Cordelia - le Recensioni

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FEDRA (di Jean Racine, regia Federico Tiezzi)

Scritta nel 1677, Fedra di Jean Racine è la tragedia del desiderio impossibile, della nefandezza dell’inconscio, dove la sintassi si fa sempre più inquieta, intrisa di colpa e vergogna. Nello sviscerare la passione erotica di una donna non corrisposta, Racine guarda però alla radice classica, a Euripide e a Seneca, anche se la sua è una tragedia tutta interiore, di cui Federico Tiezzi - con la traduzione di Giovanni Raboni – decide di intercettare e dilatare l’eco psicoanalitico, da Freud a Lacan: si tratta di «un testo di confessioni, ogni personaggio confida a un altro qualcosa che non può esser detto». La scena, cofirmata dallo stesso regista, ricostruisce questa complessa e tortuosa architettura mentale e “confessionale” assumendo un carattere metafisico, sia dominato dal nero abissale che i personaggi abitano sia solcato da tagli di luce fredda, talvolta interrotti da atmosfere magenta che pulsano sanguinose nel dramma. Anche il contrasto tra la radice mitica della vicenda e l’estetica contemporanea – con busti grechi e un quadro di Guido Reni sullo sfondo minimalista – produce un’astrazione segnica conturbante, di straniamento e caos. Di questo linguaggio scenico pulsante, non intravediamo tuttavia un coerente corrispettivo interpretativo, che sia in grado di restituire quella densità letteraria raciniana: come già accaduto nell’ Antigone, i personaggi non modulano complessivamente le sfumature del tragico. Fedra, nella febbrile performance di Elena Ghiaurov, sprigiona fin dal principio solo l’acume del climax tragico, inghiottendo di acuti tutta la scena, mentre l’inquieto Ippolito e la torva Enone, o lo ieratico Teseo, cercano di controbilanciarne l’intensità con un pathos più distaccato, che riesce ad essere esclusivamente cornice marginale rispetto alla tragicità della figura femminile e non ciò che invece la informa. Dilaniato dall’amore impossibile per il figliastro Ippolito, il corpo della donna grida come simbolo di una colpa viscerale che la porterà alla morte. Qui la tragedia collassa nel nero monotono del personaggio, lasciando irrisolto il significato della parola incarnata, tra suono, senso e sua necessaria trasmissione. (Andrea Gardenghi)

Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Crediti: di Jean Racine, traduzione Giovanni Raboni, regia Federico Tiezzi, con Catherine Bertoni de Laet, Martino D'Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro, scena Franco Raggi, Gregorio Zurla e Federico Tiezzi, costumi Giovanna Buzzi, luci Gianni Pollini, canto Francesca Della Monica, movimenti coreografici Cristiana Morganti, regista assistente Giovanni Scandella, costumista assistente Lisa Rufini, scenografa assistente Erika Baffico, produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale, Compagnia Lombardi-Tiezzi

COMMANDER (di Farm in the Cave )

Farm in the Cave è una formazione proveniente dalla Repubblica Ceca sempre alla ricerca di un dialogo tra i diversi linguaggi. Nel caso dello spettacolo del 2022 portato allo Spazio Rossellini grazie ad Orbita e Atcl (secondo di un dittico dedicato a Farm in the cave) il Commander del titolo è il nickname del leader della Feuerkrieg Division, un gruppo neonazista che ha operato in Estonia tra il 2018 e il 2020. Fino a qui non ci sarebbe nulla per cui sgranare gli occhi, i collettivi neonazisti sono purtroppo una realtà europea, solo che in questo caso si trattava di un'organizzazione dedita a fare proselitismo online tra i giovanissimi e il suo leader, Commander, aveva appena 13 anni. Ecco allora che mentre il pubblico si siede nella platea del Rossellini, nello schermo sistemato su un parallelepipedo che incombe sulla scena in loop viene proiettato un video in cui bambini con camicia bianca e cravatta giocano ad acchiapparella: pelle bianchissima, biondi, in salute e sorridenti. Eppure qualcosa di inquietante affiora nei loro sguardi e in quelle divise da perfetto "ariano". Come d'altronde sarà inquietante anche il video successivo, nel quale si vede la camera del ragazzo: un joypad penzola dalla scrivania, c’è un acquario; oppure la scena - sempre proiettata - in cui i ragazzini parlano come adulti di argomenti come sesso e morte mentre mangiano un gelato. La partitura fisica e musicale è potentissima, imita azioni di guerra, combattimenti, fino al grottesco parossismo, alternando soli a coreografie di gruppo, la ricerca è sul gesto, sulla violenza e sulla relazione con la musica dal vivo e il tessuto rumoristico. Una performance totale e sbalorditiva quella diretta da Viliam Dočolomanský (e che è parte di un progetto più ampio sul tema, il quale comprende anche uno sviluppo educativo fatto di video e workshop) che però nulla ha a che vedere con il teatro documentario: costringe lo spettatore a scavare in questa storia (anche successivamente alla visione), a ricercarla nella foresta di immagini e rimandi che compongono la drammaturgia di scena - come per le centinaia di coni che cadono verso la fine alludendo a quei gelati mangiati dai ragazzini-; in un continuo travaso tra performance live e video. (Andrea Pocosgnich)

