Cordelia - le Recensioni

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AMISTADE (di RezzaMastrella)

A Roma, dicembre è il mese di RezzaMastrella, con loro si chiude l’anno e lo si inizia al Teatro Vascello. Oltre allo storico Fotofinish - dal 19 al 31 dicembre e che, come detto da Rezza, sarà una delle ultime riproposizioni perché «il fisico non regge più», e un rinnovato Hybris - dal 3 al 14 gennaio, candidato ai Premi Ubu come spettacolo dell’anno 2023 – in questi giorni c’è Amistade, una contaminazione di Flavia Mastrella, Antonio Rezza sfuggita dalle labbra di Dori Ghezzi. Dopo averlo rappresentato in Cina e in Lituania (non esistono frontiere nazionali per il duo) questa sovversione teatro musicale arriva al debutto nazionale e riempie la sala, e pure il marciapiede, di via Carini. Una coppia seduta accanto si interroga sulle origini “mi sembra siano della Ciociaria, ah no di Nettuno, però su Internet dice che lui è nato a Novara”. RezzaMastrella sono di famiglia ma non si sa mai cosa hanno in serbo, per cui quel patto tra palco e platea viene continuamente rinegoziato: inizi con la risata e alla fine puoi sentirti uno «stronzo», isolato, davanti a centinaia di persone. «Cos’è l’orizzonte se non il più grande fratto dell’umanità?» l’habitat visivo e testuale di Fratto X è, ancora dopo anni, la reductio ad absurdum del linguaggio della compagnia che in questa occasione si unisce alla lingua di Fabrizio De André, le cui immagini dei concerti e i ritratti - grazie alla collaborazione con la Fondazione Fabrizio De André - sono proiettati in video mapping sui veli di Mastrella. In voice over ascoltiamo le dichiarazioni dell’autore sulla musica e l’arte attoriale, sull’individualismo fascista e la guerra delle armi, sulle minoranze e maggioranze di pensiero. E il gesto politico di RezzaMastrella, e del corpo e voce di Ivan Bellavista, sta proprio nella capacità di lavorare sull’assenza, di scagliarsi contro la celebrazione sterile e propagandistica del cantautore e riuscire così a smitizzare De André, a toglierlo da quel pulpito borghese sul quale non avrebbe mai voluto stare e a portarlo in mezzo alla gente, senza svilirne la parola ma, anzi, donandola oggi nella sua umiltà più grandiosa. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Vascello. di Flavia Mastrella e Antonio Rezza, con Antonio Rezza, Ivan Bellavista e con la presenza straordinaria di Fabrizio De Andrè. Una contaminazione di Flavia Mastrella, Antonio Rezza sfuggita dalle labbra di Dori Ghezzi. Foto Andrea Mignogna.

GENTLY DOWN THE STREAM (di Martin Sherman, regia Piero Maccarinelli)

Chi segue Trend - la storica rassegna diretta da Rodolfo Di Giammarco che, vale la pena ricordarlo ogni volta, rischia di chiudere se le istituzioni continueranno a non comprendere la sua importanza -  sa che può accadere di trovarsi di fronte a interpreti che abbiano bisogno di leggere il copione in scena. Qui è permesso, proprio perché il copione inedito è la questione centrale della serata e si potrebbe dire che si va a Trend per ascoltare ogni volta un nuovo testo. È capitato con Gently Down The Stream di Martin Sherman: in scena c’erano sì due copioni ma anche due attori superbi, Massimo De Francovich eFrancesco Bonomo (e nella parte finale un ottimo e naturalissimo Pietro Giannini), la regia è di Piero Maccarinelli. I personaggi rappresentano tre generazioni di uomini gay, dalla più vecchia alla più giovane. Beau e Rufus si conoscono all'inizio degli anni 2000, tramite uno dei primi siti di incontri, seguiamo la loro storia segnata dalle difficoltà date dalla differenza di età: Beau racconta gli anni che seguirono la Seconda Guerra Mondiale in cui dopo il libertinaggio concesso ai commilitoni le maglie si stringevano attorno a ciò che era considerato fuori dalla norma. È un pianista dunque può sciorinare incontri eccellenti e una vita tra locali notturni e grandi voci da accompagnare; ma può ricordare anche gli anni più bui, gli Ottanta, in cui la comunità omosessuale veniva falcidiata dall’Aids. Beau sa già che il compagno vorrà vedere qualcun altro più giovane, anzi sarà lui a consigliarglielo. Rufus andrà a vivere con un giovane “artista della performance" ma i tre rimarranno uniti e i due più giovani manterranno affetto e cura nei confronti dell'anziano musicista. Sherman ha un tocco delicato nel mostrarci la strada possibile, quella comunitaria e della solidarietà oltre le relazioni. Beau non vuole saperne di matrimoni, è la sua esperienza ad averlo reso cinico (perché tutto finisce, dirà) eppure quando terrà in braccio il bambino figlio degli altri due capirà che può esserci un’alternativa. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Belli. Di Martin Sherman 
regia Piero Maccarinelli con Massimo De Francovich Francesco Bonomo Pietro Giannini traduzione Natalia di Giammarco produzione Teatro Belli / Trilly Produzioni

