| Cordelia | novembre 2024
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di novembre 2024 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
#ROMA
LA COPPA DEL SANTO (Gli Omini)
Toscanacci e anticlericali, radicali e poetici, demenziali e intelligentissimi, Gli Omini se ne vanno in giro per la penisola ormai da quasi vent’anni con il loro baule pieno di trovate comiche acidissime. Sono anche dei rabdomanti di storie, dato che molti dei loro progetti prendono vita da vere e proprie indagini antropologiche, dalle piccole province alle periferie delle grandi città. L’ultima formazione degli Omini è composta da Francesco Rotelli, Luca Zacchini, Giulia Zacchini: se la terza è una drammaturga i primi due sono attori, tra i migliori in circolazione, va detto. A Roma non tornavano da un paio di anni e nella prima delle due repliche al Basilica se la sono dovuta vedere con un pubblico composto da pochissime unità, per uno spettacolo che si basa interamente sull’interazione con la platea. Eppure La coppa del santo ha dimostrato di essere un congegno di precisione divertente e irriverente, in grado di nutrirsi delle storie dei santi per per creare un viaggio tra leggende popolari e distorsioni ironiche: la comicità - da sempre il campo d’azione principale degli Omini - qui è una frustata all’improvviso sulla morale comune, una scossa elettrica sul fenomeno dell’iconografia devozionale e su certe derive della società di massa; come nel caso di Padre Pio, un santo che «ha trasformato un’amena cittadina di provincia nella Gardaland del cattolicesimo». I mitici religiosi sono raffigurati su grandi carte appese su una griglia parallelamente al pubblico. Nei disegni di Luca Zacchini però non sono antropomorfi, sono dei pesci, tutti, perfino il valoroso San Giorgio o la biondissima Maria Maddalena. Scopo della serata, presentata da due preti "psichedelici", è far gareggiare i santi e le loro storie, sarà il pubblico a determinare il vincitore: cominciano i martiri contro i crocifissi e poi una carrellata di santi popolari e santi che sembrano inventati ma invece esistono davvero, come la Santa Nonna o la Santa Barbuta. Piccole storie al vetriolo che, in questa epoca di perbenismo, ci fanno ricordare dell’importanza della libera risata in libero Stato. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Basilica: Disegni di Luca Zacchini. Scritture di Giulia Zacchini. Con Luca Zacchini e Francesco Rotelli.
IN FONDO AL CAMPO (di Giulia Bartolini)
Lucia (Zoe Solferino), detta anche “Miss Ufo”, vive isolata nel centro della Sardegna, è stata una ricercatrice scientifica, una di quei geni che di solito esportiamo all’estero. Ora imbraccia un fucile, ha paura, ed è arrabbiata. «Una pazza» che riceve la visita di una giornalista, Martha (Grazia Capraro), che deve intervistarla a proposito del suo rapimento. In fondo al campo scritto e diretto da Giulia Bartolini è andato in scena la scorsa settimana in prima nazionale al Teatro Torlonia e inserito nella rassegna Flautissimo, che dal ‘91 viene organizzata dall’Accademia Italiana del Flauto. La scena è scarna, molto estesa ai lati e in profondità, e senza quinte; il vuoto tutto intorno e in alto ottunde le battute rendendo le parole a volte distanti e ovattate. La prossemica è quasi bidimensionale, su una linea, le due attrici agiscono in proscenio e occupano il retro solo nel finale per restituire la profondità del campo d’orzo dove è avvenuto quello strappo nella mente e nel corpo di Lucia. Quegli «8 minuti» in cui tutto cambia per non cambiare più, che ci lascia invischiate nello scollamento dal reale e nella fatica quotidiana di uscire fuori dal limbo. Come dirà più volte Lucia – la reiterazione, fino alla non sopportazione, è un elemento distintivo del testo, come un autismo dei personaggi – questo rapimento le ha fatto esplodere il suo cervello da Nobel: «tutto quel cervello, eccolo… materia grigia spiaccicata». La drammaturgia è costruita su queste amnesie e rimossi, ma più che sulla sottrazione si sviluppa sull’accumulazione: gli a parte di Martha – per disequilibrio dei ruoli, conosciamo