Cordelia - le Recensioni

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COME NEI GIORNI MIGLIORI (di D. Pleuteri, regia L. Lidi)

Qualunque pagina dei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes si ritrova squadernata, illuminata, agita sulla scena de Come nei giorni migliori. E non è per un approccio citazionistico o per vezzi enciclopedici nella nitida regia di Leonardo Lidi, o nel meraviglioso testo del 2023 di Diego Pleuteri. Si tratta forse piuttosto di un montaggio dal sapore filmico, rapido e preciso, che incolla tutti i topoi della relazione amorosa come in un lentissimo avanti veloce – come nel capitale testo barthesiano. Si tratta anche, senz'altro, della palpitante libertà interpretativa che comunicano Alessandro Bandini e Alfonso De Vreese. Due vestali di un fuoco sacro che rende atroce tenersi per mano, ma che al contempo fonde le soggettività in un tentativo inesauribile di provare-a-essere-coppia. Due eroi e sullo sfondo una città, Milano, appena sfrangiata nei toponimi della vicina provincia, come ad abbozzare uno sprawl esistenziale – un fondale invisibile ma palpabile, che diventa istantanea metafora generazionale del disagio amoroso nostro. Eppure questa danza a due, tra lo studio di uno psicanalista e un museo, tra un parco di notte e una casa di studenti, tra una madre perduta e una partita a paddle, è come un geroglifico: universale nella sua immanente riconoscibilità, indecifrabile perché la chiave è perduta – forse da sempre. Lidi, Pleuteri, Bandini, De Vreese ma anche Nicolas Bovey per la scena e le luci, compongono un album in cui ogni scelta è il contrario di un'antologia, ma proprio per questo il risultato è reale e pungente. Una spettatrice, seduta in sala vicino a chi scrive, muove lo sguardo incessante tra Billy (Bandini) e Jessica (De Vreese), proprio come in una partita di paddle, si profonde in cenni di assenso alternando empatia per l'uno e l'altro, segue le corse a perdifiato dei due che sudano, urlano, piangono e si baciano con tutta la sapienza dei loro corpi – attivando una partecipazione altrettanto corporea in chi guarda. Come nei giorni migliori, quando l'amore è un fatto vissuto, necessario e incessante. (Andrea Zangari)

Visto a Teatro India. Crediti: di Diego Pleuteri; regia Leonardo Lidi; con Alessandro Bandini, Alfonso De Vreese; scene e luci Nicolas Bovey; costumi Aurora Damanti; foto Luigi De Palma produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

PARLA CLITEMNESTRA (di Barletti/Waas)

Nell’incertezza etimologica per l’antica origine della parola “amore”, la sola certezza è dovuta alla carica di passione viscerale che sembra coesistere in ogni radice, in contrasto con l’idea della morte come da un lato conclusione e dall’altro appagamento di quella certa pena. In questo Parla, Clitemnestra!, portato da Barletti/Waas sul palco di Spin Time, questa tensione amorosa che si perde nella consuetudine della schermaglia e nell’eternità della tragedia sembra far ricorrere simile peculiarità. Come statue classiche, cosparsi di gesso Agamennone (Gabriele Benedetti) e Clitemnestra (Lea Barletti) si fronteggiano a centro scena, nel buio solo contrastato da poche piccole torce azionate dal pubblico a proprio piacimento; raramente si guardano in volto, come se recitassero l’eternità di quelle parole che si intrufolano nel silenzio da sempre e per sempre, penetrando con la loro storia un tempo che preesiste a chi vi assiste e anche alla loro stessa lite. Il testo di Barletti, che la regia di Werner Waas accomoda sui corpi scolpiti in una scolpita oscurità, ha una simile intensità del suono, concedendosi mai banali strappi di rime che scivolano nella poesia. A muovere verso questo personaggio molto più che collaterale della tragedia greca è proprio l’inadeguatezza tra la sua consistenza effettiva e l’attenzione che oggi si direbbe “mediatica” data nel tempo, così importante e così poco raccontata, così determinante e ridotta ad appendice di tragedie ben più presenti. E allora? A chi parla questa Cltemnestra? Chi le ordina di parlare? Forse Agamennone vigliacco e un po’ pentito, forse il coro che ascolta e medita una giustizia più saggia, forse, chissà, lei stessa richiama attenzione a sé, si induce a parlare perché troppo è il tempo passato a tacere. Una donna, Clitemnestra, per tutte le donne che credono, si deludono, credono ancora, lasciano fare al tempo inaudito ciò che agli uomini è concesso, finché una donna tra le donne dice no e la tragedia, eterna, scopre in teatro la propria finitezza. (Simone Nebbia)