TALOS (Arkadi Zaides)

Nel prezioso focus dedicato ad Arkadi Zaides dalla rassegna Orbita organizzata da Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza, il Teatro Palladium di Roma ha ospitato la performance Talos, incentrata sulla questione della violenta rivendicazione, attraverso la sorveglianza tecnologica, della legittimità dei confini. E a partire da un progetto di ricerca finanziato dall’UE (tra il 2008 e il 2013) nel campo dell’applicazione della sicurezza, ossia un sistema avanzato di robotica per la protezione dei confini terrestri europei che prende il nome da un personaggio della mitologia greca, il gigante di bronzo Talo, guardiano di Creta. In un rimando polivisivo, fra schermi e schemi e immagini, quello che Zaides mostra in scena in una presentazione al limite del burocratico, è l’ossessione del controllo, la ricaduta sugli spostamenti in prossimità dei confini, e l’affezione in termini performativi di chi per necessità è costretto ad attraversarli. Tanta apoteosi tecnologica della sorveglianza e della restrizione degli spazî di confine ha finito per incagliarsi nella rigidità del suo preteso disciplinamento, a fronte di ciò che per sua natura può essere invece poroso ed elastico. In scena, infatti, la narrazione kafkiana e fredda ma pignola dello stesso Zaides a un certo punto si inceppa, cade in un loop verbale che mette fuori controllo lo zelante presentatore, e l’artificialità di una intelligenza contraria al vivente qui esposta. Con esso, viene così fatta saltare tutta la natura arbitraria della sua pretesa sovranità. La serata si è completata con un dettagliato incontro con il coreografo e la natura documentale della sua ricerca coreografica, curato da Piersandra Di Matteo/Short Theatre e con gli interventi di Andrea Costa/Baobab Experience e Lorenzo Pezzani/Liminal-Università di Bologna, durante il quale meglio si è precisata la strategia compositiva di Zaides come un assemblaggio di teoria, scrittura del corpo e ricerca sul campo capace di ripensare la natura e il potere e la violenza del documento. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Palladium. Di: Arkadi Zaides In collaborazione con: Claire Buisson, Nienke Scholts, Jonas Rutgeers, Youness Anzane, Effi & Amir (Effi Weiss & Amir Borenstein), Gabriel Braga, Culture Crew, Amit Epstein, Dyane Neiman, Thalie Lurault, Etienne Exbrayat, Simge Gücük

CHI RESTA (di Matilde Vigna, Anna Zanetti)

C'è un'aura delicata, un calore familiare in questo nuovo spettacolo ideato e diretto da Matilde Vigna e Anna Zanetti. Ci sono un figlia, la stessa Vigna, che non riesce a rialzarsi - emotivamente e dunque fisicamente - e una madre che se ne sta lì in piedi, con il suo tailleur azzurro e la borsetta sempre presente. Ci vuole qualche minuto per comprendere che la donna è morta e quella che vediamo dunque è una sorta di fantasma o una proiezione mentale incarnata nella straordinaria presenza scenica di Daniela Piperno. Nel buon teatro il realismo è sempre magico, ecco allora che in questo cerchio bianco il tempo diventa rarefatto ed è più un tempo dei sentimenti che una costante. Dopo un lutto ci sono questioni della vita da risolvere, funerali e bollette da pagare, discorsi da pensare o da improvvisare davanti a familiari e conoscenti. Il padre era già morto e dunque quella madre era stata tutto e forse talvolta anche amica, perdendola la protagonista di questo piccolo spaccato di vita può permettersi per qualche tempo di tornare bambina, con quell'incapacità di alzarsi dal letto che qui diventa postura rannicchiata, fetale, nonostante il completo giallo canarino da adulti. «Quando si smette di essere figli? È una questione di tempo? O forse è una questione di distanza, di prospettiva».  Eccoci, quarantenni con partita iva alle prese con un lutto mai preparato, con i sensi di colpa che si incarnano nell'immagine di una madre pronta a spronarci, a controllarci e ad ammonirci anche da morta. Matilde è tutta il suo lavoro e ora sarà ancora più sola, ma si rialzerà. Al funerale se ne andrà via prima e dovrà poi sentirsi dire (da un fantasma o dalla propria coscienza) quanto quella scelta sia stata inopportuna. C'è anche il tempo per un litigio tra le due donne prima che la giovane riesca a lasciare andare la madre, prima che, in una scena poetica e commovente, da un baule esca fuori un costume da astronauta; la luna non può attendere. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro delle Moline. Ideazione e regia Matilde Vigna, Anna Zanetti con Daniela Piperno, Matilde Vigna video Federico Meneghini progetto sonoro Alessio Foglia musiche originali spallarossa luci Umberto Camponeschi dramaturg Greta Cappelletti consulenza, scene e costumi Lucia Menegazzo