più l’intervistatrice che l’intervistata – generano un’entropia di senso che si discosta dalla suspense, centellinata, dell’inizio. L’interpretazione è specifica, matura per entrambe, il senso del testo, invece, sfugge a una chiara comprensione e quando si legge nelle note «è un testo al femminile ma non femminista» resta il dubbio che si sia voluto scegliere necessariamente una dicitura per definire un tema sulla carta che in scena tema però non diventa, e non basta a centrare il testo. Le protagoniste sono due donne, certo, ma con questo non è automatico che l’elaborazione dei traumi delle loro vite scelga il punto di vista di genere e tralasci quello politico, o viceversa. I due aspetti possono invece essere interdipendenti ma in questo caso non sono organici, anche se volessimo separarli, e risulta fuorviante indicarli solo perché in scena assistiamo a un testo scritto, interpretato e “che parla di donne”. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Torlonia durante Flautissimo rassegna multidisciplinare: di Giulia Bartolini, con Zoe Zolferino e Grazia Capraro, regia e drammaturgia Giulia Bartolini, attrici Grazia Capraro, Zoe Zolferino, musiche Vanja Sturno, scene Compagnia KARL, produzione Flautissimo festival/ Stefano Cioffi e Compagnia KARL, foto di scena Francesca Cassaro. In collaborazione col Teatro di Roma (Lucia Medri)
#GENOVA
LA SIGNORA DELLE CAMELIE (regia di Giovanni Ortoleva)
La signora delle Camelie, di nuovo, questa volta nella versione teatrale per la regia di Giovanni Ortoleva. Siamo abituati a sentircela raccontare così: la misteriosa mantenuta, tanto avvenente quanto malata, con il suo mazzolino di camelie a segnalarne la disponibilità, spezza il cuore al giovane Armando Duval (Alberto Marcello), abbandonando la loro vita in campagna, per poi rivelare sul letto di morte di essere stata costretta dal padre di lui a rinunciare alla felicità di un futuro insieme. Come nelle storie più classiche, c’è un narratore (Gabriele Benedetti) che, con le sue parole, evoca ambienti lussureggianti dove, nella realtà, non c’è nulla, un palcoscenico spoglio animato dalla sola presenza dei cinque personaggi in scena, se non fosse per un palchetto mobile, dove fa la sua comparsa, nel suo abito candido, Margherita (Anna Manella). Distante, remoto oggetto idealizzato del desiderio, la donna trasuda il fascino letale di un buco nero che si spalanca di fronte agli occhi di chi sta per esserne inghiottito, una traviata che può solo far deragliare dal percorso prestabilito e risucchiare le risorse dell’amante di turno: è così che viene presentata Margherita dalle dicerie del demi-monde parigino, che si perpetuano negli sguardi e nelle parole della protettrice Prudenza (Nika Perrone) e dell’amico Gastone (Vito Vicino). Parole che compromettono la reputazione di Armando, il quale, geloso e possessivo, nel momento in cui la sua amata fugge, viene animato da propositi di vendetta in un crescendo delirante di sonorità elettroniche e luci intermittenti. Ma non viene permesso ad Armando (o, sarebbe meglio dire, Alexander Dumas figlio) di riscattare ancora una volta la sua porzione di colpe tramite il sacrificio di Margherita. Nella versione di Ortoleva la donna scende dal suo piedistallo, puntando il dito contro l’autore che l’ha trasformata in un immortale simbolo di perdizione per redimere la sua anima. Ancora, dunque, la storia di Margherita Gautier, ma anche di Alexander Dumas e di una maschera fragile che, dietro pretese di possesso, cela un profondo senso di inadeguatezza. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse, sala Aldo Trionfo. Liberamente tratto dal romanzo di Alexandre Dumas figlio drammaturgia e regia Giovanni Ortoleva dramaturg Federico Bellini scene Federico Biancalani costumi Daniela De Blasio musiche Pietro Guarracino movimenti Anna Manella disegno luci Davide Bellavia
ALFONSINA ALFONSINA (di Laura Curino)
