Recensione. In scena fino al 26 ottobre, Amleto, con la regia di Leonardo Lidi al Teatro Carignano, prodotto dal teatro Stabile di Torino.

Amleto è il bimbo, ingenuo e saggio nella sua follia, che dice che il re è nudo. “Esser re o non esser re” è il dilemma deformato del potere ereditario e dell’onnipotenza infantile, suggerito dalle parole in gioco della interpretazione libera di Mario Pirrello, nella traduzione di Diego Pleuteri (dramaturg) di questo nuovo sfidante capitolo del ricco, instancabile, spesso notevole e mai scontato percorso registico di Leonardo Lidi. Amleto allora è qui, un po’ “the New Yorick”, potremmo dire: è il buffone (clown, in inglese), quello conosciuto da bambino (memoria fondativa, stanza dei giochi), o quel che ne resta, che il principe riconosce nel proverbiale teschio, qui di materia morbida/morbosa/transizionale. È l’agente svelante, che guarda oltre, che dice la verità (come in Re Lear è il giullare, nella galleria dei fool shakespeariani, volendo anagrammare il nome del sovrano per amor di calambour, a mettere in contatto con ciò che è REAL), che colpisce al di là della tenda/sipario il topo, che riesce a cogliere l’essenza (animale, umana troppo umana) al di là del cerone, la verità, oltre al volto, fino all’osso. Lui allestisce, da attore/regista qual è (qui con la complicità di due spettatori, portati sul palco), La trappola per topi, ché “il teatro è la trappola per catturare la coscienza del re” (una delle frasi guida di questa lettura del testo, che del teatro sonda la potenza trasformativa, di conoscenza e politica). E questo pagliaccio è maschera che smaschera (guardando la morte in faccia, denudando il potere), in un mondo in cui sono tutti dei clown, severi, tristi e medesimi (di figure pierrottesche il regista si era già servito, ad esempio, con efficacia nello Zoo di vetro di qualche anno fa, e qui il bianco vira verso il grigio). E clown bianco è persino, e in primis, Amleto, seppur solcato da una V nera di verità e vendetta, e indossando calzari a lutto, costretto in una dimensione sepolcralmente imbiancata, memore della recente Gatta williamsiana del regista (qui il fondale candido, il sipario impermeabile al dolore/colore, il fondotinta a impallidire e nascondere le facce, con l’eccezione del corpo ferita di Claudio, di un rosso jokeresco, ferita crudele che gradualmente invaderà la scena del suo riverbero sanguinolento).

Testo tagliato/ritradotto/ridotto a due ore filate con intelligenza e precisione drammaturgica (e inevitabili scelte e sacrifici: da Fortebraccio al monologo di Ecuba), con grande attenzione alla voce degli interpreti lungo alcuni nuclei portanti e un disegno netto, sondati con coerenza e gusto del rischio, Amleto è messo qui in scena di neve, teorie di sipari che si squarciano e cadono uno ad uno, fino al fondale, circhi giocosi e mortuari (la scena di Nicolas Bovey ricostruisce “un Globe rovesciato e scarno” nota Pleuteri nel programma di sala), abitati da teste decapitate e parrucche, costumi in toni di grigio (ancora un’allusione ai ratti?) che camuffano i corpi e il cuore (Aurora Damanti lavora fra Fellini e il 600 en clownerie: la parrucca del principe di Danimarca occhieggia a Carmelo Bene, Rosencrantz e Guildenstern sono due travestiti/puttane con protesi di gomma piuma, ma tutti i personaggi appaiono deformati da abiti e imbottiture, per poi gradualmente disfarsene come corazze).

L’eroe moderno è incarnato con compiaciuta provocazione e toccante inquietudine (anticasting spiazzante e geniale per età e accenti emotivi) da Mario Pirrello, Pierrot al di là del Bene (si è detto degli echi di Carmelo) e del Male, che abita (è abitato da) un mondo di pazzi e di pupazzi (quelli di Damiano Augusto Zigrino e Silvia Fancelli danno vita al fantasma del padre e al teschio di Yorick). Si tratta di una sorta di vecchio infante, un puer senex sottilmente capriccioso, molesto e istigatore, che continua a giocare (la parte del folle) elaborando il dolore (con declinazioni incestuose), fra lutto e letto (parole, parole, parole, con cui gioca la prole). È un attore, nella sua essenza, al quale il dolore e la perdita fanno sciogliere gradualmente la maschera, sotto lacrime e sudore. “Trattali bene gli attori, sono l’essenza di un’epoca” è chiamato il pubblico a ripetere, e a interpretare. Come un lettore partecipe e coinvolto, disturbato, portato a spingersi e sporgersi sull’abisso: un trampolino, aggettante verso la sala, va oltre il proscenio, e su questo spazio liminare sfilano gli interpreti, sul vuoto dell’anima e sulla teoria di teschi rappresentata dagli spettatori in sala, chiamati a svegliarsi, destinati in ultimo alla terra.