STUPOROSA (di Francesco Marilungo)

Stuporosa - nella Treccani, termine che indica una condizione di smarrimento dei sensi e dell’intelletto – è, nel lavoro coreografico di Francesco Marilungo presentato al Danae Festival, lo stato inconfessabile di elaborazione del lutto. Il giovane regista vi ci passa attraverso con delicatezza e acume di sguardo, scavando all’interno dei codici di una liturgia collettiva, per estrarne le formule di pathos condivise, le mani nei capelli, l’abbandono estatico, la reiterazione dei gesti, la posizione genuflessa, gli sguardi svuotati di senso e riempiti della processualità di un atto. Nella sala teatrale il rito è già iniziato ancora prima di entrare: vestite di un nero luttuoso nei costumi elaborati e fatiscenti di Lessico Famigliare, Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini e Vera Di Lecce sono cinque figure femminili che ricamano un tappeto di bisbigli, eco lontano di un canto popolare ancestrale raccolto dal (sempre precisissimo) disegno luci di Gianni Staropoli. A disseminarle come macchie di colore su di un parterre bianco è il richiamo al rituale (nei riferimenti letterari a Ernesto de Martino), ora individuale, ora collettivo: la performance, composta da diversi momenti liturgici, che vanno dalla purificazione, al compianto, alla vestizione in un rimando all’iconografia cristiana ma anche alla tradizione popolare, si costruisce così di tensioni e abbandoni, di movimenti e stasi, di gesti fluidi e meccanici, sfuggendo continuamente alla fissità del dolore e popolandosi di suoni e immagini, memorie di un patrimonio negato ed ora finalmente condiviso. Il lamento perpetuo, enfatizzato dalla profondità vocale di Vera di Lecce e dai riverberi acustici della musica elettronica, viene in quest’ottica privato, nella tensione antropologica e sociale di Marilungo, di quella cupa drammaticità, per essere distillato a poco a poco in una coreografia organica di corpi che pongono al centro della propria gestualità un sincero ideale di cura e raccoglimento.

Visto al Teatro Out Off di Milano. Crediti: regia e coreografia Francesco Marilungo, con Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini, Vera Di Lecce, musica e vocal coaching Vera Di Lecce, spazio e luci Gianni Staropoli, costumi Lessico Familiare.

NECROPOLIS (Arkadi Zaides)

C'è un silenzio colmo di pensieri nel grande spazio del Teatro Rossellini: l'ultima richiesta della voce off annulla qualsiasi rimasuglio possibile di spettacolarità, non si può applaudire, non si può tirare il sipario. Siamo congelati, fino a quando la voce di Valentina Marini (direttrice di Orbita che ha organizzato il progetto dell'artista Bielorusso) si fa spazio passando la parola all'incontro con gli artisti. In Necropolis il teatro documentario di Arkadi Zaides è letteralmente un viaggio nella città dei morti. Per essere ammessi in questa città bisogna morire. Spettatori e spettatrici assistono nella comodità del virtuale, perdendo così la responsabilità del corpo ma acquisendo quella dell’ascolto collettivo. In scena solo un tavolo, qui si siedono Zaides ed Emma Gioia, gestiscono computer e mixer: come sempre la tecnologia assume un senso politico per Zaides nel momento in cui diventa strumento di comprensione, raccolta dati e azione sul mondo. Il lavoro dell’artista si aggancia a quello portato avanti da UNITED for Intercultural Action fin dal 1993: la rete, alla quale partecipano più di 500 Ong in tutta Europa, registra le morti delle persone migranti avvenute nel tentativo di raggiungere il nostro continente. La performance di conseguenza si nutre dell'operato di volontari che a partire dai dati United si recano sulle tombe registrando un breve video del percorso nei cimiteri o nei luoghi in cui hanno trovato (o non trovato) sepoltura i corpi. Assistiamo su un grande schermo, partendo dalla geolocalizzazione satellitare, a questi piccoli viaggi dentro cimiteri sconosciuti, verso tombe di migranti che spesso non hanno neanche una lapide e un nome. Nel finale viene ricostituito, su un tavolo autoptico, un corpo fatto di resti, pezzi di carne marcia, che tenterà di rianimarsi in video. Alcuni distolgono lo sguardo: rimaniamo bloccati e inermi - i corpi esistono e le leggi delle nazioni hanno contribuito alle morti -, come quando sullo schermo appaiono i cimiteri siciliani dove si affastellano i segni delle vittime delle stragi del mediterraneo, non riusciamo a contarle. (Andrea Pocosgnich)