Visto a Spin Time. Crediti: di Lea Barletti; con Lea Barletti e Gabriele Benedetti; regia di Werner Waas; produzione Barletti/Waas GbR con il sostegno di Florian Metateatro e Consorzio Altre Produzioni Indipendenti

TRASH TEST (di Andrea Cosentino)

C’è un artista nel panorama italiano che da anni porta avanti una ricerca radicale sulla comicità teatrale intesa come rapporto senza rete di protezione con gli spettatori: parliamo di Andrea Cosentino, un comico che gioca senza quarta parete ma non fa stand up comedy e la sua metateatralità non è di maniera. Quello che è stato presentato in anteprima a Carozzerie Not è frutto di una ricerca ossessiva sulle capacità di chat gpt, e proprio per le fluttuazioni date dal tema del lavoro - ovvero il rapporto artistico con l’intelligenza artificiale - anche ogni replica ha il valore di un pezzo della ricerca stessa. Cosentino abita una scena vuota con un computer e un fondale per le proiezioni (dove appariranno le creazioni “letterarie” firmate dal software), l’idea è quella di spingere al massimo delle potenzialità teatrali dell'I.A.. Cosentino ne racconta il funzionamento, ci dialoga tentando imbarazzanti duetti comici in cui le chiede di rispondere a tono a freddure e gag con un’improbabile intonazione abbruzzese. Il risultato è esilarante perché gioca proprio sull’effetto comico disatteso e sulla risposta mimica dell’attore, inoltre questa spalla comica digitale non può uscire dai confini di una ironia di plastica, inclusiva a tutti i costi, e si prende troppo sul serio, ci crede senza avere talento e addirittura si autocelebra spiegando l’efficacia della propria battuta. A ragione dunque l’artista a un certo punto annuncia la “bullizzazione diadattica” dell’attore virtuale, ma questo non si scompone rimanendo tristemente calmo. Il meccanismo è simile anche nella seconda parte dello spettacolo quando viene alzata l’asticella con l’obiettivo di far scrivere a chat gpt le scene di uno strampalato spettacolo distopico con tanto di emergenza climatica e proprio un’intelligenza artificiale da combattere. È incredibile la mediocrità con cui vengono inventate le trame e i toni della scrittura, ma sono incredibili anche la velocità di risposta e le possibilità future di apprendimento. Sarà interessante tornare a vedere questo spettacolo (proprio per l’interrogazione dal vivo dello strumento) tra qualche mese o anno, il futuro è domani. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Carrozzie Not Di e con Andrea Cosentino assistente alla regia e collaborazione alla drammaturgia Andrea Milano consulenza artistica Margherita Masè light designer Massimo Galardini coordinamento tecnico dell’allestimento Marco Serafino Cecchi assistente all’allestimento Giulia Giardi cura della produzione Camilla Borraccino e Francesca Bettalli ufficio stampa Cristina Roncucci comunicazione Francesco Marini produzione Teatro Metastasio di Prato

Cordelia, maggio 2025

MADE IN AMERICA (Tulsa Ballet)

Possiamo meglio accogliere il titolo dell’intenso e vario programma Made in America del Tulsa Ballet presentato al Teatro Comunale di Vicenza, ascoltando direttamente le parole del direttore artistico della compagnia fin dal 1995. Marcello Angelini, in un bell’incontro pubblico, confessa che al titolo lui stesso vi aggiunge, perentorio, «By Foreigners». Lo chiama un internal jocke, condiviso dai membri della compagnia: «fatto in America ma da stranieri». Ed è un bel mònito contro le superstiziose politiche anti-stranieri, che un po’ ovunque nel mondo sovranista si stanno affacciando. La storia del balletto americano è infatti tutta diasporica, un coacervo di identità meticcie inestricabile, spesso diviso tra ospitalità e assimilazione in un paese di migranti. Tale varietà di identità è senz’altro la più importante cifra stilistica del Tulsa Ballet che del suo vasto repertorio ha mostrato qui tre differenti lavori. In tutti e tre si percepisce ineccepibile una tecnica di movimento, a base classica, che lascia trasparire cura e allenamento (della scuola, della compagnia giovane e della compagnia principale) sorvegliatissimi. Il primo, Classical Symphony (2016), è una bellissima coreografia di Yuri Possokhov, su musiche di Sergei Prokofiev (Symphony No. 1 in D major, Opus 25 “Classical”): un virtuosismo anche spesso giocato su difficili equilibri e torsioni del busto (con piroette eseguite in ginocchio!) sviluppano una fluidità del movimento continua e orizzontale, perfettamente organica. In Divenire (2022), il coreografo Nicolò Fonte elabora sulle musiche di Ludovico Einaudi (Divenire, Origine nascosta, Corale, Experience) e di Matteo Saggese e Anna Phoebe (Dancing leaves), un progetto più cotemporaneo, in perfetta consonanza con una musica ciclica e ipnotica: colpisce la figura in chiusura di una interprete sollevata ma inclinata come una revoca di ogni imposta o forzata verticalità. Mentre in Remember our song (2022), Andy Blankenbuheler, “The King of Boroadway”, realizza qui il suo primo (riuscito) lavoro per una compagnia di balletto: l’equipaggio di un sottomarino, di fronte alla morte, evoca le presenze dei propri affetti, sulle note pop di Regina Spektor. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Comunale di Vicenza Vai ai crediti completi

