Recensione. Un doppio sguardo sulla produzione del Teatro Stabile del Veneto dedicata al testo di Peter Handke, Ancora tempesta (Immer noch Sturm) visto al Teatro Goldoni di Venezia, con la regia di Fabrizio Arcuri. Nel primo articolo viene esplorato l’allestimento l’allestimento teatrale e nel secondo la scrittura dell’autore Premio Nobel per la letteratura nel 2019

La finzione del teatro per far rivivere gli spiriti del passato
La prima immagine è molto suggestiva: si alza un sipario orizzontale e due fari laterali sistemati su piantane ad altezza uomo illuminano la scena, questa in gran parte è coperta da una nuvola di fumo, altre colonne di fari bucano la foschia da dietro. Dalla platea un soccorritore, con un cane, sale sul palcoscenico e si dirige verso la parte sinistra della scena: la luce azzurra proveniente dal caschetto dell’uomo rende maggiormente visibile un ammasso di macerie, il cane fiuta qualcosa, prima un uomo e poi una donna vengono portati in salvo dalle macerie e poi un altro ancora, intanto fischi di missili ed esplosioni in sottofondo, di una guerra lontana ma non troppo.
Con questa introduzione Fabrizio Arcuri quasi sembra volerci far attendere sulla soglia prima di entrare nel mondo dei ricordi e delle riflessioni di Peter Handke, ci lascia lì a confrontarci con i fantasmi non del nostro passato ma del nostro presente, le macerie di Gaza o quelle di Charkiv.
Qualcosa che rinasce dalle macerie di una guerra è l’impulso di partenza; ecco allora che i fantasmi del passato, i parenti del nostro protagonista hanno giusto il tempo per scuotere via la polvere dai loro vecchi abiti rurali e sistemare le vecchie sedie in legno su cui prenderanno posto. È a questo punto che le note By This River di Brian Eno cominciano a mischiarsi con l’atmosfera della scena: un albero di rosse mele, come un miracolo posticcio, si erge sulle macerie mentre Filippo Dini sale le scale di una piccola piattaforma sormontata dallo scheletro stilizzato di una casa stretta e col tetto spiovente. Al centro del palco una telecamera inquadra l’attore il cui volto verrà proiettato sul fondale; ha una abbigliamento casual, tiene gli occhi chiusi nell’atto del ricordo, con forza, come se volesse per un sortilegio cercare di far tornare in vita quelle immagini: è la brughiera ad apparire, la scena di cui parla è quella della memoria, la terra natia; con le campane della chiesa del paese «io e mia madre ci teniamo per mano». Ed con l’apertura degli occhi, come a riconoscere che l’atto del ricordo è anche l’atto del teatro inteso come macchina in grado di far apparire i fantasmi – però in carne ed ossa -, che il protagonista di Ancora tempesta riconosce di fronte a sé i propri antenati.

Il testo del Nobel Peter Handke è del 2015 ed è una sorta di seduta spiritica letteraria e teatrale, ma i parenti scomparsi decine di anni prima, che ora circondano o sormontano il cumulo di macerie, sono giovani, sono più giovani di colui che li ricorda e non si comportano da apparizioni metafisiche o morti viventi, ma rispondono, commentano, tirano fuori bandiere che identificavano confini balcanici che non esistono più. «Madre, in che tempo siamo?». I giovani ed efficaci attori (Margherita Mannino, Simone Pedini, Jessica Sedda, Michele Guidi, Isacco Bugatti, Tommaso Russi) prendono posto di fronte alla telecamera presentando il loro personaggio attraverso un leggero distacco metateatrale. D’altronde l’idea scenica mette in evidenza l’aspetto finzionale e anti rappresentativo grazie alle luci a vista di Giulia Pastore e alla scena scarna di Daniele Spanò, ma i sentimenti che agitano il racconto del protagonista e del coro degli antenati sono autentici nella voce e nei corpi degli interpreti. Dini rimane seduto tra la piattaforma e le scalette con il compito – non semplicissimo – di rendere vivo un discorso sulla memoria e l’identità che non contiene svolte drammaturgiche e che per tenere teso il filo dell’attenzione con il pubblico necessità della tecnica e dell’ironia dell’attore genovese, ma anche della trama scenica costruita da Arcuri tra i corpi e lo spazio. Frammenti di storia di un popolo, piccole storie di donne e uomini, di una famiglia degli anni ‘30 prima della guerra, sole e neve, l’orgoglio per la lingua, “un popolo di servi con paghe da fame”.