Visto allo Spazio Rossellini Concept, regia e coreografia: Viliam Dočolomanský Drammaturgia: Sodja Lotker, Markéta Hrehorová Musiche: Štěpán Janoušek Video: Erik Bartoš, Sláva Pecháček, Karel Šindelář Light Design: Felice Ross Sound Design: Eva Svobodová Con: Andrej Štepita, Gioele Coccia, Nicolas Garsaults, Barbora Ješutová, Matuš Szegho, Hana Vara-dzinová, Štěpán Janoušek, Šimon Janák

LEIBNIZ. UNO SPETTACOLO BAROCCO (di Irene Serini)

«Usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi»: questa era la “regola universalissima” a cui Baldassarre di Castiglione riportava “tutte le cose umane”, e in particolare quelle nelle corti italiane all’alba del Barocco: in questa età di infingimento, il suo Cortegiano diventò un manuale di noncuranza per maschere sociali. Viene in mente appena entrati al Teatro della Cooperativa per assistere a LEIBNIZ. Uno spettacolo barocco, quando le rimembranze accademiche del filosofo secentesco – la monade, il migliore dei mondi possibili – si stemperano nel palco rialzato di parrocchiale memoria, sopra cui Serini, Paris e Balestrieri abbozzano movenze da quadriglia in cascanti costumi rosa carne. E all’ombra della sprezzatura si sviluppa anche la prima parte di LEIBNIZ, suddivisa in quadri che illuminano con arguzia parossistica la smania della civiltà occidentale di misurare e controllare la realtà, insieme a strutturali contraddizioni di cui Gottfried Wilhelm Leibniz rappresenta la sintesi, con il suo frustrato tentativo di ridurre il molteplice all’uno. Gradualmente lo spettacolo si raggruma attorno alla sua figura ed è come se perdesse quell’impudenza da giamburrasca che il sorriso svagato di Serini e lo sguardo aristocratico di Paris gli avevano trasmesso. Le parole che indagano il tormento del pensatore, le consolazioni di Sofia del Palatinato, sua interlocutrice, le esaltazioni liriche declamate a lume di cellulare sembrano emergere da un saggio di psicologia o da un libro di frammenti lirici: suggestive, ma letterarie, irrigidiscono la scena e il contegno delle interpreti. L’apparizione di Balestrieri nelle vesti di Filosofia o il guizzo di Hey dottore dei Prozac+ sono come due mani di bianco su un graffito: non stridono né dissimulano, al massimo confondono. Al netto del suo progressivo appesantimento, la prima produzione con le anime di Z.I.A. al completo dimostra coraggio e suggerisce spunti laddove difficilmente si va a cercare. (Matteo Valentini)

Visto al teatro della Coperativa ideazione Eleonora Paris e Irene Serini regia Irene Serini drammaturgia Eleonora Paris con Alessandro Balestrieri, Eleonora Paris, Irene Serini direzione tecnica Alessandro Balestrieri video e suono Andrea Centonza assistenza alla regia Francesca Repetti sguardo esterno Virginia Landi consulenza filosofica Raffaella Colombo produzione Teatro della Caduta e Z.I.A. – Zona Indipendente Artistica con il sostegno di IfPrana e Qui e Ora residenze teatrali

STABAT MATER (di Liv Ferracchiati)