FIN CHE CI TREMA IL CUORE (di Michael Incarbone)

Come danzatore Michael Incarbone è una meraviglia: fluidissimo, preciso, con un incedere quasi senza dispendio, laconico. Al FIC di Catania, festival diretto da Roberto Zappalà giunto alla sua 6a edizione, ha invece consegnato a due straordinarie danzatrici, Erica Bravini e Marina Bertoni, una sua composizione coreografica estremamente suggestiva e piena di destrezza, e di suono, e di buio. In un campo visivo allargato, illuminato da una partitura di luci dinamica e pensata con cura (da Danila Blasi), le due danzatrici (di blu ipnotico rivestite, nei costumi di Giulia Cauti) si alternano in scena o si tengono in gioco secondo una frequenza progressiva e variabile, per vorticose ripartenze e morbide decelerazioni. Le complici (e giustissime) musiche originali (di Filippo Lilli) liberano forze sonore e paesaggi ambientali che riscattano ogni trasparenza, ogni estorsione della visibilità. Bravini è allucinata da un ritmo crescente che continuamente viene messo alla prova come per stanare nello spazio ciò che resta nascosto nella percezione del tempo. Bertoni invece sembra incalzare gli stati del tempo come per far collassare ogni esperienza di abbandono. L’ipnotica costruzione del quadro è inferiore alla meraviglia per tanto virtuosismo di presenza, accentuata dall’uso di aste di metallo come linee che fendono l’aria e poi in bilico sulle teste, nel finale. La danza qui sembra spazzare via, mentre li evoca, tutti i fantasmi e le paure dell’inautentico. Nulla qui è regressivo, nessun voluto ricatto, la danza è tutta nuova. Fanno bene al cuore i versi di Zambrano in esergo al programma. In tanto intelligente virtuosismo, però, non si percepisce alcuna incrinatura, nessuna piega rivela l’incerto, un problematico capace di promessa. Né di caduta. Il settenario del titolo tradisce la pulsione poetica di questo comporre per atmosfere: acustiche, visive e dinamiche, ma sono certo che questa affezione per le suggestioni sarà capace, magari sempre con Zambrano, di accogliere in futuro anche le ombre e le crepe, gli inciampi e le storture, «lo spazio di una notte seguita dall’alba». (Stefano Tomassini)

Visto a  Scenario Pubblico, Fic Festival idea e coreografia Michael Incarbone performer Erica Bravini e Marina Bertoni musiche originali Filippo Lilli disegno luci Danila Blasi dramaturg Valeria Vannucci costumi Giulia Cauti produzione PinDoc con il sostegno del MiC e di SIAE nell’ambito del programma “Per Chi Crea” e della Regione Siciliana con il supporto di ALDES, Anghiari Dance Hub, ATCL – Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio, ORBITA | Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza, Teatri di Vetro / Triangolo Scaleno, HangartFest – festival di danza contemporanea in collaborazione con il Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la Danza Scenario Pubblico/CZD

SEROTONINA (regia Patrick Guinand)

L’uomo di Houellebecq zuppo di misoginia, virilità fallica, fastidio per la puzza degli “altri” (gay, ciechi, poveri, stranieri, senzatetto) e disprezzo per i rattoppi di sinistra messi al reale. Vino e antidepressivi, tra ricordi di scopate e un sentimento di debacle. In Serotonina è sul ciglio d’una fossa che ha la forma d’una stanza asettica, scelta per non lasciare impronte, eredità. Sta dunque a un istante dalla morte, a un passo dal suicidio. Due conseguenze: può dire solo il passato, nell’attimo estremo e dilatato del presente; parla troppo – non per rinviare la fine, come in Beckett, ma per andare vuoto d’ogni peso e sfogo all’aldilà, come in Bernhard. Abita una stanza bianca, poltrona, divano, finestre con tapparelle chiuse su un fondo che a un punto s’apre sul buio (è la notte scelta per non farsi vedere sfracellato), a destra lo scarico dell’immondizia in cui versare vetro, lattine e uova (sabota così la differenziata cara ai borghesi eco-responsabili), a sinistra la custodia che allude a una tastiera e serba un fucile, con cui fa coincidere memoria dell’ascolto di un disco e decisione di farla finita. Ha la chiarezza d’occhi (sotto cui però sta l’abisso), il volto glabro e i gesti di rancore (mai privi d’eleganza) di Andrea Renzi, attorno a cui gira Rebecca Furfaro, che fa da serva di scena, spettro, restanza e controcanto: porta oggetti, partecipa al racconto, commenta certe frasi scuotendo la testa, annuncia il lutto cambiando la sottoveste bianca dell’inizio con una identica, di colore nero. D’accordo, sapere d’un uomo è scoprire un mondo: vale sempre la pena. E Andrea Renzi se ne fa carico testimoniandolo per incarnazione. Ma la letteratura resta (troppo) letteratura. Due ore di parole frontali, corpo pressato in proscenio, disequilibrio tra verbo e azioni, nessuna emersione di un immaginario dalle parole. Che sono portate ma non trasformate sul palco in qualcos’altro. Ciò che vediamo insomma è quel che è, punto. Verrebbe da chiedere al regista Patrick Guinand: qui il teatro in che consiste? E al Nazionale che l’ha prodotto: sicuri di aver fatto la scelta giusta? (Alessandro Toppi)

Visto al Mercadante di Napoli. Crediti: adattato da Serotonina di Michel Houellebecq, adattamento e regia Patrick Guinand con Andrea Renzi e Rachele Furfaro, scene Claude Santerre, costumi Giuseppe Avallone, disegno luci Hervé Gary; aiuto regia Manuel Di Martino, produzione Teatro di Napoli-Teatro Nazionale.

COSTELLAZIONE VICINELLI (di Gruppo RMN)

La ricerca teatrale è fatica, abnegazione, ossessione, lampi di genio, pazienza, anche noia, quella di dover tornare su alcuni concetti, quella di dover ripetere la stessa scena fino a quando “gira” come dovrebbe. Tutto per un risultato effimero ma unico. Il collettivo Gruppo RMN lavora da due anni a un oggetto misterioso: uno spettacolo che possa gettare una luce su una poeta troppo poco conosciuta, Patrizia Vicinelli, ponendosi anche un interrogativo che fa tremare i polsi: cos’è un* artista oggi, chi decide cosa sia un* artista? Il lavoro, vincitore del festival inDivenire 2024 e presentato proprio al debutto allo Spazio Diamante (e poi all’Angelo Mai), comincia da quella commissione fatta da burocrati e consulenti che nel 1990, a seguito di un appello di intellettuali sostenitori, doveva analizzare la domanda che avrebbe portato l’artista bolognese a usufruire o meno del vitalizio. Nella scena vuota ciò che è più visibile è la postazione per la musica live di Leo Merati che accompagnerà lo spettacolo determinandone le atmosfere sonore. Leonardo Bianconi, Luisa Borini, Giulia Quadrelli, Francesco Tozzi raccontano il dispiegarsi stesso della ricerca dando voce alle persone intervistate, quasi facendoci visualizzare il lavoro negli archivi, le discussioni con i professori che a Vicinelli sono stati vicini. E se la teatralizzazione del processo creativo e delle sue difficoltà è ancora da mettere a punto o da ripensare (affinché non risulti una scelta di maniera) è per il tentativo riuscito - civile e culturale - di fermare per qualche minuto la figura sfuggente di Vicinelli che questo spettacolo merita di essere visto: in questa urgenza di trasmettere la febbrile passione per un’artista che incarnava la poesia nelle sue performance vocali, nella capacità e urgenza di dare al verso una potenza visiva, nella sperimentazione incessante che la portava ad attraversare altre forme di arte e rappresentazione, si veda la partecipazione al cast di Amore tossico di Caligari, proprio lei che all’eroina aveva intrecciato la propria vita, fino alla morte per aids nel 1991. (Andrea Pocosgnich)

Visto allo Spazio Spazio Diamante con Leonardo Bianconi, Luisa Borini, Leo Merati, Giulia Quadrelli, Chiara Sarcona, Francesco Tozzi | consulenza letteraria di Allison Grimaldi-Donahue produzione esecutiva Atto Due. Spettacolo vincitore del Festival inDivenire 2024

LADY MACBETH. GOD SAVE THE QUEEN (di Debora Benincasa)

Nello spazio di Z.I.A (Zona Indipendente Artistica), Debora Benincasa si mostra con parsimonia. Inizia il suo monologo, intitolato Lady Macbeth. God save the Queen, dentro una struttura lignea – che diventerà leggio, secretaire, letto, trono – da cui fa emergere ora una mano, ora un tacco, ora il volto, piagato da un’insopprimibile noia, e infine il corpo, modellato in un abito anni ’20, con paillettes da flapper e diadema Art Déco. Ci inchioda con lo sguardo, mentre oppone a tutto ciò che le si posa davanti un sarcasmo zoologico: chiama le serve «piccole ermelline scaltre»; vede negli occhi del marito «padelle da opossum bastonato»; sogna, per il proprio martirio, l’accoppiamento con una mantide religiosa. La scrittura di Benincasa declina variamente il disgusto di Lady Macbeth di fronte all’inerzia del mondo e ne arricchisce la foga e la scaltrezza, desunte da Shakespeare, con una brama da esteta dannunziana, in corsa verso il raggiungimento orgastico del potere. «Non amo che le rose che non colsi», scriveva Guido Gozzano, e così anche lei, una volta raggiunto l’apice del prestigio, prova insoddisfazione contemplando il suo reame: «La vista – ammette – è uguale a tutte le altre». Nel finale, se, da una parte, il racconto dei traumi infantili di Lady Macbeth sembra rispondere frettolosamente alla tendenza contemporanea di rileggere le grandi cattive come ex-buone tradite nell’amore e nell’innocenza (si veda alla voce Maleficent), dall’altra è molto affascinante, coerente e ben preparato il passaggio della regina dal bovarismo estenuato delle prime battute, che vorrebbe cogliere in fallo i propri servitori per provare il brivido di punirli, al suo desiderio di essere sfidata, combattuta e consumata da sudditi – e, in un sottile ribaltamento metateatrale, da spettatori – troppo compiacenti perfino per scongiurarne il suicidio. (Matteo Valentini)

Visto allo Z.I.A. di e con Debora Benincasa co- regia e ricerca movimenti Simone Ceccobelli scengorafia Adele Gamba costumi Simone Randazzo Suono e voci Martino Scaglia e Flavia ChiacchellaLighting designer Andrea Gagliotta produzione Anomalia Teatro

NON DOMANDARMI DI ME. MARTA MIA (di K. Ippaso, regia A. A. Caruso)

New York, 10 dicembre 1936: Marta Abba annuncia al pubblico del Plymouth Theatre la morte imprevista di Luigi Pirandello. Ciò avviene anche in Non domandarmi di me, Marta mia, dramma di Katia Ippaso, la quale recupera, vivificandolo, il carteggio tra drammaturgo e attrice, per la regia di Arturo Armone Caruso. Elena Arvigo, come Abba, informa all'inizio dello spettacolo il pubblico del medesimo decesso, e davvero agli spettatori della Sala Futura dello Stabile di Catania sembra che questo si sia appena consumato. Ma il dramma è soprattutto dentro, nel raccoglimento in cui la Abba di Arvigo si rifugia, tra le numerose lettere che invadono lo spazio del suo appartamento a Manhattan. La scena (di Francesco Ghisu) è una macchina di rumori e suoni (di Maria Fausta) posta al servizio della rievocazione. Cigolii, attriti, melodie e canzonette anni '30 danno avvio al dramma; una valigia, alcuni mobili di gusto déco sono l'essenziale caratterizzazione dello spazio. Tra questi oggetti, in un flebile chiaroscuro, la Abba di Arvigo affronta la sua profonda elaborazione del lutto, ma anche una profonda meditazione sul senso della scrittura e dell'interpretazione. Lo fa attraverso le parole del carteggio, salvate dalla delicata ri-scrittura di Katia Ippaso, il cui testo è opera di recupero poetico, non solo filologico; dalla magistrale interpretazione di Elena Arvigo la quale, nei panni di Abba, ha donato al pubblico non solo la protagonista, ma pure la sua intensa esperienza umana; dalla regia di Arturo Armone Caruso, che ha saputo concedere adeguati tempo e spazio alla presenza dell'interprete. È un bilancio sentimentale, nel senso più puro del termine. Arvigo si addentra in una vulnerabilità delicata e cangiante, sempre lontana da eccessi patetici. Non è soltanto Marta Abba, ma anche le donne che questa ha incarnato: da Nina, che per prima le ha guadagnato la positiva recensione di Praga sull'Illustrazione Italiana, alle numerose pirandelliane (tra le altre: la Madre, Donata Genzi, Ilse) Tutte prendono parte a questo finale colloquio col personaggio, in una rapsodia di lettere, parole, corpo ed esistenze. «La vita la si vive o la si scrive», scriveva il drammaturgo: qui, la si interpreta anche . (Tiziana Bonsignore)

Visto al Teatro Stabile di Catania, Sala Futura. Crediti: di Katia Ippaso, intorno al carteggio Luigi Pirandello – Marta Abba, regia di Arturo Armone Caruso con Elena Arvigo assistente alla regia Giulia Dietrich musiche originali MariaFausta scene Francesco Ghisu disegno luci Giuseppe Filipponio image designer Elio Castellana produzione Nidodiragno/CMC Foto di Manuela Giusto

D’ORO. Il SESTO SENSO PARTIGIANO (regia di Giorgina Pi)

Il regno della memoria e quello dei sogni sono prossimi: in entrambi, le immagini, sottoposte a imperterriti frazionamenti e montaggi, mascherano o suggeriscono speranze, delusioni, paure del passato. A loro, per la stessa ragione, è assimilabile anche il regno del teatro. Deve essere stata questa l’intuizione di Giorgina Pi nel far iniziare D’oro. Il sesto senso partigiano con quattro giovani ragazzi addormentati a cui, in sogno, si presentano otto partigiani e partigiane realmente attivi durante gli anni della Resistenza. Una dopo l’altra, le figure si susseguono sul palco accompagnate da una leggera nebbia e da un oggetto di scena ogni volta diverso (una bicicletta, un forno elettrico, una scrivania…), raccontando le origini e le conseguenze della loro scelta di lotta, le loro avventure, i sacrifici, le violenze, i timori. Gli e le interpreti non sembrano seguire una precisa direzione registica per, piuttosto, affidarsi alle personali competenze e abilità: lo spettacolo assume, quindi, un fare a volte enfatico, dolente e retorico (Francesco Patanè e Aurora Peres), altre volte uno più mobile, ora sarcastico, ora sornione, altezzoso o popolare (Valentino Mannias e, soprattutto, Monica Demuru). Non è disorganico, invece, il modello memoriale proposto da Giorgina Pi, che ricalca quello tradizionalmente inteso nelle tribune politiche e nei monumenti ai caduti: una serie di sepolcri dedicati a personalità eccezionali, oltreumane, degne di indicare un eroico e intatto passato alle giovani ed entusiaste generazioni. Non c’è spazio per le sfumature: le gesta dei patrioti appaiono oleograficamente astratte e imprendibili come in un sogno. Forse non è un caso, allora, che i quattro ragazzi addormentati (attori e attrici non professionisti) piano piano prendano confidenza con la scena e con i suoi protagonisti, vi dialoghino brevemente, si vestano infine da partigiani, con tanto di moschetto e fazzoletto rosso al colo, ma non si sveglino mai, definitivamente intrappolati in un mondo di immagini idealizzate lontano dalla loro contemporaneità. (Matteo Valentini)

Visto al Teatro Nazionale di Genova da un'idea di Gad Lerner e Laura Gnocchi Produzione Teatro Nazionale di Genova Direzione artistica Davide Livermore Drammaturgia, regia e video Giorgina Pi Interpreti Monica Demuru, Valentino Mannias, Francesco Patanè, Aurora Peres e con Silvia Filza, Pietro Muzzini, Mouhamed Ndiaye, Khadija Seye con la partecipazione del Coro di Nuove Partigiane e Partigiani e di Cittadine e di Cittadini, guidato da Mercedes Martini. Crediti completi

SEMBRA AMLETO (di Francesco Zaccaro, Regia Ivano Picciallo)

Un saltimbanco, un giullare, un figurino da varietà, un buffone con le converse. Un ragazzo, un adulto, un figlio. Francesco Zaccaro occupa tutto lo spazio che ha attorno e dentro di sé e attiva tutto il suo corpo – voce, muscoli, capelli – in un monologo che è un attraversamento, una parabola umana, un rito di crescita. In una lingua musicale e ironica, assistiamo a un dialogo mancato, quello con la tomba di un padre il cui fantasma, in spietato silenzio, tarda ad apparire. Ma vediamo anche un confronto diretto (o forse sognato?) con una madre che ormai è altrove, a una distanza indecifrabile, muta anche lei eppure presente e incombente. Il non detto, il sopito, l’eredità di valori e vincoli pesano come un macigno sulla vita di questo quasi-Amleto che non può fare altro che intrattenere i propri morti, riseppellirli dopo averli animati, rimessi in scena: il dispositivo metateatrale più celebre dell’opera shakespeariana qui diventa avanspettacolo, tra tradizione e tradimento, offrendo tanto l’esercizio godibilissimo di sintesi del classico quanto un affondo laterale inedito sulla figura di Gertrude. Zaccaro ripercorre a zigzag la vicenda del principe di Danimarca, spostando nei suoni la latitudine, ma restando ancorato al portato tragico di un’anima persa che prima di tutto è quella di un orfano. Sulla scena la regia di Ivano Picciallo mette solo terra e pochi essenziali simboli (un fiore, uno specchio, una croce), quelli di un teatro di evocazioni che si regge sul corpo dell’attore, sulla sua espressività generosa e scanzonata e su una lingua poetica e immediata, viscerale. Tra le sue mani l’Opera, l’Amleto, è la bussola per non perdere la rotta, o il segno ineludibile di un destino avverso, granitico, che «sta scritto» e contro cui, invece di prender l’armi, giocarsi le rime. Fino a una finale liberazione, rito di imprecazioni impronunciabili, fiume rotto d’amore e dolore, rabbia e resa. Elsinore e Matera stanno a un passo, se di sangue, radici, identità si tratta. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Lo Spazio. scritto e interpretato da Francesco Zaccaro. Regia di Ivano Picciallo. Scene Alessandra Solimene. Luci Joseph Geoffriau. Organizzazione Sonia Polimeno. Produzione IAC Centro Arti Integrate - MALMAND TEATRO