Lidi lavora molto bene, con un “cast famiglia” selezionato con cura e giustezza, che sembra apportare sempre contributi e guizzi imprevisti alla drammaturgia. Se Pirrello svetta e graffia, ciascuno funziona, rende il gioco credibile, rivelatore, vibrante. Colpisce su tutti l’Orazio burattinaio di Christian De Rosa e l’Ofelia persa nel canto e portata in primo piano di Giuliana Vigogna.
Focalizzandosi sulla dimensione teatrale bifronte di Amleto (commedia, infingimento, recita del dolore e insieme stratagemma dell’imitazione per far emergere il vero), attraverso un lavoro sugli attori che un regista-attore sembra operare con felicità e facilità, a partire dalle scelte di casting, Lidi rivela una visione del mondo rappresentato fatta di materia ludica e clownesca, senza tuttavia smarrire il tragico, anzi facendolo emergere per contrasto, con forza imprevista. Lo fa, lasciando il segno e inventando il sogno, giocando e facendo giocare i suoi interpreti con oggetti, attese, levità (castelli/tende per bimbi, flauti smontabili e flatulenze, spade giocattolo e martelli da slapstick), firmando una versione di Shakespeare nuova, compatta e coerente, allucinata e regressiva, svelante e grottesca, che squarcia le recite dell’uomo con la potenza della scena. Trappola per topoi, il capolavoro del Bardo qui è illuminato, in un candore antirealistico di penetrante verità, da un senso che ci mette in gioco. Il tutto ha un odore di mai visto, una natura di confine, in cui lo spettatore è chiamato a rispondere e a uscire dal già noto e dal comodo. Ma non è questo mondo altro che t’interpella, che nel classico e strasentito ti permette di sentire l’inudito/inaudito, l’unico modo di interpretare, di fare regia, svelando tutto ciò che resta “nascosto dietro la stoffa crudele del sipario”?

L’interpretazione di Pirrello spiazza e funziona. Solo l’attore catalano Joan Carreras in Història d’un senglar (o alguna cosa de Ricard) dell’uruguaiano Gabriel Calderón (visto ad Avignon lo scorso anno, riscrittura di Riccardo III) ha impresso di recente, per mia esperienza, analoga irriverente forza interpretativa a un personaggio shakespeariano. E per coraggio, e in parte direzione (tesa a rinvenire il nucleo comico del tragico, e viceversa), il lavoro di interpretazione di Lidi mi ha ricordato una rilettura in forma di slapstick comedy (pur senza alterare di una virgola il testo!) che ha fatto del Macbeth, con estro radicale, il regista danese Johan Simons (vista al Theater Treffen di Berlino del 2024). E se Antonio Latella, col suo Amleto al Piccolo Melato, ha fatto un lavoro di scavo abissale e riattraversamento in profondità sul testo shakespeariano, site specific, con Federica Rosellini in controcasting tutto fuorché banale, firmando una versione memorabile, anche qui il confronto di Lidi con l’arciclassico, l’opera mondo è un passaggio importante della sua costruzione d’autore. Se Christiane Jatahy non convince totalmente nella sua lettura femminista e contemporanea passata lo scorso anno all’Òdeon (anche se, con grande intuizione ironica, immagina Ofelia che esce di scena rifiutando di sottostare al suo secolare destino femminile infausto), qui il rovesciamento di alcuni cliché interpretativi lavora a fondo, e scardina lo sguardo, senza perdere di presa sul pubblico. E così il capolavoro del Bardo sembra ancora riservare, la sfida di Lidi ne è una prova tangibile, lati e riverberi inattesi, funzionando da cartina di tornasole e prova di bilancio di un percorso registico.

Se poi accade pure che, all’attacco dell’essere o non essere, uno spettatore si alzi, probabilmente per banali necessità fisiologiche, inconsapevolmente citando il Lubitsch di Vogliamo vivere (To be or not to be), il cortocircuito fra tragedia e commedia, fra intenzioni espressive e accidenti ricettivi, prende allora una piega che non stona affatto nella versione di Lidi, anzi la illumina di una ulteriore luce (tanto che si potrebbe sospettare nell’accidente persino il suo zampino).
Matteo Columbo
Visto l’8 ottobre 2025 al Teatro Carignano di Torino (dal 6 al 26 ottobre)
Amleto
di William Shakespeare
traduzione e adattamento Diego Pleuteri
con (in o.a.) Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Rosario Lisma, Nicola Pannelli, Mario Pirrello, Giuliana Vigogna
regia Leonardo Lidi
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Claudio Tortorici
cura movimenti scenici Riccardo Micheletti
puppets Damiano Augusto Zigrino e Silvia Fancelli
regista assistente Alba Porto · assistente regia Eleonora Bentivoglio
assistente scene Nathalie Deana
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale











