ulisse spunta fuori da sotto un telo trasparente, come dal mare: le sedie, gli ombrelloni, i Proci molestatori, Nausica è un incontro giovanissimo, il sogno della purezza. E’ la regia e il suo linguaggio teatrale a costruire la trama scenica, ricca di idee e dinamiche. Ma il tempo passa, i capelli si imbiancano, Telemaco intanto muore, e forse il tempo qui non è una rigida costante, è il tempo della poesia del teatro a contare. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Palladium. Testo e regia di Gianfranco Berardi, Gabriella Casolari con la collaborazione di César Brie con Gianfranco Berardi, Gabriella Casolari, Ludovico D’Agostino, Silvia Zaru elaborazioni musicali Ludovico D’Agostino disegno Luci e direzione tecnica Mattia Bagnoli costumi Giada Fornaciari decorazioni di scena Sara Paltrinieri organizzazione Benedetta Pratelli Produzione IGS APS, Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia, Manifatture Teatrali Milanesi – MTM Teatro, Accademia Perduta – Romagna Teatri SCRL, Comune di Bassano del Grappa. Con il sostegno del MiC – DIREZIONE GENERALE SPETTACOLO e del Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), Comune di Sansepolcro Si ringrazia il Teatro dei Venti

ATTO SENZA PAROLE 2 (con Sergio Longobardi e Costantino Raimondi)

Il primo (Sergio Longobardi) ha testa pelata, barba lunga e un corpo decorato da residui dignitosi: il soprabito sgualcito, la fettuccia al collo, la parvenza d’una camicia, un libretto nella sinistra, nella destra una matita rosso/blu, di quelle con cui annota gli errori della vita. Un sandwich, una banana, fogli appallottolati in tasca, dice «associo, a torto o a ragione, il mio matrimonio con la morte di mio padre» e narra la disfatta che l’ha portato in Sala Assoli. Fuori la domenica di Napoli, da passeggio e turismo ipercalorico, qui uno dei clochard di Beckett, di cui mi restano – più che le pagine di Primo amore: la cacciata da casa, la panchina, Lulù e la merda, il sesso, l’abbandono – le mani cotte dal sole, e che il vento ha gonfiato e poi corrotto. Il secondo (Costantino Raimondi) in Atto senza parole 1 è una figura punk-lunare, dai capelli azzurri. Accecato dai fari laterali, costretto al gioco da una regia che cala oggetti di sopravvivenza e morte (un albero, tre cubi, forbici, una corda), scatta ai fischi, s’affanna, suda e s’adopera quindi, fallito il compito (raggiungere la brocca, ottenere l’acqua), gattona in proscenio dicendo con lo sguardo «sta per finire». Neanche fosse Clov. Entrambi, in Atto senza parole 2 ora stanno fianco a fianco, impegnati a prendersi lo sguardo, come se da ciò dipendesse il loro destino. Che infine il fatto è questo, direbbe Jan MecGowran: «che Beckett eleva all’ennesima potenza la sventura dell’uomo mettendo i personaggi in condizioni che normalmente porterebbero chiunque a commettere un suicidio» mentre loro, i personaggi, pur tentati dalla morte (Longobardi invidia i seppelliti al cimitero, Raimondi indossa un cappio) tentano invece di restare in scena, ovvero al mondo. Tra un affanno e un numero (una preghiera, una linguaccia, una carota morsa con e senza cellophane), sorvegliandosi (le pupille di lato, per scrutarsi con fastidio), finiscono nel sacco. Siamo nati, abbiamo vissuto, e lottato addirittura. E ora ce ne andiamo. Imbustati come un mobile inservibile, o come una sedia da buttare. (Alessandro Toppi)

Visto a Sala Assoli. Di Samuel Beckett, traduzione Carlo Fruttero e Franco Quadri, regia Costantino Raimondi, con Sergio Longobardi e Costantino Raimondi, assistente alla regia Annalisa Arbolino, spazio scenico Mediaintegrati, costumi Tata Barbato, disegno luci Antonio Nardelli, produzione e organizzazione Antonio Nardelli.