Presentato per la prima volta alla Biennale Teatro 2017, Stabat Mater è il secondo capitolo della Trilogia sull’identità della compagnia The Baby Walk, che torna in una forma rinnovata. L’opera vede in scena lo stesso autore, Liv Ferracchiati, nei panni di Andrea, uno scrittore incapace di crescere e assumersi le sue responsabilità, soffocato dal rapporto ombelicale con la madre (Francesca Gatto). Il protagonista è un uomo nel corpo di una donna, con i conseguenti disagi dovuti al trovarsi intrappolato in un’identità di genere che non gli appartiene. Disagi e insicurezze che non solo si ripercuotono sul rapporto con sé stesso, ma anche sulle relazioni esterne che intrattiene, in particolare quella con la fidanzata (Livia Rossi). Sulla scena, sviluppata su più piani tramite un sistema di impalcature, incombe soffocante la figura della madre, una evocazione che “sta”, come Maria ai piedi della croce, e la cui immagine è proiettata, tramite una videocamera, sullo schermo bianco sospeso sopra la scenografia. Da quella prospettiva, osserva tutto, occhio onnipresente e ammorbante sulla vita del figlio, eppure incapace di comprenderlo. Intanto, mentre il rapporto con la fidanzata si deteriora per l’incapacità dell’uomo di prendere posizione e agire, il protagonista si riscopre attratto dalla sua psicologa (Chiara Leoncini), una donna già sposata e con un figlio. Le entrate e le uscite si sovrappongono in un meccanismo ben oliato, alternando sbalzi temporali tra una scena e l’altra. Un collage di memorie ruota intorno a quello che è il fulcro della vicenda: il rapporto con la figura materna e il processo di autodeterminazione della propria identità. Seguiamo il protagonista nei momenti altalenanti che compongono questo percorso, fino alla battuta finale: “Mamma, vuoi sentirtelo dire?”, in merito al suo coming out come persona transgender. La messinscena termina così, con una domanda di cui non sapremo mai la risposta, ma che si spera porti a una risoluzione positiva, verso la recisione di quel cordone che stringe e soffoca. (Letizia Chiarlone)

Visto alla Sala Mercato Produzione Teatro Nazionale di Genova, Centro Teatrale MaMiMò, Marche Teatro, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale Regia Liv Ferracchiati Interpreti Liv Ferracchiati, Francesca Gatto, Chiara Leoncini, Livia Rossi Scene Giuseppe Stellato Costumi Laura Dondi Luci Emiliano Austeri Suono Spallarossa Aiuto regia Piera Mungiguerra

ODISSEA MINORE (Nicola Di Chio, Miriam Selima Fieno)

Cos’è una rotta. Il tentativo di ordinare il caos dei punti cardinali, compiere una scelta definita di una tra le infinite direzioni. Ma una rotta inversa compie un viaggio d’altri, già compiuto, a cercare le tracce di altri viaggi con motivazioni molteplici e diverse. È questa l’intenzione di Nicola Di Chio e Miriam Selima Fieno per questo Odissea Minore, al debutto al Teatro Fabbricone di Prato: indagare i segnali lasciati lungo il cammino dai migranti della rotta balcanica, attraverso una ricerca a ritroso che possa indagare, al contempo, anche i residui della resistenza incisa nei nostri occhi d’occidente dalle immagini riportate, dalle notizie artificiali che poco conservano dell’esperienza diretta. C’è una mappa politica d’Europa alle loro spalle, là dove uno schermo proietta le immagini documentarie del viaggio, mentre uno schermo più piccolo riproduce immagini create dai modellini sul tavolo a centro scena, in presa diretta. Il racconto vocale esplicita le immagini in video, ne costituisce apparato retorico perché se ne colga ogni aspetto; la recitazione è piegata alla resa delle immagini, costituendo dunque spesso un commento in bilico tra il coinvolgimento e il distacco. C’è in questo spettacolo un lavoro preparatorio di enorme portata: due artisti decidono di farsi carico, non tanto da artisti ma da esseri umani, di una storia che vanno poi a vivere sul campo, quello che è un progetto diventa infine vita; ma c’è anche il suo effetto opposto: il carattere documentario – non aiutato dall’impianto musicale di Pino Pecorelli che ha funzione prettamente didascalica – non permette di identificare delle scelte drammaturgiche ben definite, un obiettivo concreto oltre la presentazione del materiale, dunque infine un elemento poetico che lo metta in discussione; le storie migranti restano sullo sfondo – e questa è dichiarata come una scelta – appaiono appena nascoste in questa evocazione della storia rimossa, attraverso immagini di edifici demoliti, luoghi simbolo dove un campo profughi è stato riqualificato come complesso residenziale. Ma, sorge una domanda, cosa sarebbe dovuto diventare? C’è bisogno di una archeologia del rimosso o che quel rimosso proprio non esista? Solo in coda allo spettacolo, ad aprire un ulteriore spunto di riflessione in ciò che chiamiamo oggi teatro documentario, emerge dalla loro voce il dubbio che l’esperienza, essa sola, non basti a dirsi teatro. Quel dubbio scivola via in poco più che un accenno, ma proprio quel dubbio è, profondamente, il teatro. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Fabbricone. Crediti: ideazione Nicola Di Chio, Christian Elia, Miriam Selima Fieno; regia Fieno Di Chio; con Nicola Di Chio, Miriam Selima Fieno; con le lettere di Abdo Al Naseef Alnoeme; drammaturgia Christian Elia, Miriam Selima Fieno; regia documentaria, riprese e video; editing Cecilia Fasciani; musiche originali Pino Pecorelli; scenografia virtuale e disegno luci Maria Elena Fusacchia; produzione Teatro Metastasio di Prato

L’EMPIREO (di L. Kirkwood, regia S. Sinigaglia)

È una mattina del marzo 1759, in Inghilterra, quando la levatrice Elizabeth Luke, intenta a lavare i panni, viene distolta dalla sua mansione per recarsi in tribunale, insieme ad altre undici matrone, a giudicare un caso di estrema importanza: Sally Poppy è stata accusata dell’omicidio di una ragazzina, ma, dichiarando di essere incinta, sembrerebbe nella posizione di scampare alla forca, diversamente dal suo compagno. Il consiglio di matrone sarà nella posizione di decidere se Sally stia raccontando la verità o meno. È sulla base di queste premesse che ha inizio L’Empireo (The Welkin) di Lucy Kirkwood, su traduzione di Monica Capuani e Francesco Bianchi, per la regia di Serena Sinigaglia.  Le donne sono già tutte presenti in scena dall’inizio dello spettacolo, disposte in corrispondenza di sedie color pece, sotto un cono di luce fredda che tanto ricorda la stanza dell’interrogatorio. Le azioni sono evocate, ed è lasciata prettamente all’immaginazione dello spettatore la possibilità di colmare quanto manca sulla scena essenziale, dove sono i fatti a parlare nella loro densità. Assume inizialmente le forme di una lettura teatrale corale dove le donne, fogli alla mano, leggono le proprie battute, salvo poi abbandonare gradualmente i copioni.  L’effettivo stato di gravidanza di Sally viene comprovato, ma le donne raggiungono un accordo solo quando è confermato da un dottore. L’autorità della levatrice, il suo sapere pratico e innato, la sua stessa parola, viene così messa in discussione dalla scienza: la conoscenza del corpo femminile e dei meccanismi che lo animano viene sottratta dall’area di competenza delle stesse portatrici, che vengono così spodestate dal loro ruolo di donne e madri.  Sally sembrerebbe salva dalla forca, ma la ragazza perde il bambino. E così, mentre guarda atterrita il mare di gente al di sotto delle aule del tribunale che invoca la sua morte, viene risparmiata da Elizabeth che, dolcemente, come una madre che culla un bambino per farlo addormentare, stringe un cappio intorno al suo collo.  È nella pietà di una madre che si trova compassione e, a volte, una possibilità di salvezza. (Letizia Chiarlone)

Visto al Teatro Gustavo Modena Produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Carcano, Teatro Stabile di Bolzano, LAC – Lugano Arte Cultura, Teatro Bellini di Napoli Traduzione Monica Capuani e Francesco Bianchi Dramaturg Monica Capuani RegiaSerena Sinigaglia Interpreti Giulia Agosta, Alvise Camozzi, Matilde Facheris, Viola Marietti, Francesca Muscatello, Marika Pensa, Valeria Perdonò, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Chiara Stoppa, Anahì Traversi, Arianna Verzeletti, Virginia Zini, Sandra Zoccolan Consulenza allo spazio scenico aria Spazzi Costumi Martina Ciccarelli Disegno luci Christian LaFace Sound design Sandra Zoccolan

CHARLIE GORDON (Teatro Medico Ipnotico/Teatro Caverna)

Dico una banalità che per molti sarà tale, ma per molti altri invece sarà una scoperta: Patrizio Dall’Argine è un maestro indiscusso dell’arte dei burattinai, con il suo Teatro Medico Ipnotico ha dato vita a opere di una rara profondità, attraverso uno stile raffinato che mai si è fatto contorto, ricevendo l’apprezzamento di un ambiente raccolto come quello del teatro per le nuove generazioni (e certo l’intero mondo del teatro di figura) ma restando pressoché sconosciuto al “grande” teatro degli adulti, talvolta frettolosi nel rubricare certe esperienze artistiche come “roba per bambini”, quindi per questo meno interessanti quando quei bambini fossero, in apparenza, cresciuti. Eppure, quella definizione sarebbe salvifica per chi dai bambini riceverebbe una logica imprevista, perduta proprio dagli anni dell’infanzia in una mente adulta. Tale è la riflessione che coglie alla visione di questo Charlie Gordon, spettacolo realizzato insieme al Teatro Caverna e tratto dal racconto Fiori per Algernon di Daniel Keyes, con i costumi di Veronica Ambrosini, in scena al Teatro Torlonia per l’edizione 2025 di Contemporaneo Futuro. La struttura classica della baracca dei burattini, posta al centro della scena e abitata dallo stesso Dall’Argine, è l’occasione per una storia senza tempo che tuttavia a questo tempo nostro rimanda: in un mondo dominato dal denaro e dalla produttività dell’essere umano, non c’è posto per gli stupidi, così che uno scienziato ha messo a punto un esperimento per togliere la stupidità, convertendo all’intelligenza l’intera umanità. Ma sarà possibile far diventare tutti uguali? O non sono forse le differenze che rendono ciascuno speciale, anche se sembra fare poco per la produttività capitalista? Questa domanda, che potrebbe emergere (si spera...) dai discorsi dei grandi, si scorge dal palco rivolta a questi bambini dai 6 anni in su, come dichiarato, sviluppata in una storia esemplare e delicata di bontà e amicizia che rende chiara l’intenzione proprio a tutti e, con sorpresa, anche agli adulti. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Torlonia. Crediti: autore e burattinaio Patrizio Dall’Argine; costumi Veronica Ambrosini; produzione Teatro Medico Ipnotico/Teatro Caverna

MEMORIE DEL SOTTOSUOLO (di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa)

Quando si pronuncia il nome di questo gruppo – Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa – già se ne intuisce l’originalità che li ha condotti a ideare nel tempo spettacoli complessi e di rara consistenza filosofica. Questa volta la creatività di Marco Isidori e la visionarietà di Daniela Dal Cin, che hanno fondato a Torino la compagnia nel 1986, si misura con il magma urlante in cui Fëdor Dostoevskij ha concepito le Memorie del sottosuolo, racconto in due parti scritto nel 1864 che dichiarava l’urgenza di contrastare il positivismo dal margine estremo della profonda abiezione umana. Siamo prima di tutto in uno spazio ibrido, dedicato al rapporto tra arte e neuroscienze, che risponde al nome di Numero Cromatico, uno spazio di creatività giovane che si ritrova in sala con un entusiasmo per ciò che vedrà imprevisto, positivamente sorprendente. A dispetto di chi sragiona sulla plumbea insensibilità della gioventù contemporanea. Sulla scena è, solo, Paolo Oricco, attore storico della compagnia che con prova magistrale incarna un personaggio di cui si ignora il nome, ma nel cui monologo si rintraccia una forza dirompente capace di scardinare le sovrastrutture di un’esistenza preordinata, compiuta. Cosa c’è di compiuto in una vita che compiuta non è? Oricco è in primo piano, sullo sfondo è invece un’opera pittorica che Dal Cin ha realizzato in omaggio all’affresco del Trionfo della Morte, conservato nel Palazzo Abatellis di Palermo da metà del Quattrocento e ad oggi di autore ignoto; l’opera ricava dall’originale l’intenzione di rappresentare l’umanità stravolta dalla morte, ma allo stesso tempo Dal Cin ne attualizza le figure, come a voler dire che la morte non conosce tempo, ma si tende su ogni epoca con identica indifferenza. La regia di Isidori è vitale e crudele, impone il corpo di Oricco e lo rende allo stesso tempo fragile e inviolabile: fragile nell’impalpabilità della parola, inviolabile nella solidità con cui occupa lo spazio, con cui dunque di quella fragilità si fa carico; nella parola scava fino a renderla puro suono, ne lima i contorni a delimitare il vuoto, la risonanza di quel suono oltre il fonema, oltre il senso. (Simone Nebbia)

Visto a Numero Cromatico. Crediti: una messa in scena di Marco Isidori dal romanzo di Fëdor Dostoevskij; interprete: Paolo Oricco; scenario “Trionfo della Morte” di Daniela Dal Cin; adattamento drammaturgico e regia: Marco Isidori; produzione: Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa 2021

SEAWALL (di Fabrizio Lombardo)

Seawall è una storia. Inizia in uno spazio che non c’è, lì presente, ma prende vita dalle parole di un attore che la narra al pubblico. Ma poi, che ci sia il pubblico è tutto un po’ da vedere. Perché si tratta di una di quelle storie private, raccontate più come un discorso a sé stessi piuttosto che davvero a qualcuno. La scena, come si dice, è spoglia, ma spoglia è pure un po’ la storia, perché si avvia lungo un canale in apparenza banale, mette in fila avvenimenti privi di uno spessore drammaturgico, finché poi avviene qualcosa che cambia tutto, che rimescola emozioni impreviste, disattese. Seawall è un testo scritto da Simon Stephens – rappresentato in tutto il mondo dopo il debutto al Bush Theatre di Londra nel 2008 – che Fabrizio Lombardo ha portato sul palco dello Spazio Diamante, ricavando un’interpretazione che resta sul confine tra il racconto della vita com’è e il dubbio esistenziale sulla vita come a volte non è, mantenendo insieme la dolcezza e lo smarrimento di un segreto dirompente che urla e cui nessuna rivelazione concede ristoro. Ma Seawall è prima di tutto un argine al mare, una struttura eretta per proteggere le aree costiere dall’erosione del mare. Sarà mai possibile? Si può fermare, l’erosione del mare? Il protagonista della storia è Alex, narra in prima persona della sua relazione felice con Helen e del rapporto discendente, come ne fosse figlio, con il padre di lei, Arthur, un uomo nobile a cui si sente legato. Nella villa di quest’ultimo la famiglia – che vive si presume in Inghilterra – passa le vacanze d’estate, in Francia, dove la piccola Lucy sperimenta le occasioni offerte dal mare. Una vita tranquilla, quella di Alex e dei suoi, ma nel suo tono confidente via via appare ciò che rivelerà la frattura sconvolgente, l’evento che romperà l’idillio e darà inizio alla tragedia. Il mare, protagonista silente ma non meno violento, non rispetta i confini della costa, la sua erosione mangia la spiaggia e anche la vita, senza che alcun argine possa porvi rimedio. (Simone Nebbia)

Visto allo Spazio Diamante. Crediti: testo di Simon Stephens; di e con Fabrizio Lombardo; produzione Alchemico tre.

SECONDO LEI (di Caterina Guzzanti)

Sul palco della sala Petrassi c’è una pedana con uno sfondo bianco opaco: il palchetto servirà, attraverso una botola, a far cadere la protagonista in una sorta di piano inferiore, quello dell’inconscio; la tenda opaca avrà il compito di fare da schermo per qualche gioco d’ombre. Una giovane donna, vestita di rosso è seduta, appoggiata alla pedana: spiega come prima fosse una donna viva.  «Ho la sindrome del cane pastore», così parla della sua tendenza ad organizzare le serate con gli amici. Poi arriva lui: «ci siamo innamorati spostando sedie e unendo tavoli», un’immagine che poi diventerà anche una canzone alla Myss Keta. Chi fosse venuto a teatro per ritrovare le maschere comiche, quelle politiche più graffianti con le quali Caterina Guzzanti ha rinnovato (insieme ai suoi fratelli la comicità televisiva dalla fine dei ‘90) ha forse sbagliato epoca. E aggiungiamo, per fortuna, perché altrimenti non avremmo avuto la macchina teatrale di precisione andata in scena all’Auditorium. Un lavoro che non si appesantisce di inutili orpelli, sia dal punto di vista scenico che drammaturgico: la scrittura della stessa attrice (un debutto registico e drammaturgico) è infatti un efficace meccanismo che fa riflettere su un argomento tabù come l’impotenza maschile, ma è anche ammantata di una poetica leggerezza, «io la notte vengo esclusa dal respiro del mondo», afferma la donna quando ormai la crisi è conclamata. Federico Vigorito è una spalla perfetta non solo per innescare le trovate comiche di Guzzanti ma anche per impersonare la maschera di un uomo tragicamente immobile. I due non riescono a fare sesso, lui si intesta tutto il problema ma non si impegna per risolverlo, non ha il coraggio di chiedere un aiuto esterno e così la relazione si trascina nei mesi, addirittura negli anni senza riuscire mai a cominciare davvero. Eppure i due si amano, anzi proprio per questo lei cerca di non dare troppo fastidio; «io ho bisogno che tu abbia bisogno di me» afferma lui palesando così la figura fragile di un’uomo che non è in grado di vivere con una donna libera e autonoma. Ma il sesso forse è solo la parte per il tutto, ci sono paure che pietrificano e impediscono che la vita possa sbocciare. (Andrea Pocosgnich)

Visto all'Auditorium Parco della Musica Scritto e diretto da Caterina Guzzanti, con Caterina Guzzanti e Federico Vigorito. Prossima data: 19 giugno 2025 Campania Teatro Festival

PERLE SPARSE (Vashish Soobah)

Ci sono spettacoli che non si guardano soltanto, ma che si devono attraversare perché richiedono di abitare uno spazio altro, sospeso, in cui i frammenti della memoria riattivano una narrazione collettiva e si insinuano sottopelle. Perle sparse di Vashish Soobah è un racconto dell’attraversamento, un rituale di ricomposizione affettiva. In scena, un sistema di segni ripercorre le geografie e le acque oceaniche, intrecciando le isole della memoria con quelle della migrazione. Qui, c’è una mappa silenziosa che si compone gradualmente, fatta di fili tesi, tappeti stesi al suolo, video proiettati – che sono frame di terra acqua e radici - appunti visivi di un archivio personale. Ci sono oggetti che assumono un valore simbolico preciso: i sarees appesi al soffitto sono presenze liturgiche legate alla figura materna, tessuti sospesi in una fragranza di incenso che avvolge ogni cosa segnando una cesura con il mondo fuori. Il lavoro, presentato alla Triennale di Milano per il festival FOG e sostenuto da FONDO, network per la creatività emergente promosso dal Santarcangelo Festival insieme ad altri partner culturali, nasce da un’urgenza profondamente autobiografica: Soobah, nato a Catania nel 1994 da genitori mauriziani, parte da sé per riflettere sull’identità diasporica, sulla trasmissione intergenerazionale, sull’eredità coloniale che attraversa i corpi e le biografie. Ma il filo conduttore è quello della memoria, che si fa gesto, ricerca di un archivio orale e visivo, legame parentale: «Lavoro spesso con mia madre - racconta Soobah - perché è la figura di mezzo che mi trasmette le radici». È questa complicità familiare, che costituisce a tutti gli effetti l’asse portante dello spettacolo, che si muove tra i canti séga trasportati in Italia come bagaglio invisibile e l’immagine nitida di un campo di canna da zucchero, simbolo stratificato di colonialismo e resistenza. C’è una delicatezza tutta intima, una cura artigianale, seppur ancora embrionale, nel modo in cui questi frammenti si compongono, in un retro del palco che diventa il luogo ideale per accogliere e riscoprire storie marginali. «Finisco così per riscoprire un po’ come vivevano i miei genitori quando avevano la mia età, come si adattavano in un paese che non era il loro, mentre ora hanno interiorizzato il linguaggio di qui. Perché il cambiamento avviene anche su di loro, non solo su di me». (Andrea Gardenghi)