BAÙBO (regia di Jeanne Candel)

«All’inizio abbiamo parlato», tema «cos’è l’amore». Poi una fuga, fermata dal mare. Come mangi il riso, la vergogna d’essere nudi, inventare una lingua perché è solo nostra questa storia. La tua nuca sul collo, starsene chiusi in stanza. E perdersi senza motivo: «È così che l’amore si disintegra?». Agathe ci parla in proscenio, a telo chiuso, con l’uomo accanto che non sa né può tradurre ciò che dice e che prova. Capiamo che: sono passati 647 giorni e 9362 sigarette, lei è «rimasta in albergo», si sente morire. Sipario. Interno, letto sfatto, viso al cuscino. Una sedia a terra, resto d’una sfuriata, una donna in nero (il lutto della sconfitta sentimentale) e un fucile da pesca che Agathe punta al petto. Non s’uccide – altre donne, convocate per un canto funebre la denudano e lavano perché torni a vivere – ma ammazza lui invece simbolicamente, tant’è: va via arrotolato in un tappeto, «è normale abbia fame?» chiede, essendo un morto non morto davvero. Terza parte. Musica, corteo d’oggetti ostentati (il fucile, una pala, un’armatura) per dire che l’uomo è seppellito, la ricerca dello sguardo del pubblico mostrando il pube stampato a mutanda, in ossequio al mito che ispira l’opera: Baùbo, che rimise al mondo Demetra mostrandosi nuda. La regista Jeanne Candel dice che tocca a noi dare senso ai segni proposti. Provo: ripudio d’una mascolinità (sociale, politica, culturale) tossica, il femminile come fertilità salvifica, la dismissione di genere del patimento emotivo. Il passaggio dalla logicità inerte delle parole alla vitalità sussultante del corpo. O una trama di dolore e rinascita. Interessante, ma non per la forma, piena di stereotipie: frontalità, frantumazione testuale, (s)montaggio a vista della scena, richiami alla platea. Tra segni da decriptare e una lunga parte in cui non c’è altro che i musicisti e le musiciste che suonano. Mi chiedo: che ce ne facciamo d’un teatro che non racconta né genera visioni ma s’adopera invece solo ad agire i meccanismi alla base di racconti o visioni? Occhio alla noia, penso citando Peter Brook: dice che qualcosa stasera non ha funzionato. (Alessandro Toppi)

Visto al Teatro Bellini. Crediti: basato sulle opere di Buxtehude, Musil, Schütz e altri materiali, regia Jeanne Candel, di e con Pierre-Antoine Badaroux, Félicie Bazelaire, Jeanne Candel, Richard Comte, Pauline Huruguen, Apolline Kirklar, Pauline Leroy, Hortense Monsaingeon e Thibault Perriard; direzione musicale Pierre-Antoine Badaroux, scene Lisa Navarro, costumi Pauline Kieffer, luci Fabrice Ollivier, collaborazione artistica Marion Bois e Jan Peters, produzione la vie brève-Théâtre de l’Aquarium, coproduzione Théâtre National Populaire, Villeurbanne; Tandem, scène nationale Arras-Douai; Théâtre Dijon Bourgogne, CDN; Comédie de Colmar - CDN Grand Est Alsace;Festival dei Due Mondi, Spoleto; NEST Théâtre - CDN de Thionville -Grand Est; Théâtre Garonne, scène européenne - Toulouse

LE ANIME MORTE (di Peppino Mazzotta)