Il pubblico riempie la sala, animandola con il suo vociare. Poi, il sipario si alza. In scena, una copia di un ready-made di Duchamp, Ruota di bicicletta, e quattro pareti di simil-ardesia sfruttate come lavagne. Fa la sua entrata la sfavillante protagonista, Laura Curino, che riesce a concentrare nella sua persona energica vari ruoli, intercambiandosi tra di loro senza il minimo sforzo apparente: diventa così narratrice della vicenda, poi madre e padre di Alfonsina, e la stessa protagonista da bambina e da adulta, riuscendo a distinguere tra i personaggi della vicenda tramite precise inflessioni della voce, cambi d’abito e gesti ricorrenti. La messinscena viene accompagnata da resoconti scritti su ritagli di giornale e filmati d’epoca accompagnati dalla voce della stessa Curino, manipolata in modo da confondersi con quella di un cronista. Si ripercorre la vicenda di Alfonsina Strada, moglie del ciclista Luigi Strada, e come, per una serie di circostanze fortuite, sia arrivata ad essere la prima e unica donna a partecipare al Giro d’Italia nel 1924. Dalla sua passione per le lunghe corse in bicicletta fatte di nascosto dal padre, la narrazione si focalizza sul trasferimento a Torino e poi a Milano, fino alla partecipazione al Giro di Lombardia, premessa importante alla sua grande impresa ciclistica. La bicicletta si fa sinonimo di emancipazione e libertà per Alfonsina, diventando il mezzo per sfuggire dal “fosso” in cui è cresciuta, nelle campagne dell’Emilia-Romagna, e dai suoi pregiudizi. Una storia di eccezionalità nell’ordinario che diventa appunto atipica in favore di una componente di “eccellenza femminile” in un ambito dominato dagli uomini, come lo è ancora oggi il mondo dello sport. Dagli anni Venti ad oggi, di strada ne è stata percorsa verso la parità di genere, ma il traguardo è ancora lontano: come Alfonsina, occorre mettersi in sella alla bicicletta e pedalare, affrontando ostacoli e impedimenti, nella speranza di poter azzerare, giorno dopo giorno, i chilometri mancanti. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro Eleonora Duse, Festival dell’Eccellenza al Femminile Produzione Schegge di Mediterraneo, Festival dell’Eccellenza al Femminile, Contato del Canavese Regia e scenografia Consuelo Barilari Drammaturgia e interpretazione Laura Curino
#RAVENNA
ARSURA (Gruppo Nanou)
Una indistinta figura appare nell’ombra che ancora permane, tra il reverbero che anticipa l’intensità di una entrante luce rossa. Appare come dal niente. Non ne percepiamo ancóra l’identità, ma la natura articolare di un corpo in azione che si muove senza centro. Più lo spazio si chiarisce vasto, e più la figura danzante diminuisce. Ma non d’intensità: solo nei rapporti fra gli schemi motori e il circostante. Qualcosa sembra con insistenza voler restare nascosto: mentre si espone e si anima al tempo dell’azione, qualcosa pensa di interporsi e disertare la presenza. Creando un bruciore, una nera tensione, un calore immerso nel buio. È Arsura del Gruppo Nanou, progettato e coreografato da Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, da quest’ultima danzato. Ha il volto coperto, annullato, o forse amplificato dentro questo costume (da lei progettato insieme a Arianna Gasparotti e Alberto Groja), che è il rovescio dell’identità, e che spiana dislivelli o asperità. Vi è, per tutto il pezzo, una continuità del movimento che impedisce qualsiasi distrazione, qualsiasi sospensione dell’attenzione: il fluire e lo scorrere, nel rosso e nel buio e nel breve blu intenso di queste luci materiche, espansioni coreografiche ben oltre la creazione della danza vera e propria, e il corpo in movimento. È anzi un decentramento del corpo come modello coreografico dominante, e un tentativo (ma è tutta la storia di questa compagnia ravennate che festeggia quest’anno il suo ventennale, e che meriterebbe davvero riconoscimento) di ammettere la molteplicità attraverso nuovi paradigmi compositivi e dispositivi scenici. L’ambiente sonoro è ugualmente una costellazione generativa, raccoglie le intense spazialità di Ryoji Ikeda, «un suono campionato di un neon rotto a firma di Roberto Rettura, confondatore di Nanou», e un brano dei Chromatics, «usato nella prima puntata della terza stagione di Twin Peaks come musica di coda» (così mi aggiorna Amico). Tutto però qui converge in quel silenzio finale, prolungato, una muta attesa che rimanda la fine, e crea una soglia temporale questa sì ferma, bloccata, spenta, ma capace di cattura. (Stefano Tomassini)