STABAT MATER (regia di L. Guadagnino e S. Savino)

Benedetta, e non è un’iperbole, la visione di Stabat Mater dal testo di Antonio Tarantino per la regia di Luca Guadagnino e Stella Savino con in scena, nei panni di Maria Croce, una magistrale Fabrizia Sacchi (che firma anche l’adattamento), supportata scenicamente da Emma Fasano. I Quattro atti profani sono stati i primi testi teatrali di Tarantino che presentavano il drammaturgo come figura innovativa e decisiva di una svolta per la drammaturgia italiana. Tra questi, lo Stabat Mater, già passato per le memorabili interpretazioni di Maria Paiato e Piera Degli Esposti, è ora adattato in questo teatro d’attrice, in cui la trasversalità dell’esperienza di Sacchi è osservata dalla regia di Guadagnino e Savino. Il risultato? È come entrare nella gabbia di una tigre e percepire su di essa, nelle sue definite movenze, sensuali alcune, irruente le altre – sottolineate da una camicia bianca e pantaloni neri – tutta la ferocia di una lingua grezza, popolana, rauca a causa delle quattro, cinque sigarette fumate, ma non per questo incapace di modularsi nell’accentazione napoletana, in quella cadenzata litania fatta di ascese misericordiose e violenti cadute, di amore e sofferenza; talmente impetuosa da anticipare le parole e così sofferente da sputarle con livore senza riposo alcuno. Un monologo che diventa preghiera di eternità e di redenzione per questa madre, per suo figlio in carcere e per tutto il presepio di personaggi dannati a cui lei si rivolge: la signora Trabucco, l’Assistente sociale, Don Aldo il prete, il dottor Ponzio, che come Pilato se ne lava le mani del figlio di Maria, e il Dottor Caraffa/Caifa. Fabrizia Sacchi è dolorosamente autentica, come dirà il suo personaggio, e insieme a Emma Fasano, che “serve” la scena fornendo all’attrice delle sedute e una scala per i movimenti, brilla nel nero minimalista della sala, madida di fatica, con gli occhi che da socchiusi si spalancano per fissarsi grandi e intensi in una posa di bellissima disperazione. E il pubblico sembra non abbia intenzione di smettere di applaudire. (Lucia Medri) Visto al Teatro Argot Studio: di Antonio Tarantino, adattamento di Stella Savino e Fabrizia Sacchi con Fabrizia Sacchi e con Emma Fasano, regia Luca Guadagnino con Stella Savino, una produzione Argot Produzioni, Infinito, Fondazione Sipario Toscana Onlus – La città del Teatro, Teatro delle Briciole – Solares Fondazione delle Arti. Foto di Yara Bonanni

IL CUORE DEBOLE DI ANTONIO (di Simone Giacinti)

Che il calcio abbia in dote la capacità di affondare nella società civile fino a scardinare rapporti di forza, istinti bassi e alti ideali, è cosa nota ormai almeno da Pasolini in poi; certo il calcio si è trasformato, diventando una rincorsa di mercato sempre più lontana dalla passione di gente che un tempo – ma non meno oggi – affollava gli stadi. Proprio per questo ad appassionare resta, spesso, il passato. Prima di tutto a proposito del campo, si pensa al calcio di una volta in termini nostalgici in modo quasi morboso, ma c’è invece poi un atteggiamento simile che volge in contrario al positivo in merito alle storie degli spalti, una serie di avvenimenti che attraversano le epoche e si narrano da una generazione all’altra. A Roma, tra le tante, spicca la storia di Antonio De Falchi, morto nel giugno del 1989 durante una trasferta a Milano per seguire la sua squadra del cuore, la Roma, insieme ad alcuni amici; oltre che ogni volta in Curva Sud la sua storia rivive oggi sul palco dello Spazio Diamante per la penna di Simone Giacinti, in scena insieme a Giovanni Bonacci, Giacomo Bottoni e Flavio Francucci, per la regia di Francesco Giordano. Il cuore debole di Antonio racconta la storia del viaggio a ritroso, come una testimonianza resa dopo il tragico avvenimento; sono gli amici che erano con lui a ricostruire l’istruttoria degli eventi, citando Antonio al centro del viaggio in treno Roma-Milano mentre Antonio, vestito con una maglia della Roma (sorprendentemente non d’epoca ma attuale), è fra loro come una presenza silente, dolcissima. Il linguaggio è quello giovanile dell’epoca, i sogni, lo stesso. Antonio e i suoi amici sceglievano il fine settimana di seguire il calcio letteralmente, in giro per l’Italia, componendo la schedina del Totocalcio, portando i panini fatti a casa, intonando cori e cercando di barcamenarsi nelle regole del tifo organizzato. Potevano pensare di trovarci la morte? Ne viene un racconto sentito in cui si confronto non solo un gruppo di tifosi ma una generazione, sul palco e in platea, in campo e sugli spalti, si estende il tempo supplementare di una partita interrotta troppo presto. (Simone Nebbia)