La regia di Arcuri mette in luce conferendo corpo teatrale e con il passare dei minuti muta anche il quadro visivo, come quando il bellissimo disegno luci fissa sul fondo le ombre della casa stilizzata, prima che una transizione ancora sulle note di Eno faccia apparire un’altra struttura scenografica: ora il piccolo skyline è completo, ed è efficace il contrasto tra i corpi tridimensionali e la bidimensionalità di gran parte della scena. Intanto le immagini del passato e quelle del presente si mescolano, qual è il ruolo della nostra coscienza in relazione ai nostri antenati, alle loro azioni, a ciò che hanno costruito o distrutto?
Il racconto del popolo in guerra porta concitazione e movimento, anche un filo più semplice da seguire per la platea: i boschi diventano il nascondiglio per fuggire dalla guerra dei tedeschi e un grande dipinto colora con colline verdi e rosse di un autunno infuocato il fondale. “La violenza è altrove”, da un’altra parte riflette Dini/Handke, è il privilegio della pace che contrasta con le violenze sopportate dagli avi, Ursula le racconta al microfono mentre l’eco della sua voce è accompagnato da una chitarra elettrica, la partigiana Ursula morirà in braccio al fratello: prima di rimanere immobile cadrà e riabbraccerà l’uomo, come nella celebre coreografia di Café Müller. Rimane da solo in proscenio Filippo Dini, per poi sparire nel buio della platea: lasciaci perdere, siamo stati sconfitti, lo aveva apostrofato uno dei vecchi parenti prima che la scena si chiudesse definitivamente dietro di lui portandosi via la memoria. Non c’è spazio per il ricordo, conta solo il presente.
Andrea Pocosgnich

La storia siamo noi*
«Accade che, dal concepimento di un’idea alla sua produzione in forma di parola, un processo faccia a pezzi l’articolazione razionale riorganizzandola in una struttura nuova». Queste parole le raccoglieva il saggista Ian Buruma dalla voce di Peter Handke (Premio Nobel per la Letteratura 2019) in una conversazione filmata al MoMa di New York, nel marzo 2015.
La scrittura è una delle tecnologie del linguaggio che lascia maggiori libertà: una struttura che può essere continuamente aperta, chiusa, scomposta, dilaniata, lenita, curata, aggiustata, rovinata, uccisa e riportata alla vita. Nei confronti di una complessità come quella proposta dal grande scrittore austriaco non si può fare a meno, a priori, di accettare una perdita e – si vedrà – una tragedia, fenomeno che vive già, fin dai primi vagiti, dentro l’atto della scrittura, nella forma di una scomoda ma irresistibile idea.
Ripercorrendo la microstoria della meticcia Carinzia dell’Antico Regime, Ancora tempesta è un muro di parole in forma di monologo che si organizza in cinque quadri brutalmente frontali; un’epica della narrazione che solo all’apparenza sembra rifuggire il teatro, ma che appena la si alza in piedi su un palco esplode in un grido di teatralità pura, dove i personaggi acquistano la potenza di inesorabili archetipi, dove del ritmo pensato dall’autore sopravvivono gli accenti, le cesure, i tacet e le operazioni mesmeriche, che fanno immaginare carne e ossa delle figure convocate o anche solo evocate.

In principio, per noi, era la traduzione, un’impresa titanica atta a ricostruire il complesso della narrazione e la lingua che lo emana a partire dall’ipotesi di potersi immaginare non già traduttrici, ma una sorta di doppio dell’autore stesso. È ciò che di certo hanno fatto Angela Scròfina e Ylenia Carola, alla firma per i tipi di Quodlibet, base offerta al lavoro di scure e cesello di Fabrizio Sinisi, di certo tra i più sensibili drammaturghi e dramaturg del nostro presente. Per loro e per lui la posta in gioco è quella di allinearsi sullo stesso fronte che, in altro tempo e altro spazio, è stato occupato dal pensiero di chi scriveva e di riportare dentro le sonorità di un’altra lingua gli echi e le dissonanze di un incantesimo narrativo fatto a strati eppure reso liquido, di rado portato a un tale livello di intimità.
Se la scrittura di Handke promulga regole rigorose eppure pronte all’azzardo di ascoltarsi violate dall’ingresso della voce viva, nella traduzione avviene un passaggio ulteriore, una ulteriore mutazione, perché avviene un’ulteriore perdita, quella della musica. La lingua, nelle sue fasi radicali, quelle ancora attaccate al concetto di logos, si appoggia alle consuetudini del parlato, al gesticolare, al codice del corpo e delle espressioni facciali.
Già dalle prime righe di Ancora tempesta si trovano tracce di un salto di specie; una scrittura per il teatro che si mistifica facendo il verso alla forma romanzo: non ci sono battute, non ci sono scambi netti, non ci sono passaparola. La prosa somiglia, nei contorni, alle architetture brutaliste, apparentemente refrattaria a qualsiasi messinscena, un attimo prima di scoprire che proprio tra i mattoni di quell’edificio testuale si nasconde, espressa in una lingua dirompente, la natura stessa di un evento teatrale.
«Una brughiera, una steppa, una landa stepposa oppure altrove. Oggi, nel Medioevo, oppure in un altro tempo. Cosa vediamo? Al centro della scena c’è una panca senza tempo e accanto, dietro o in un altro punto, un melo con circa 99 mele, mele primizie, quasi bianche, oppure tardive, di color rosso scuro. La brughiera appare leggermente in pendenza, accogliente. A chi si mostra? A chi appare così? A me, qui ed ora». Prima che si possa intuire il flusso di argomenti, Ancora tempesta dichiara il proprio mito di fondazione nel paradosso: c’è la descrizione precisa di uno spazio che tuttavia può essere immediatamente anche il suo contrario; fin dall’incipit, ciò che la pagina propone è l’esatta via mediana tra la restituzione epica di un mondo che non esiste più e la bislacca messa in dialogo del mondo che sarà e che è.