Visto allo Spazio Rossellini. Di: Arkadi Zaides Drammaturgia, testi e voce: Igor Dobricic Assistente alla ricerca: Emma Gioia Con: Arkadi Zaides, Emma Gioia Sculture: Moran Senderovich Animazione: Jean Hubert Light Design: Jan Mergaert Sound design: Asli Kobaner

DIARIO DI LINA (di Teatrodilina)

Non ho mai avuto un cane, quindi non sarà lui ad accogliermi quando arriverò in Paradiso, lo faranno i miei due gatti, se lo vorranno. Accoglienza nell’aldilà immaginata da Anna (Bellato) Francesco (Colella) e Leonardo (Maddalena) nell’aldiqua di Diario di Lina, un momento di riordino del tempo, degli anni passati e di quelli che verranno, in cui la compagnia Teatrodilina, tramite l’espediente meta teatrale delle prove, rappresenta l’impossibilità di impegnarsi nel fare la memoria del prossimo spettacolo lasciando spazio invece a discorsi sul tip-tap, su cani “robots” e acqua da bere per idratarsi. Sulle gradinate della platea del Teatro Argot Studio, con il pubblico che occupa quello che di solito è il palcoscenico, si muovono i due attori e l’attrice; sembra lo facciano sulle stanghette, righe, di un pentagramma immaginario in cui la musica e i suoni di vita si inseriscono nelle parole. Parole come “solitudine”, “paura”, “fame”, “sogno”, “amore” che esprimono l’inafferrabilità delle emozioni che seguono un lutto, in questo caso quello di Lina, la cagnetta simbolo della compagnia. La perdita, quel buio dell’oblio di una presenza quotidiana che non c’è più rende brillante, visibilissimo, il presente che scorre: la nascita di una bambina, portata in grembo da Anna, Mario che non si fa più sentire, il teatro che esiste sì ma che fatica ad essere, perché avrebbe bisogno di maggiore continuità, sicurezza, prospettiva, costruzione… Temi espressi alla rinfusa, senza un ordine preciso, è vero, ma perché sciolti in una drammaturgia sull’esperienza del lasciare andare, quando cerchiamo di verbalizzare, caoticamente, tutti quegli indici di cambiamento che stanno già avvenendo dentro e fuori di noi mentre l’inerzia della precarietà vorrebbe fermarli, avvolgerli e riavvolgerli. L’applauso per l’ultima replica testimonia tutta l’accoglienza per una compagnia le cui storie arrivano dentro i nostri vuoti e li colmano: non solo per il pubblico più affezionato ma anche per quello nuovo e giovane, che si ferma a parlare entusiasta a fine spettacolo. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Argot Studio: con Anna Bellato, Francesco Colella, Leonardo Maddalena, suono Giuseppe D’Amato, luci Martin E. Palma, organizzazione Regina Piperno, scritto e diretto da Francesco Lagi, una produzione Teatrodilina in collaborazione con DOG

FRAGILE SHOW (Biancofango)

Il costume è lo stesso di quattordici anni fa, è «riuscito a entrarci» mi dice, sorridendo, Francesca Macrì prima di accompagnarmi nel retro palco del Teatro Basilica, dove sono allestiti i camerini. Andrea Trapani ha appena finito di togliersi via il sudore come dopo un esercizio fisico totalizzante. Fragile Show d'altronde è questo, andrebbero calcolate le calorie bruciate nell’ora di follia in cui il corpo e la mente sono connesse al massimo del potenziale recitativo, con un obiettivo, trasformare la presenza scenica in musica. Trapani mi spiega che la difficoltà maggiore è stata proprio quella di ricercare l'energia, la spinta di tanti anni fa quando non solo il corpo era diverso ma anche l'approccio d’attore, di giovane interprete. Biancofango ha riallestito uno dei suoi gioielli della Trilogia dell'inettitudine, opera per un solo attore e plurime voci e presenze, nata in un'altra Roma, quella della scena indipendente e delle sale teatrali nei centri occupati. Il lavoro ancora emoziona e colpisce, Macrì ha rivisto la drammaturgia e lo spazio scenico precisandolo in una circonferenza bianca, invece della vecchia panchina c'è il sedile del pianista. Folgorante, anche oggi, l’idea di fondo: prendere Il soccombente di Thomas Bernhardt e calarlo in una realtà italiana di personaggi schizzati, caricature abominevoli senza empatia, tra Firenze e Milano. Al centro lui, un musicista, rimasto nascosto dietro l’ombra troppo grande del canadese Glenn Gould e quella voglia di rivalsa che sfocia in una bizzarra festa in cui invitare vecchi amici e compagni di scuola per umiliare e umiliarsi. Il resto lo fa Trapani con una sorprendente cavalcata dentro e fuori i personaggi, in una polifonia interpretativa unica per qualità energetiche, ironia e musicalità. La mano destra è quella che non sta mai ferma, tiene il tempo su una tastiera immaginaria; è una delle cose che più mi colpì in una replica che vidi nel 2015, al Teatro Orologio, l'ho ritrovata qui come segno tangibile di un'artigianato in cui lo strumento e la creazione sono la stessa cosa, il corpo umano. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Basilica. Con debiti e gratitudine a Il soccombente di T. Bernhard drammaturgia e regia Francesca Macrì e Andrea Trapani con Andrea Trapani costumi di scena Isabella Faggiano disegno luci Mirco Maria Coletti

VANISHING PLACE (di Luna Cenere)

Luna Cenere ha avuto l’ottima intuizione, semplice ed efficace, di lavorare per principio di sottrazione: fermarsi alla sola idea che il corpo basti da sé. Nient’altro che l’esserci. Niente di innovativo, ovvio, ma questo non è una manchevolezza perché lì dove l’apparato drammaturgico si asciuga, c’è la capacità immaginativa della coreografa che riesce a comunicare immediatamente con quella del pubblico. Cinque corpi esistono in uno spazio nullo e accessorio al movimento estenuante e icastico; l’aria è attraversata da morbide luci direzionate sui muscoli per disegnare la tensione o il riposo, in un’atmosfera aurorale ed embrionale. Alcuni appaiono con il collo gravato dal peso di un grosso parallelepipedo che trascinano con fatica, qualcun’altro è libero di estendersi e di sperimentare la mobilità di ogni pezzo di sé per poi cristallizzarsi. Dietro una schiera di monoliti bianchi, le masse appaiono e spariscono in un gioco di illusioni e mescolamenti; infine l’individuo, come generato, si espone da solo e gira per lo spazio, ma poi ritorna tra le masse finché un altro individuo non prende forma compiuta e si espone a sua volta. «In alcuni momenti ho visto le pitture del Masaccio, avrò visto bene?», è un’accompagnatrice a chiedere. In effetti, per quanto sia supposta un’influenza surreale e minimal (forse è questo l’unico aspetto decisamente agée), l’intero lavoro è in realtà la composizione di un’enorme memoria immaginifica che corre nei tempi. Dalla scultura egizia del XIII secolo a.C o quella della terra di Gandhāra del IV a.C., a Masaccio o Michelangelo, alle fotografie di Muybridge, alla videoarte e persino a videoclip musicali. È quella felice idea di lasciare che l’espressione della sola plasticità del corpo abbia pieno compimento; è da sempre, questo, un lavoro di astrazione estremamente comunicativo ed emotivo. In tempi in cui ci si arrocca nella propria minuscola visione dell’esistenza, è un’occasione preziosa sentire che esiste un’unica intelligenza sensibile. Basta guardare.

Visto a Teatro San Ferdinando, Napoli; Crediti: Coreografia e concetto Luna Cenere; Con Marina Bertoni, Francesca La Stella, Ilaria Quaglia, Davide Tagliavini, Luca Zanni; Disegno luci Giulia Broggi; Musiche Renato Grieco; Spazio scenico Raffaele Di Florio; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Körper – Centro di produzione Nazionale della Danza, La Biennale di Venezia con il sostegno di Hessisches Staatballet, Agora de la danse – résidences de création croisées en danse entre l’Italie et le Québec with CINARS and NID Platform, CID – Centro internazionale della Danza, MIC – Direzione Generale Spettacolo, Istituto Italiano di Cultura – Colonia e Istituto Italiano di Cultura – Montrea

LEVIATANO (di Riccardo Tabilio, Regia Marco Di Stefano)

Cominciamo dal titolo, il Leviatano, è quello del romanzo di Paul Auster del ‘92, il cui protagonista si scatena proprio contro lo Stato, il mostro di Hobbes. E d’altronde anche il personaggio principale della storia reale ripresa da Tabilio è qualcuno che vuole opporre la propria piccola rivoluzione agli ingranaggi del sistema. Siamo a Pittsburgh e un anonimo disoccupato rapina due banche nel giro di pochi giorni, ma la questione non riguarda solo il movente, l’interrogativo si focalizza su come faccia ad essere così sicuro di sé senza avere nessuna esperienza. Qui entrano in gioco due studiosi, un professore universitario e un brillante dottorando, sono i due dell’effetto Dunning-Kruger, quella dispercezione per cui alcuni tendono a sovrastimare la propria preparazione in un campo in cui hanno pochissime nozioni. Ci sono detective, testimoni strafatti, poliziotti zelanti, impiegati di banca che finalmente si sentono al centro del mondo, gli Stati Uniti dei Nineties un po’ da fumetto assurdo e scombinato. Con un finale, tanto comico quanto delirante, in cui viene svelata l’idiozia suprema, ovvero il motivo per il quale il criminale amatoriale credeva di poterla fare franca. Se il meccanismo drammaturgico è funzionale al racconto e allo show, così come l’alternanza di quadri teatrali a grandi classici del pop rock anni ‘90 suonati dal vivo, ciò che perplime è l’inquadratura dello spettacolo nella solita cornice metateatrale, con tanto  di battutine e gag interne alla compagnia di cui lo spettacolo non avrebbe bisogno. Pulizia e maggior rigore gioverebbero all’impianto complessivo. (Andrea Pocosgnich)

Visto all'Altrove Teatro Studio. Di Riccardo Tabilio con Giulio Forges Davanzati, Alessia Sorbello, Andrea Trovato assistente alla regia Cristina Campochiaro scenografie video Antonio Simone Giansanti preparazione musicale a cura del M° Attilio Costa disegno luci Enzo Biscardi dramaturg Chiara Boscaro regia, scene e costumi Marco Di Stefano SPETTACOLO VINCITORE DEL BANDO NdN 2020-2021 Coproduzione Network NdN, Teatro Libero Palermo, Fondazione Atlantide Teatro Stabile di Verona, Centro Teatrale MaMiMò Col supporto di TRAC – Centro di residenza teatrale Pugliese, AterlierSì e Dracma – Centro sperimentale di arti sceniche. Realizzato da Compagnia Carmentalia e La Confraternita del Chianti

DEUX MILLE VINGT TROIS (Maguy Marin)

90 minuti di antiteatro. 90 minuti di fine del teatro. È questa scelta radicale per il nulla, che lascia impietriti al termine del nuovo lavoro di Maguy Marin. Visto al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia, come parte del progetto Maguy Marin. La passione dei possibili ideato dal Reggio Parma Festival, dal titolo Deux Mille Vingt Trois. È l’anno (fra i tanti) della nostra fine (fra le tante). 90 minuti di cronaca sulle schifezze, gli intrallazzi, le anomalie dei grandi capitalisti del mondo, sempre sorridenti e vincenti, e sulla costruzione del consenso. All’inizio c’è un muro, ogni mattone ha inciso in grande un nome di questi gentiluomini (c’è pure Berlusconi, e Trump, e Musk...). Il muro cade nel fracasso più ovvio, e ce lo aspettavamo un po’ tutti, quindi parte questa docu-performance che una qualsiasi trasmissione televisiva avrebbe fatto meglio. Qui però deve andare così. Nulla accade se non questa denuncia monotona (sono tutti fermi e leggono ai microfoni), alternata a fastidiosissime sequenze di rumori, sempre uguali, che accompagnano un passaggio a proscenio di un onnagata di Kabuki, agghindato con un ventaglio formato da soldi e in testa, di volta in volta, tutto ciò che meglio li rappresentano (barche lussuose, aeri privati etc.). Non deve far ridere. Dovrebbe, credo, raggelare. Unica emersione possibile, qui, in questa totale negazione del teatro è infatti quella del grottesco. Tutto disturba. In pochi se ne vanno, durante lo spettacolo. Altri disapprovano, al termine, durante gli applausi. Dietro il fastidio: l’indecifrabile. Anche se in scena, dopo la caduta del muro, non si muove niente o quasi, per 90 lunghissimi minuti. Giovanni, che di teatro politico ne ha visto, mi aveva allertato. Valeria, decana della critica teatrale, al termine è furiosa, mi scrive su whatsapp parole di fuoco per tutta la vuota retorica che ha sentito (e subìto). Silvia, un’attrice splendida e conoscenza di vecchia data, mi attende al varco nel foyer: sono un po’ bastian contrario, cerco allora di argomentare, di difendere l’operazione. Lei è troppo gentile e affettuosa per contraddirmi. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Cavallerizza  Progetto "La passione dei possibili" Ideazione Maguy Marin in stretta collaborazione con Kostia Chaix, Kaïs Chouibi, Chandra Grangean, Lisa Martinez, Alaïs Marzouvanlian, Lise Messina, Rolando Rocha Luci Alexandre Béneteaud

L’AVARO IMMAGINARIO (di Enzo Decaro)

Il successo di Molière in Italia è cosa nota, già nel Seicento apparivano le prime traduzioni, come d’altronde non sono mancate le relazioni tra il celebre drammaturgo figlio di un tappezziere di corte e i comici della Commedia dell’Arte. Assume allora un fascino storico questo spettacolo ideato da Enzo Decaro per la Compagnia Luigi De Filippo, L’Avaro immaginario. E dal titolo già si capisce quanto il protagonista, uno sfortunato capocomico campano, sia ossessionato dall’autore francese. Siamo appunto nel Seicento, gli anni Settanta, quelli della morte di Molière. La compagnia dei comici della famiglia Bruno è in viaggio con l’obiettivo di conoscere il mito della commedia moderna. Le scene di Luigi Ferrigno sono occupate da un vero e proprio gioiello di artigianato teatrale: un carretto in legno, con tanto di ruote, ante che si aprono e chiudono, oltre le quali si possono notare i costumi, le cianfrusaglie e le maschere della compagnia guidata da Oreste Bruno. Un piccolo gruppo di attori e attrici imparentati che oltre a portare sulle spalle l’affamata tradizione dei teatranti scavalcamontagne hanno a che fare con un cognome altisonante, sono i nipoti di Giordano Bruno, mandato al rogo proprio nel 1600, anch’egli originario di Nola. C’è la fame come spettro quotidiano,” ‘O puorc” che lentamente finisce, l’arrivo in una piazza durante il mercato che non sortisce un guadagno in denaro ma alcune razioni di cibo, l’incontro con una cartomante, le canzoni popolari e le dispute interne proprio sull’opportunità di ricordare lo zio martire, e tutte le lettere spedite proprio a Molière nelle quali raccontare anche di un amato cavallo che muore per salvare la compagnia dalla fame. Torna in mente quel meraviglioso film di Ariane Mnouchkine, dedicato a Jean-Baptiste Poquelin: anche qui vita e teatro coincidono in un viaggio unico, commovente e spietato, nel quale l’utopia incarnata da Molière svanisce di fronte alla morte naturale del mito; ma il teatro resiste per continuare il proprio viaggio. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Parioli, Crediti: tratto da Molière/Luigi De Filippo adattamento e regia di Enzo Decaro con Enzo Decaro e con NUNZIA SCHIANO e con La Compagnia Luigi De Filippo (in o.a.) Luigi Bignone, Carlo Di Maio, Massimo Pagano, Giorgio Pinto, Fabiana Russo, Ingrid Sansone musiche Nino Rota (da “Le Molière Immaginarie”) musiche di scena ispirate a villanelle e canzoni popolari del 600’napoletano scene Luigi Ferrigno

HellO° (di Kinkaleri)

Il tragico è insito già nel titolo, quel “Hell” che si stacca graficamente dalla “O”, grande, tonda e totale. La preposizione tragica che anticipa, forse, il nome: “O” come OtellO, ultimo lavoro di Kinkaleri da cui nasce HellO°, una «costola» come la definisce il collettivo, una scrittura corpocentrica che dà parola alla fisicità, nuda, di Michele Scappa, presentata a Largo Venue durante Interazioni Festival - Ctonia, a cura di Chiasma, la cui maggior parte degli eventi sono a ingresso gratuito. Un assolo assoluto in cui la scena è costruita dall’interprete facendo srotolare tappeti riflettenti, usando oggetti come una mazza, due palloni, e indossando una maglietta in cui campeggia la scritta “Mondo”. A comparire sin dall’inizio, e poi spostata di lato, la W del progetto di scultura urbana di Kinkaleri, di cui si aspettano, ancora, notizie in quel di Bologna. Il mondo è quindi costruito dal corpo umano, homo faber della sua fortuna ma anche sfortuna; Kinkaleri scrive nelle note: «in questo periodo storico, ancor prima che la pandemia la immettesse nel nostro immaginario, si stava già insinuando un’idea di perdita e di sostituzione dell’esperienza del vivente tramite la scrittura di un codice che potesse sostituirlo, surrogarlo, ampliarlo ma anche sottometterlo. Ci siamo dedicati perciò a un’idea di cura e di protezione di questo unico corpo». Questa tutela del corpo in via di estinzione è traslata in una dimensione di perfezione estetica portata alla sua estrema vividezza; del gesto del danzatore è possibile osservarne tanto la plasticità inscalfita e marmorea, quanto la sua precarietà fragile ed esposta, che è bellezza proprio per l’antinomia di cui essa è composta. Nella supremazia della fisicità statuaria, nelle braccia e gambe che come vettori disegnano una circonferenza tutta intorno, si palesa infatti l’unicità in cui è insita la moltitudine; un Vitruvio del XXI secolo che, nonostante utilizzi oggetti riconducibili al maschio (la mazza da Baseball, i palloni da calcio) e sia biologicamente uomo, non mascolinizza tuttavia il discorso sulla centralità del corpo, espressione di umanità onnicomprensiva, ma sola e solitaria in un orizzonte rarefatto e incerto. (Lucia Medri)

Visto a Largo Venue durante Interazioni Festival - Ctonia: progetto / realizzazione Kinkaleri / Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco con Michele Scappa, musica Canedicoda, produzione Kinkaleri / KLM – 2022/2023 con il sostegno di MIC- Regione Toscana

A VOLTE MARIA, A VOLTE LA PIOGGIA (di Daniele Parisi)

Daniele Parisi è tra i più sottovalutati autori e attori italiani. Anzi, è proprio questa qualità dell’essere attore e avere una coscienza del racconto scenico che ne fa un autore guidato da una sapienza artigiana della parola, quella che serve senza eccedere, quella che esprime la ricchezza della narrazione e la pone a confronto della vita reale. Al debutto con il suo ultimo monologo, dal titolo magnifico A volte Maria, a volte la pioggia, l’attore romano si conferma capace di profondità con pochi elementi, niente più che una sedia rossa e una postazione microfonica dotata di una loop station; al resto pensa la sua capacità immaginativa, quella virtù dell’evocare in presenza ciò che è assente, personaggi e pensieri altrui che vivono guidati da una rara delicatezza; è come se Parisi, nel convocare sé stesso e gli altri personaggi di una vicenda, ogni volta che raggiungono la scena li accarezzasse per farli sentire a proprio agio, come tenesse a loro perché ormai, di carne o solo di parola, della sua vita fanno parte. Si tratta di due monologhi in uno: a cena in campagna dove si è trasferito Maurizio, prima di una viaggio di ritorno in auto funestato dalla pioggia; in dialogo con Maria, per porre in luce quel che non va nel loro rapporto, quella illusione di conoscersi e poi invece dover ammettere in maniera schiacciante la propria reciproca estraneità. Le due storie, che confluiscono per brevi segmenti e lasciano intravedere una continuità parallela, sono intervallate da piccole creazioni musicali attraverso la loop station, campionando vocalizzi appena prodotti al microfono per sovrapporvi suoni e creare un tappeto alla narrazione; ai tratti comici che evidenziano certe storture dell’esistenza, come quella fissa di cercare un centro alla vita, fanno seguito riflessioni profonde che virano al tragico, come quella sulla genitorialità, sull’imbarazzo di dover trasmettere qualcosa e il disagio delle scelte, l’inadeguatezza e le piccole e grandi incongruenze della vita di ognuno, espresse dalle parole di uno. Che, lo ripeto perché si ricordi meglio, si chiama Daniele Parisi. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Basilica. Crediti: di e con Daniele Parisi

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