Visto allo Spazio Diamante. Crediti: di e con Simone Giacinti, con Giovanni Bonacci, Giacomo Bottoni e Flavio Francucci; regia Francesco Giordano; scenografia Alessandra Solimene; sound; designer Armando Valletta; aiuto regia Lorenzo Parrotto

LA VITA AL CONTRARIO – IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON (regia F. Ceriani)

La mimetica interpretazione data da Giorgio Lupano a La vita al contrario - Il curioso caso di Benjamin Button con elaborazione di Pino Tierno dal racconto di Francis Scott Fitzgerald del 1922, con regia di Ferdinando Ceriani, spettacolo visto al Teatro Manzoni, conduce a un’etimologia culturale accuratissima: in tema di invecchiamenti precoci (le sindromi progeroidi) per ammissione dell’autore ci furono spunti di Mark Twain e Samuel Butler (anche una derivazione poetica da Giulio Gianelli), e fa la sua parte il film del 2008. È merito però dell’attore protagonista, e di chi ha concorso all’impresa, se ora uno spettacolo può vantare d’avere precedenti non comuni e illustri. Lupano si presenta come uomo con la valigia (che contiene memorie), e racconta come è nato con un corpo di ottantenne, percorrendo l’esistenza con un’anagrafe alla rovescia, fino a scomparire con un corpo da neonato e con una testa affaticata mentre tutto gli svanisce intorno nel buio di un ‘adesso’ impalpabile. Non ho mai visto un artista così impegnato a sintetizzare (in controtendenza) l’arco di una parabola umana. In un contesto, da noi, che va dall’Unità agli anni 60, acquisendo l’identità di Nino Cotone. Il suo passato di bebè impressionante lo deduce dalle narrazioni (stupefatte) paterne, quando, gestendo la parola da subito, domanda al genitore un bastone e gli occhiali, e preferisce un sigaro ai sonaglini. Crescendo deve respingere le maldicenze sulla sua mostruosità, poi, lentamente ringiovanendo, la sua maturità esteriore pareggia l’età della testa, incontra la donna della sua vita (che invecchierà prima di lui), e ha un figlio - poi delegato al suo posto nell’azienda ‘Cotone & figlio’ - che finirà per vergognarsi d’avere un padre bambino. Incontrerà ragazze fru fru (accanto alle altre voci di lui, ci sono i molti ruoli delle lei ad opera di Greta Arditi), s’imbatterà in due guerre dove non manca la voce di Mussolini, con lapsus militare, e con destino che lo infantilizza sempre più. La performance di Lupano, molto ben guidato dalla regia di Ceriani, è davvero naturale, civile, volubile, ed è un serio piacere seguirlo in un transfer/transfert da una stazione all’altra degli anni (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Teatro Mercadante: La vita al contrario - Il curioso caso di Benjamin Button” di Francis Scott Fitzgerald elaborazione teatrale di Pino Tierno con Giorgio Lupano e Greta Arditi regia di Ferdinando Ceriani ideazione scenica di Lorenzo Cutuli colonna sonora di Giovanna Famulari e Riccardo Eberspacher costumi di Laura dè Navasque/costumEpoque Produzione ArtistiAssociati-Centro di produzione teatrale

LA SERRA-MORTE (di S. Guaragna regia di D. Folliero e M. Spampinato)

Le attrici Benedetta Margheriti e Veronica Toscanelli sono le ideatrici e curatrici di Locus Amoenus la rassegna dedicata alle giovani generazioni che, con tre spettacoli da febbraio a maggio, all’interno del Teatro di Villa Pamphilj si fa luogo per immaginare altri luoghi, presentando tre scritture teatrali diverse in cui si concretizza scenicamente la tensione a ripensare lo stato della realtà che ci circonda. La natura abbandonata, inquinata o sintetizzata dagli esseri umani è l’habitat attorno al quale testiamo la nostra capacità di sopravvivenza e, nel secondo appuntamento in cartellone, con lo spettacolo La serra-morte, abbiamo fatto esperienza del costo, fatalmente ineluttabile e ingente, della permanenza sul pianeta Terra. Il testo di Guaragna è complesso, stratificato, a tratti ridondante ma pur sempre maniacalmente strutturato in una successione e giustapposizione di piani che intersecano il “luogo” dei vivi - il palcoscenico abitato dal chimico Bondo (Simone Guaragna) e un gruppo di ragazze (Alice Lepidio, Ilaria Pietrangeli) e ragazzi (Lorenzo Berardinucci, Pietro Formentini) – con quello dei morti, la platea. Sarà proprio il marchingegno della serra-morte, che trasforma i gas serra in emissioni non inquinanti, inventato dal “disperso nel tempo” Bondo, ad offrire alle future generazioni, quindi ai protagonisti, una speranza al presente distopico di una megalopoli deserta. La drammaturgia avrebbe bisogno di ulteriori alleggerimenti formali poiché nella necessità di dover spiegare la storia, rispettando i diversi tempi del racconto, il testo rischia di allontanarsi dal contenuto della tematica socio ambientale e il come lo dice - attraverso giochi, canzoni, monologhi, ricordi - scorre parallelo diventando più ingombrante del cosa. La cura scenica e interpretativa, tanto registica che attoriale, la ricchezza dei movimenti, l’eclettismo del linguaggio e il susseguirsi rocambolesco delle scene dimostrano tuttavia una consapevolezza teatrale che merita di essere affinata e valorizzata. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Villa Pamphilj dutante la rassegna Locus Amoenus: regia Daphne Folliero e Martina Spampinato, con Lorenzo Berardinucci, Pietro Formentini, Simone Guaragna, una produzione di Compagnia Fang-ta

BIANCO (di G.Tantillo)

Bianco per il testo e la regia di Giuseppe Tantillo - Segnalazione Speciale al Premio Riccione per il Teatro 2013 con Best Friend – in scena insieme a Valentina Carli, è una storia di malattia e di amore che fa ridere innanzitutto, perché nella scrittura - sia drammaturgica che scenica - si impegna a trattare uno dei temi più diffusi purtroppo ma anche più ostici, senza patetismo e ad avvicinarci ad esso nonostante empaticamente vorremmo allontanarcene. Tantillo e Carli, proprio quando si soffermano sugli aspetti più crudeli, innescano un meccanismo comico tragico di reazione per il quale ci accompagnano con discrezione, tenacia, caparbietà nella sala d’attesa del reparto di oncologia a conoscere Mia e Lucio, entrambi malati. Lei schietta, teneramente cinica, quando ne ha bisogno aggressiva, lui più spaventato, inconsapevole, in fondo ottimista. Jeans e maglietta e camicia bianca, sneakers ai piedi, borsa e poi zainetto, senza orpelli, casualmente semplici. La scenografia (Antonio Panzuto) è fatta con bozzetti proiettati dai colori tenui e dai tratti naif, che non vogliono interferire coi dialoghi ma solo tratteggiare poeticamente sullo sfondo il contesto: una sala d’attesa, la stanza dell’ospedale, il tempio di Angkor Wat in Cambogia…La scrittura, solo in alcuni quadri, sembra involvere su se stessa affaticando un po’ il ritmo (soprattutto nella parte che segue quella del viaggio) ciononostante Bianco è uno spettacolo con interpreti sensibili e arrabbiati, che buca il velo della solitudine di tante e tanti, che fa passare la luce dove è sceso il buio, quando ci si sente unici nella sofferenza e proprio quell’unicità la mette in collegamento con altre simili, abolendo lo stigma, celebrando la paura, rivendicando l’importanza di vivere l’attesa del domani abbracciando, e amando, l’incognita del futuro. (Lucia Medri) Visto al Teatro Belli durante la rassegna Expo – Teatro Italiano Contemporaneo: Con Valentina Carli e Giuseppe Tantillo, Scenografia Antonio Panzuto, Costumi Alessandro Lai, Assistente alla regia Andrea Console, Produzione Binario Vivo Teatro Nuovo / Accademia perduta Romagna teatri / Teatri molisani, Un progetto Bestfriend teatro

NIKITA (di Francesca Sarteanesi)

Le due sorelline da spostare all’ossario, che le permette di ricordare com’erano: vestite uguali, coi denti in orizzontale, inadatte a stare al mondo. Il buzzurro che la porta al casinò di Venezia e l’incontro con Julio Iglesias: il gioco di sguardi, la fuitina, il fazzoletto col profumo lasciato tra i seni per cadeau. «Io così in alto quella sera, dove pochissimi possono arrivare». La ruota panoramica, che «era il massimo tra le giostre»: punto di vista alternativo, momento di poesia che nessuno cerca più. I pesci rossi che ha nella boccia e che, nonostante gli abbia tolto il cibo e la torretta con la quale giocavano, «si ostinano a non morire», l’idiozia del marito, i ninnoli della credenza e questa «noia inconcepibile» cui accenna tra uno schiocco di bocca e un tiro al cocktail con la cannuccia. La Nikita di Francesca Sarteanesi parla, parla, parla, camicia colorata, posa da snob, ogni tanto gli occhiali da sole, mentre Nadia (Alessia Spinelli) ascolta e le fa la pedicure. Già, ma che dice? Presentata avara in brochure (si lava a pezzi per risparmiare l’acqua; «non sa condividere neanche una bottiglia di rosso della casa» leggo al Florida) mi pare una creatura fragile, che rimpinza il tempo di chiacchiere perché col silenzio riemergerebbero fallimenti e sconfitte. La giostra volgare che ora gestisce al luna park; la solitudine che le piomba addosso se tace. Narra dunque, o forse abbellisce ed inventa, seduta dietro un parapetto glitterato (addobbo d’effetto, pura apparenza), con Nadia piazzata a una distanza inverosimile (la lontananza a cui tiene la realtà). Tra musiche e avvisi da parco giochi e luci colorate che toccano la platea; infilzando i racconti coi ritornelli di canzoni infantili, la replica identica di frasi e di gesti, indovinelli senza risposta. E quando la dirimpettaia infine le parla, scaraventandole contro la miseria delle cose, Nikita spezza il dialogo dicendo come ha ucciso un tafano. Finché ci si mente insomma – e ti prego, reggimi il gioco – c’è ancora la possibilità di salvarsi. (Alessandro Toppi)

Visto al Cantiere Florida. Crediti: con Francesca Sarteanesi e Alessia Spinelli, drammaturgia e ideazione Francesca Sarteanesi e Tommaso Cheli, regia Francesca Sarteanesi, costumi Rebecca Ihle, scenografia Rbecca Ihle e Lorenzo Cianchi, disegno luci Marco Santambrogio. sonorizzazioni Francesco Baldi, produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione e Teatro Metastasio di Prato, con il sostegno di Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale

CRISI DI NERVI (regia di Peter Stein)

Appartenenti al periodo di sperimentazione con il genere francese del vaudeville dopo l’insuccesso delle prime opere, i tre atti unici di Cechov presentati al teatro Ivo Chiesa per la regia di Peter Stein con il titolo Crisi di nervi hanno riscosso un grande successo. Il filo conduttore è, appunto, la nevrosi, che coglie indistintamente i vari personaggi manifestandosi nei modi più disparati: dalla furia cieca dell’Orso, al terrore frustrato del professore, al confronto isterico tra i due promessi sposi. Ne L’orso, una Maddalena Crippa vestita a lutto in un salotto elegante con sedie a sufficienza per accogliere ospiti che non verranno mai invitati, piange in solitudine la morte del marito fedifrago, salvo poi innamorarsi dello scorbutico ex ufficiale (Alessandro Sampaoli) che ha fatto irruzione nelle sue stanze per reclamare il pagamento di un debito. Al professore (Gianluigi Fogacci) de I danni del tabacco viene chiesto di sostenere una lezione sull’argomento, come segnala la scritta sulla lavagna, nonostante sia un accanito sniffatore. Emerge gradualmente un quadro di soprusi e abusi ad opera della dispotica moglie, che lo sfrutta e lo deride. La conferenza diventa così un pretesto per poter dar sfogo, in totale libertà, alla sua rabbia repressa. Il terzo e ultimo quadro, La domanda di matrimonio ha scatenato le maggiori risate, scaturite dal battibecco continuo tra il timido e nevrotico Ivan (Alessandro Averone), che soffre di tic e scompensi cardiaci, e la figlia del vicino (Emilia Scatigno), fiera e ostinata. È la figura del padre Stepan (Sergio Basile) a far da mediatore alla caparbietà dei due giovani, dichiarando appena cominciata la felicità coniugale. Con lo stesso cast dell’acclamato Il compleanno di Harold Pinter, andato in scena lo scorso anno, è portata in scena la comicità sottile della penna di Cechov, che mette in primo piano l’irrazionalità e la perdita di controllo. La spinta delle passioni estreme riacquisisce nuovo vigore, legittimandole e, al tempo stesso, disinnescandole: di fronte alla nostra stessa fragilità emotiva, a volte, non ci resta che ridere. (Letizia Chiarlone)

Teatro Nazionale di Genova: Crediti Produzione Tieffe Teatro, Quirino srl Adattamento Peter Stein e Carlo Bellamio Regia Peter Stein Interpreti L’orso: Maddalena Crippa, Sergio Basile, Alessandro Sampaoli I danni del tabacco: Gianluigi Fogacci La domanda di matrimonio: Alessandro Averone, Sergio Basile, Emilia Scatigno Scene Ferdinand Woegerbauer Costumi Anna Maria Heinreich Luci Andrea Violato Assistente alla regia Carlo Bellamio

COHORS (di Camilla Monga e Valentina Fin)

Ogni volta mi sorprende piacevolmente il sobrio eclettismo e l’austera bellezza motoria di Camilla Monga, sempre più spesso connessa per i suoi processi compositivi a musicisti, polistrumentisti, ora anche cantanti. Alla ricerca, non di rado inquieta, e in trasparenza umbratile, di una armonia possibile capace anche di scombinare, per spazî improvvisi, l’ordine del tempo con una preghiera, una voce, una gestualità diafonica (nella sua accezione musicale: ossia disgiunta, affinché sia più ampia la sua ricezione). A Vicenza, per il festival Danza in Rete Off, è stata la volta di Cohors, una «narrazione sonora» realizzata insieme alla cantante e compositrice Valentina Fin. In scena con Monga anche il danzatore Francesco Valli, e con Fin altri due musicisti: Manuel Caliumi (sax) e Marcello Abate (chitarra elettrica). Sullo sfondo di una sala di Palazzo Chiericati, circondata da una quadreria prevalentemente barocca, vi è un telo bianco nel mezzo dello spazio, a forte contrasto e rottura, come per richiamare un’idea di scena effimera, nomade, estemporanea (come una tenda di zingari accampata nel deserto). Dietro questo schermo si alternano silhouette di ombre, forse a contrasto coi corpi in alto dipinti. Un lenzuolo di luce che ospita confusioni cinetiche e giochi di forme: sono macchie che sembrano lacrime giganti o perle fuori formato, come da un viaggio di Gulliver. La più vera magia sono i brani eseguiti di musica antica (da Monteverdi a Purcell) che sbalzano dalla sala tra esoteriche sonorità elettriche e vibrazioni legnose degli arrangiamenti. E il canto, che spiana la strada a un sentire comune, condiviso. Fra le ombre della notte e i contorni del giorno. Sarà stato un indotto site-specific (come una tenda di zingari piantata al Louvre), in attesa di un compimento più teatrale, più meditato-studiato-preparato, epperò tanta istantanea e spasmodica bellezza dice la verità sul Barocco come «una cultura in sospensione imperfetta»: così insegnava Marzio Pieri, per scritture infinite che si squagliano e calchi di santi appestati «sotto teca — l’idea della puzza a maggior gloria di Dio e confusione del peccatore a boccaperta». È questa la meraviglia. (Stefano Tomassini)

Visto a Palazzo Chiericati per Danza in Rete Off progetto di Camilla Monga e Valentina Fin coreografia e allestimento scenico Camilla Monga interpreti Camilla Monga e Francesco Valli musica live di Valentina Fin (voce) Manuel Caliumi (sax) Marcello Abate (chitarra elettrica) produzione Nexus Factory

ETUDE 6 ON CROWD (di Gisele Vienne)

Una pulsazione ritmica, distante, emerge e si intensifica nell’ombra e anticipa l'ingresso di una luce fredda, intermittente, che squarcia il vuoto abitato da una macchina collocata in una posizione marginale del palco. Dai vetri della vettura intravediamo due giovani figure, nei corpi “nervosi” di Sophie Demeyer e Theo Livesey: non più una folla come nei lavori precedenti, ma i suoi residui oggettuali, i suoi “scarti”. Si tratta di un ripensamento sostanziale che Gisèle Vienne attua a partire da Crowd (2017) per ripensare ancora una volta il linguaggio del rave, scomponendone però la grammatica attraverso una riduzione al grado zero della sua sintassi coreografica. L’azzeramento, tuttavia, non annulla la ricerca performativa dei corpi o la presenza scenica degli oggetti – rifiuti abbandonati che si susseguono come ablazione di una vita altra – anzi esso permette l’irretire di tutti gli elementi fantasmali che contaminano l’universo della coreografa e regista franco-austriaca, restituendo altresì un complesso sostrato malinconico di mancanza, un bisogno viscerale di riempimento, di appartenenza. Se i movimenti collettivi non esistono più, allora non rimane che l’ossessione dell’io, l’incubo, l’abbandono. È qui che si intreccia la narrazione coreografica dei due performer in scena, fatta di fratture, accelerazioni improvvise e sospensioni irreali, acutizzata da sonorità techno roboanti: un rituale privato che mette in scena l'eco infestante di un rito collettivo, dove la temporalità si dilata e si contrae mentre la sua percezione sensibile si deforma. Anche le luci di Iannis Japiot amplificano queste fratture: ombre lunghe tagliano lo spazio, le silhouette emergono per poi dissolversi, in un gioco visivo che rifrange il senso stesso della presenza. Lo smarrimento, nella visione di Vienne, si costruisce così come condizione necessaria al riconoscimento, un esercizio di percezione che scava la presenza nell’assenza, che plasma e trasforma non più solo la collettività ma anche l’individuo. (Andrea Gardenghi)

Visto alla Triennale di Milano. Crediti: concezione e coreografia Gisèle Vienne, con Sophie Demeyer, Theo Livesey, musica Underground Resistance, KTL, Vapour Space, DJ Rolando, Drexciya, The Martian, Choice, Jeff Mills, Peter Rehberg, Manuel Göttsching, Sun Electric e Global Communication, suono Adrien Michel, luci Iannis Japiot, produzione e tournée Alma Office - Camille Queval e Anne-Lise Gobin, produzione DACM, Compagnie Gisèle Vienne

ULTIMI ARTICOLI

Prospero | Aprile 2025

PROSPERO | Aprile 2025 La rivoluzione artistica di Francesco. Un teatro che non è stato e forse sarà, di Antonio Attisani, Cronopio (2025) La distribuzione degli...