Visto alla Triennale di Milano. Crediti: di Vashish Soobah, supporto drammaturgico Muna Mussie. Progetto sostenuto da: FONDO Network per la creatività emergente sviluppato da Santarcangelo Festival con AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali, Centrale Fies, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee, Fondazione I Teatri – Reggio Emilia, Fuorimargine / Centro di produzione della danza in Sardegna, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino / Centro di Residenza Emilia-Romagna, Lavanderia a Vapore / Fondazione Piemonte dal Vivo, OperaEstate Festival Veneto / CSC Centro per la Scena Contemporanea, Ravenna Teatro, SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione della Liguria, Teatro Pubblico Campano, Teatro Pubblico Pugliese – Consorzio Regionale per le Arti e la Cultura, Teatro Stabile dell’Umbria, Triennale Milano Teatro

ISLANDS (di Carolyn Carlson Company)

Ritorna a Genova la Carolyn Carlson Company con un programma di tre assoli che indagano l’animo umano istintuale, la dimensione rituale e la memoria. In The seventh Man, Riccardo Meneghini attraversa lo stadio della nudità infantile, del trionfo dell’istinto e poi, riluttante come un adolescente ribelle, indossa una camicia rossa, lasciandola aperta sul davanti. Il suo corpo luccica, madido di un sudore che penetra fin dentro il tessuto, la sua fronte è imperlata e gocce cadono copiose infrangendosi sul telo bianco sopra cui danza. Distende al suolo tre camicie, sopra cui cammina ripetutamente, esprimendo forse uno sprezzo per quelle catene sociali che vogliono rivestire di strati il suo corpo nudo e vivo. Le età della vita scorrono di fronte agli occhi degli spettatori come istanze autonome, quasi esistenze a parte, separate l’una dall’altra.  A deal with instinct viene presentato in prima nazionale e vede come suo interprete unico e principale Yutaka Nakata. Il controllo del movimento si scontra con il crescendo della tensione musicale, in un eterno contrasto tra l’esercizio dell’equilibrio della mente, placida spiaggia, e il maremoto dell’istinto, pronto a infrangersi sul lido e a trascinare via con sé gli ultimi rimasugli di autocontrollo.  Room 7, interpretato da Tero Saarinen, affronta il tema della memoria che, come lo strascico del suo costume, ci si trascina inevitabilmente dietro. Tero gioca con i fantasmi delle persone che abitano quella stanza e che fanno tutte parte di un frammento di ricordo, fino al distacco definitivo. Lo strascico cala sul tavolo e sulle sedie, e Tero prende posto in disparte, sotto una lampadina appesa a un filo, rivendicando la possibilità di lasciarsi il passato alle spalle e sancire, così, un nuovo inizio.  Grazie alle musiche evocative e alla cura dell’apparato illuminotecnico, prende vita una dimensione altra in cui ci è permesso sbirciare, spiando quelle pulsioni e quei meccanismi segreti che ribollono sotto la superficie. Carolyn Carlson denuda l’animo umano e ci piazza di fronte a uno specchio. Siamo noi a scegliere di guardare nel riflesso. (Letizia Chiarlone)

Visto al Teatro della Tosse. Visto al Teatro della Tosse. Crediti completi

EDIPO. UNA FIABA DI MAGIA (di Chiara Guidi)

“Io chi sono?” è la domanda che svetta su un cartello tenuto in alto, ben visibile agli occhi del pubblico di piccoli spettatori a cui è rivolta, e forse un po’ anche a me, l’adulta intrusa ad uno spettacolo per bambini. Una messinscena che di infantile, però, ha ben poco: il tema della ricerca dell’identità da parte del soldato zoppo si intreccia con quello della sfida verso l’ignoto per ottenere la risposta. Infatti, quello che poi si scoprirà essere Edipo, giunge al cospetto della misteriosa Sfinge per porle la sua domanda. La creatura ineffabile è semplicemente una voce dietro un telo candido spesso e gonfio, che si agita come Edipo lo fruga con le mani, nel tentativo di risalire alla fonte. Risolvendo l’enigma della Sfinge, Edipo riuscirà finalmente a penetrare oltre la coltre, trovando al di là un giardino arido. Alcuni bizzarri personaggi, con indosso costumi grotteschi, fanno la loro apparizione: il giovane Tubero, con il suo dorso coriaceo, desideroso di crescere, tormenta il Bulbo con una pioggia di domande. Si chiede quando giungerà la Primavera, e perché questa sia così connessa allo svelarsi della Verità. Si consulta con gli abitanti di questo paesaggio arido: i rami secchi, il ragno, il rapace Creonte, la restia talpa Tiresia e, infine, Madre Natura, che svetta in posa materna, statua erosa dal tempo, al centro del giardino. Il luogo in questione è stato privato della sua vitalità dal compiersi di un atto terribile: un uomo di nome Edipo vi ha ucciso il re. Edipo inizialmente nega, poi finisce per accettare la Verità e assumersi le sue colpe. Gli abitanti del giardino insorgono, ma Madre Natura invoca il perdono, non solo da parte di questi ultimi ma dello stesso Edipo nei confronti del suo misfatto. Sulle note di un sottofondo musicale persistente e dissonante che contribuisce a creare un’atmosfera surreale, Chiara Guidi, in dialogo con Vito Matera, presenta al pubblico una fiaba delicata, privata degli aspetti più truci della vicenda sofoclea, eppure in grado di pizzicare le corde nascoste del cuore. (Letizia Chiarlone)

Visto al Teatro della Tosse ideazione Chiara Guidi in dialogo con Vito Matera con Francesco Dell’Accio, Francesca Di Serio, Maria Bacci Pasello, Vito Matera, Daniele Fedeli e con le voci di Eva Castellucci, Anna Laura Penna, Gianni Plazzi, Sergio Scarlatella, Pier Paolo Zimmermann musica Francesco Guerri, Scott Gibbons cura Irene Rossini scena, luci, costumi Vito Matera  produzione Societas coproduzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

NON È UNO SPORT ACQUATICO (di e con Daniele Parisi)

L’estate è fatta per fare cose e raccontarle, oppure non fare niente e aspettare che i fatti accadono. In questa intercapedine del tempo tra smania e apatia, in cui ci si divide tra chi può e chi non può farsi le vacanze, Daniele Parisi colloca il suo condominio di Non è uno sport acquatico, monologo da lui diretto, interpretato e presentato al debutto a Fortezza Est. Nella sonnolenza di un pomeriggio d’estate, l’avvocato Fideli sale sul cornicione del palazzo per suicidarsi. Il fatto è il motore d’innesco che aziona un bestiario di voci, dialetti e posture che Parisi incorpora e colora con cadenze dialettali, gestualità caratterizzanti, mimiche camaleontiche e vocalizzi in loop. Parisi è il condominio: vestito con pantaloni e camicia, servendosi di microfono e pedale campionatore, è Antonio, il portiere, ma anche l’artista Pinetti, il napoletano Fusco; è Calogero Intorchia - diremmo la nemesi siciliana di Antonio – è pure l’erborista Tassi, l’ottuagenaria signora Pieri, e la famiglia Giuliotti, compresi i figli che vorrebbero giocare in cortile a “Estorsione”, “Tangenti”, “Rapimento”. I condomini sono appellati per cognome, a ribadire una distanza di classe, il portiere invece, è solo (un) Antonio. Da quello regressivo di Ballard (High Rise e/o Condominium, 1975), alla guerriglia di quello fantozziano (Fantozzi subisce ancora, 1983), a quello dei drammi irreversibili di Nick Hornby (Non buttiamoci giù, in inglese A Long Way Down, 2005), il condominio è da sempre una sineddoche di mondo e nel suo Parisi, con virtuosismo autoriale e finezza attoriale, fa precipitare tutta l’umana commedia delle riluttanze e vanità, tanto meravigliose quanto grette e meschine. Anche se verrà rimossa presto, il portiere Antonio si congeda nel finale raccontando che sul mattonato ristrutturato e bianco del cortile di questo palazzo come tanti rimarrà l’alone di una macchia indelebile, di quelle che stanno lì a ricordare certe cadute che non andrebbero mai dimenticate, un po’ come quella, umoristica, nel salotto de Il Fantasma di Canterville di Wilde che proprio non se ne andava via… (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est: di e con Daniele Parisi, con il sostegno di Fortezza Est

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