Le anime morte senza dire i nomi dei personaggi perché la città di N. sia quella di Gogol’ quanto la nostra. Solo una ruota del calesse, degli interni resta una tavola con sopra gli ologrammi di ciò che caratterizza di volta in volta incontri e figure (il grande ricamo, cibo, il fuoco, le candele per una fede falsa quanto l’immagine che vediamo). E dalle 416 pagine la cara struttura dialogica su cui si basa(va) la scrittura teatrale, per la regia fuori-moda e perciò significativa di Peppino Mazzotta, che crede nel valore del testo che ha scelto (nessun riduzionismo pop, nessun abbassamento di livello) e lo coniuga in scena con rigore. Dettagli: il binario/tappeto su cui scivolano le poltrone (l’attraversamento territoriale del libro, che procede per episodi in successione); le proiezioni degli oggetti, coerente con la smaterializzazione delle cose attuata in un romanzo in cui si vendono e acquistano nomi e cognomi defunti; un sentore linguistico meridionale, come fossimo nel Sud de Il gattopardo o I Viceré (la stessa marcia aristocrazia che trasmette modi e immoralità allo Stato borghese). L’orizzontalità che Nabokov vede nella trama resa fisicamente (Cicikov che dorme, il servo che riposa poggiando la testa sulla valigia, la vecchia e l’ubriaco a terra: è la vita già intrisa di morte); un finale che spinge burocrati, possidenti e politici attorno a una giostra (l’eterno meccanismo d’inganno e potere, direbbe Jan Kott) dopo essersi illusi d’aver incastrato Cicikov che, venuto, svanisce: demone tentatore, ha smascherato la nostra corruttibilità. Due pensieri. Il primo, la qualità degli interpreti (nomi nei crediti): in tempi di frontalità, visioni ridotte al proscenio e performer che dicono solo di sé fa bene sapere che resiste la funzione-responsabilità dell’attore (vecchia due millenni) d’incarnare la vita d’un altro per mostrarla al pubblico perché una comunità si rifletta. Secondo: se lo spettacolo non torna l’anno prossimo sarà stato materia gogoliana: sembrava cosa viva, invece il sistema teatrale l’aveva già uccisa. (Alessandro Toppi)

Visto al San Ferdinando. Crediti: testo e regia Peppino Mazzotta, collaborazione alla drammaturgia Igor Esposito, adattamento da Le anime morte di Gogol’, con Federico Vanni, Milva Marigliano, Gennaro Apicella, Raffaele Ausiello, Gennaro Di Biase, Salvatore D’Onofrio, Antonio Marfella, Alfonso Postiglione, Luciano Saltarelli, scene Fabrizio Comparone, costumi Eleonora Rossi, luci Cesare Accetta, contributi digitali Antonio Farina, musiche Massimo Cordovani, produzione Teatro Nazionale di Napoli, Stabile del Veneto-Teatro Nazionale

BACCANTI Fare schifo con gloria (di Giulio Santolini)

Dioniso è caos, bellezza, violenza, sesso, erotismo, potere; è bestemmia e canto, buco nero ed eccesso, rapimento e liberazione, religione e sacrilegio, croce e delizia dell’umano. Dioniso sono loro, siamo noi, è l’Altro/a, è Me stesso/a. Il debutto coreografico di Giulio Santolini (già performer per CollettivO CineticO, Sotterraneo, Enzo Cosimi) si avvale della drammaturgia di Lorenza Guerrini (pure nella stessa compagnia fiorentina) e ha come punto di partenza la più misteriosa delle tragedie. Euripide non avrebbe mai visto in scena le sue Baccanti e forse nessuno avrà davvero capito i significati profondi di questo dilaniante apologo sulla vendetta, sulla ribellione della divinità contro sé stessa, dove serpeggiano – per noi figli del Novecento – i fondamenti estetico-filosofici della “peste” artaudiana. Nella trama si compie la sanguinosa punizione ai danni di chi non crede nella natura divina del figlio di Semele. Nella proposta di Santolini, però, la sorte delle tebane e il sanguinoso culmine orgiastico sono pretesto per un più astratto affresco sulla forma, il movimento e i suoni del rituale. Mariangela Diana, Ilaria Quaglia, Veronica Solari, nude in scena (e in platea, dove strisciano come serpenti), sono come lembi energici strappati al corpo di questo dio indefinibile. Incantano e provocano il pubblico, parlano un affascinante grammelot che nella musicalità rievoca il greco antico, raccolgono dalla platea il proprio Penteo, che ha il corpo dello stesso coreografo e la voce femminile del coro che le stesse tre officianti consegnano, per completare lo smembramento. Estremamente curata e però liberata da vincoli di partiture troppo rigide è la coreografia di questo generoso corpo collettivo; ingegnosa, se ancor meglio accompagnata, sarebbe l’intuizione di vedere nel regista il virus che ferma una completa liberazione del teatro. Se ancora si assapora un gusto acerbo nella gestione dei significati manovrati dalla drammaturgia, colpisce la fluidità con cui un quadro s’inanella all’altro e questa prova pare un ottimo inizio per un percorso autoriale appassionato e complesso. (Sergio Lo Gatto)

Visto al Teatro Fontana. Crediti: di Giulio Santolini; performers Mariangela Diana, Ilaria Quaglia, Veronica Solari; drammaturgia Lorenza Guerrini; assistenza Coreografica Ilaria Quaglia, Elisabetta Solin; sound design Simone Arganini; light design Lucia Ferrero , Marco Santambrogio; tecnica di compagnia Lucia Ferrero; progetto sostenuto da CollettivO CineticO nell’ambito del progetto IPERCINETICO, da SIAE e MiC all’interno del progetto “Per Chi Crea” e da Sotterraneo

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