Nel continuo avanti/indietro tra un’impressione (in senso fotografico e materiale) e un’altra, il tentativo è quello di dare forma verbale a un processo che sta molto prima della parola: la memoria. Qui la memoria distorce l’età, distorce le dimensioni, distorce i colori; l’intero testo è una descrizione continua, senza pause, una carrellata di immagini il cui ritmo è assegnato da una punteggiatura aperta alle ambiguità dell’interpretazione, come fosse pronta a inchinarsi alle incertezze del parlato.
Di questa ellittica e forsennata mappatura, apportando generosi tagli e compattando scene a disegnare una catabasi quasi divertita nel rimorso di non avere una terra, Sinisi conserva il piglio e il modo appuntito, consegnato a un protagonista programmaticamente smarrito (il Filippo Dini di cui si è detto) e a una regia, quella di Fabrizio Arcuri, che da sempre corre, e qui con indubbia perizia, sul filo di lana che unisce presentazione e rappresentazione.
Il personaggio del nonno non può sentir pronunciare la parola “tragedia”, ma l’io narrante specula: «Se la nostra storia non è una tragedia – allora cos’è? – La premessa per una tragedia è: essere divenuti attivi, divenire attivi, in un modo o nell’altro. E la nostra natura è sempre stata anti-tragica e di conseguenza, con il tempo, anche contraria all’azione». Il protagonista, intrappolato in un onirico bardo, si scopre più vecchio di tutti i propri antenati, come un fantasma che vada in giro alla ricerca, via via, del corpo più adatto ad attraversare ogni soglia. L’idea di interruzione, posta come mito di fondazione di questo viaggio nel tempo, Handke la vive in quanto austriaco, membro di una comunità di cui il secolo scorso ha decretato l’insostenibile frammentarietà; sbiadita e sopita se ne sta una memoria di quando c’era l’Impero, di quando le province periferiche mettevano insieme etnie e culture diverse sotto lo stesso controllo centrale. Poi la prima Grande Guerra avrebbe fatto a pezzi tutto.
Di padre tedesco e madre slovena, la cittadinanza spuria di Handke si fa qui tramite per una comprensione più lucida della Storia, che va guardata con occhi infanti. Goethe scriveva: «Se sei un bambino sei invicibile»; gli fa eco e però lo corregge l’autore quando, nella conversazione già citata, rivela: «Sono lontano dall’idea dell’infanzia come innocenza. L’artista è artista proprio perché vive la realtà come una sorta di sogno. Ed è un sogno per adulti». In Ancora tempesta l’infanzia è uno strumento allegorico attraverso il quale passa un intero flusso di ragionamenti, di visioni, di evocazioni, di ricordi, di preghiere, di tentativi di perdono, mentre il protagonista si fa bambino, adulto, madre, zia, fratello lontano, soldato cantore della Carinzia, vecchio custode di tradizioni deluso dalla macchina della Storia che trita le ossa dei popoli e ne ricovera le anime in un amaro purgatorio. Ed è così – e va reso merito a chi ha prodotto, adattato, diretto e interpretato lo spettacolo che abbiamo visto – che la parola “tragedia” si riguadagna il proprio senso originario, riportandoci alla dimensione di un racconto in cui si accetta di smarrire fin da subito ogni posizione, aprendosi a un semplice e terribile verità: di quella Storia siamo responsabili tutti. E mai come oggi questa consapevolezza ci fa rabbrividire.
Sergio Lo Gatto
*Alcuni brani di questo scritto sono stati ispirati dal progetto La terra sonora. Il teatro di Peter Handke e pubblicati, a firma dell’autore, nell’omonimo volume a cura di F. Fiorentino, C. Miglio, V. Valentini, edito da Istituto Italiano di Studi Germanici, 2017.
Visto al Teatro Goldoni di Venezia, maggio 2025
ANCORA TEMPESTA
di Peter Handke
dramaturg Fabrizio Sinisi
regia Fabrizio Arcuri
con in ordine di apparizione Filippo Dini, Margherita Mannino, Simone Pedini, Jessica Sedda, Michele Guidi, Isacco Bugatti, Tommaso Russi
scene Daniele Spanò
costumi Sonia Marianni
luci Giulia Pastore
ambientazioni sonore Giulio Ragno Favero
assistente alla regia Sonia Soro
produzione TSV – Teatro Nazionale
copyright Suhrkamp Verlag AG Berlin
per intermediazione di Agenzia Danesi Tolnay
si ringrazia Black Dogs Cinofilia per la partecipazione di Chabal e di Luigi Mantovan
lo spettacolo si inserisce nel progetto della Compagnia Giovani, parte dell’Accordo di Programma tra Regione Veneto e Teatro Stabile del Veneto per la realizzazione del Progetto Te.S.eO. Veneto – Teatro Scuola e Occupazione (DGR n. 1646 del 19 dicembre 202 2).