Visto alle Artificerie Almagià. Progetto, coreografie e scene Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci luci e colori Marco Valerio Amico costumi Rhuena Bracci, Arianna Gasparotto, Alberto Groja produzione Nanou Associazione Culturale, Rosa Shocking / Festival Tendance sostegno E Production contributo MIC, Regione Emilia-Romagna, Comune di Ravenna foto Simone Telari
#BOLOGNA
RETTE PARALLELE SONO L’AMORE E LA MORTE (di Oscar De Summa)
Solo le rette parallele non si incontrano mai; viaggiando ognuna sul proprio asse si proiettano verso punti diversi, inconciliabili. Eppure questo non significa che la diversità le allontani. Nella vita (che ha molta fantasia) capita spesso che il diverso venga attratto. Uno scontro rocambolesco segna il primo contatto tra due soggetti così diversi tra loro che non si potrebbe immaginarli vicini: Mariarosaria e Peppino sono i due protagonisti della nuova opera di Oscar De Summa dal titolo Rette parlare sono l’amore e la morte, che come perpendicolari inciampano, si attraversano e finiscono per innamorarsi l’uno dell’altra e modificare per sempre le proprie sorti. Attraverso la loro storia d’amore recuperata dal passato, dai suoi ricordi più remoti, De Summa vuole indagare la natura delle relazioni servendosi della fisica quantistica e della teoria dell’entanglement - letteralmente il “groviglio” - secondo la quale tutte le particelle dell’universo siano correlate anche a distanza di tempo e di luogo. Basandosi su questi principi, ampiamente semplificati per la scena, e ricorrendo a espedienti come il “paradosso del gatto” di Schrödinger l’attore/autore avanza nello svolgimento della storia alternando momenti di pura stand up comedy, in cui interagisce direttamente col pubblico, a scene narrative squisitamente poetiche. Ogni personaggio, anche quelli che gravitano intorno ai due protagonisti, bussa alla mente dell’autore e così lui si ritrova costretto a scrivere, senza reale intento creativo e senza apparente coinvolgimento, una storia “semplice”. Presto la realtà e l’immaginazione però entrano inaspettatamente in relazione e tutta la storia sembra diventare un pretesto per porsi la domanda delle domande: esiste davvero un disegno superiore che è al di sopra delle nostre individuali volontà? E ancora: dimentichiamo mai chi abbiamo incontrato? E il nostro incontro è privo di conseguenze? Alla fine dello spettacolo in questo groviglio siamo finiti anche noi.
Visto all'Arena Del Sole. Di e con Oscar De Summa Progetto luci e scene Matteo Gozzi Progetto sonoro Oscar De Summa Crediti di Produzione Una produzione Atto Due – Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale Con il contributo di Giallo Mare Minimal Teatro, Fondazione Armunia, Pimoff Milano, Ater Fondazione
#LECCE
X DI XYLELLA, BIBBIA E ALBERI SACRI (Teatro Koreja, regia Gabriele Vacis)
C’è già la sinergia armonizzata delle voci in coro a fare da cornice non solo sonora, ma più propriamente ambientale, dimensionale all’ingresso nella sala che segue il bellissimo foyer dei Cantieri Teatrali Koreja di Lecce. Un complesso di teli bianchi plasma lo spazio performativo (pensato e curato da Roberto Tarasco) in un gioco di semitrasparenze, disvelamenti e disegni plastici che si avvicendano per e con le anatomie delle figure in costumi di colori essenziali nei toni del corda, del bianco, del beige, del tabacco, a restituire l’essenziale coerenza di un’armonia estetica tale da definire un lirismo di immagini, visioni all’occhio ben commisurate sul progredire dell’azione scenica. La più recente messinscena prodotta dal collettivo leccese (la cui origine vi raccontavamo qui) è diretta con eleganza delicata da Gabriele Vacis, su testo dello stesso e di Letizia Russo e Lucia Raffaella Mariani. Partendo da quella piaga, la xylella fastidiosa, che anni addietro ha colpito la Puglia e precipuamente il Salento, annientando un numero di alberi così doloroso da provocare una vera e propria modifica – non solo percettiva o percepita – della morfologia territoriale, lo spettacolo adopera il paradigma della malattia dell’albero per raccontare quella umana. Tra canti di fonie e idiomi differenti, versi tratti in parallelo dal libro sacro per eccellenza e vicende di vita quotidiana o personale, sette interpreti – il cui lavoro sulla connessione per un’omogenea in-tensione attoriale trapela, rivelando tuttavia le specificità di ognuna (siano esse più o meno incisive) – declinano quel paradigma avverandosi madri, figlie, nipoti, studentesse, dottorande, dottorate, dottoresse, … E non serve più chiedersi se l’afflizione sia del tronco o del corpo, della fronda o della mente, della radice, della linfa o dell’anima quando si realizza la pervicacia implacabile che questi connette, paragonabile solo alla cosmogonica forza della terra, da cui tutto viene, in cui tutto muta eppur rimane, a cui tutto è destinato a tornare. (Marianna Masselli)
Visto a Cantieri Teatrali Koreja di Lecce. Crediti: con Chiara Dello Iacovo, Luna Maggio, Emanuela Pisicchio, Maria Rosaria Ponzetta, Kyara Russo, Maria Tucci, Andjelka Vulic, regia Gabriele Vacis, scenofonia e allestimento Roberto Tarasco, assistente alla regia Lucia Raffaella Mariani, drammaturgia Lucia Raffaella Mariani, Letizia Russo e Gabriele Vacis, cura dei cori Enrica Rebaudo, consulenza e coordinamento artistico Salvatore Tramacere Tecnica Alessandro Cardinale, Mario Daniele, si ringrazia Stefano Martella, produzione Teatro Koreja in collaborazione con Potenziali Evocati Multimediali, foto Eduardo De Matteis/Archivio Koreja si ringrazia Stefano Martella
#MILANO
IL MOSTRO DI BELINDA (di Chiara Guidi e Vito Matera)
La magia di una fiaba è il suo legame profondissimo con una sincerità perduta. Ne Il Mostro di Belinda di Chiara Guidi e Vito Matera, ispirato alla già nota storia de La Bella e la Bestia, quella sincerità – di cui cerchiamo invano le tracce nel mondo degli adulti – affonda le proprie radici di esistenza nella dimensione sonora, composta da Scott Gibbons e curata da Andrea Scardovi: è nelle “voci di scena” (e senza corpo alcuno) dei più piccoli, che interrogano curiosi dall’alto la narrazione e ne scandiscono con entusiasmo il ritmo della trama, ma è anche nei sospiri increduli di quelli che con un’energia brulicante mi siedono accanto, gambe accovacciate e occhi stropicciati, così terrorizzati da quel fascinoso buio che permea l’atmosfera di tutto il palco. La magia, di cui vorremmo ancora tutti fare esperienza nel mondo adulto ma che continuamente sfugge per un fatto semplicemente anagrafico ed esperienziale, sembra essere restituita solo dall’afflato del loro giovane sentire: sono spaventati da quella notte senza luce, perplessi da una figura incappucciata, che è la Bestia, sempre coperta alla vista ma esposta nella lugubre vocalità, e poi divertiti da quel Ranocchio bisbetico che infastidisce la giovane fanciulla Belinda, ponendole però interrogativi nuovi e anche un po’ scomodi, per essere soltanto una rana. Eppure, nella creazione di Guidi e Matera, forse più nell’idea di usare con un approccio unico immagini e sonorità (un sottrarre alla visione ciò che può essere riempito dal suono) che nell’ essenzialità del binomio buono/cattivo, bello/brutto, ritroviamo quel “mistero della prima volta”, quella “energia dell’incanto” di cui parla Claudio Longhi nelle note di sala. Belinda capirà gli orizzonti di possibilità che scaturiscono da un semplice binomio e i bambini l’aiuteranno a prendere la scelta che solo il cuore può alla fine dettare, quella che supera le barriere della visione e approda ad un intimo, sincero e assolutamente magico sentire. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro Studio Melato. Crediti: da un’idea di Chiara Guidi, drammaturgia Chiara Guidi e Vito Matera, composizione sonora Scott Gibbons, scene, luci, costumi Vito Matera, con Maria Bacci Pasello, Eugeniu Cornițel, Alessandro De Giovanni, con le voci di Demetrio Castellucci, Chiara Guidi, Anna Laura Penna, Giulia Torelli, e con la voce di Lavinia Bertotti, voci infanti Bice e Maddalena Bosso; Eva, Lia e Nora Castellucci; Enrico, Iris e Michele Guerri; Amedeo Matera, Daphne Sophia e Ophelia June Nguyen; Gabriel Rotari; Agata e Federico Scardovi; Mia Valmori, cura del suono Andrea Scardovi, tecnica Francesca Pambianco
TRITTICO (George Balanchine e Jerome Robbins)
Un trittico bislenco e inefficace, anche datatissimo, con Balanchine e Robbins alla Scala di Milano: resta solo l’idea di ‘come non prendersi cura dei classici’. Si inizia con un Balanchine molto poco Balanchine: Theme and Variations (1947) sul movimento finale della terza Suite orchestrale di Tchaikovsky, neutralizzato, normalizzato, fatto così, oggi, è anche irragionevole. Pure a tratti irriconoscibile, se non in rari momenti soprattutto nelle parti soliste, grazie a Maria Celeste Losa e Navrin Turnbull (e a Manuel Legris, che le ha supervisionate). Ciò che si rifà alla tradizione russa (sempre leggi imperiale) del balletto classico in Balanchine, è sempre pieno e sommerso e sovrastato da un mood nostalgico, ma in senso affermativo, e generativo. Qui invece, in un décor incredibilmente brutto e accessorio, tanta mestizia è trattata come mercanzia, e produce così soltanto un effetto retrò, impositiva come una irreale norma, secondo l’idea astratta di una memoria passata, quella di Petipa, e di una estetica incapace di presente, che è probabilmente del Balanchine Trust (qui la supervisione è stata di Patricia Neary). Se l’idea di Mr. B. era quella di retrodatare lo stile dei suoi balletti, lo faceva intensificando la coreografia, l’esecuzione complessa che non dava spazio a personalismi ed esotiche esibizioni. Semplicemente toglieva loro lo spazio. Dance at the Gathering di Jerome Robbins è balletto del 1969, e ancora funziona: molto lungo e di bassa complessità, molto reazionario nel suo concept (a pensare tutto il nuovo che accadeva in quegli anni) ma è lavoro ricco di bella musica (Chopin), e di continue parti soliste: qui emergono con forza e decisione Linda Giubelli (Green) e Claudio Coviello (Brown). The Concert (1956) sempre di Robbins è titolo ormai inguardabile, per molti tratti misogino, e ancora più spesso di una comicità così consunta e logora che non perdoneremmo oggi a nessuno. Non è un titolo da vantare nel repertorio scaligero, e bisognerebbe forse iniziare a parlarne. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Alla Scala. Crediti
OLEANDRA (di Caterina Filograno)
Tom e Mildred sono una coppia, decisamente mal assortita, che vive nel Metaverso. Lei tutta broncio e noia, lui un po’ tonto e un po’ inconsapevole, ma totalmente dipendente da lei. Sempre nel Metaverso, Tom e Mildred vestono ironicamente anche i panni di Ridge e Brooke, che come marionette si muovono rigidamente seguendo delle traiettorie ignote sul palco, dei veri e propri personaggi dispersi in un’astrazione, o semplicemente una fantasia, e mossi solo da ciò che rimane del loro amore disperato (“Mi hai prosciugata” ammette lei). Qui, nel posto etereo e impalpabile dove regnano sovrani costumi elaboratissimi e di ottima fattura (curati da Margherita Platè con pezzi dello stilista Giuseppe Di Morabito) e colori zampillanti che si imprimono nella visione retinica con l’eccentrico light design di Emanuele Mestriner – che si costruisce dal verde acido al rosa chic, fino al rosso incandescente, al giallo e celeste – , nel luogo dove le possibilità sembrano offrirsi e ritirarsi con feroce fretta, Tom decide di investire acquistando una proprietà per poi poterne rivendere il terreno alla vicina Maison Margiela. Rimarrà qualcosa di quella villa in un mondo che non può per principio avere permanenza? Caterina Filograno, regista e autrice agli esordi ma che già dimostra una perspicacia di visione, risponde a questo interrogativo (sì, una pianta d’oleandro) con umorismo e un pizzico di esuberanza, creando un universo popolato da avatar, personaggi del game che sul palco riproducono fedelmente la dimensione della virtualità, nelle ottime prove anche degli attori del cast, Giulia Mazzarino, Isacco Venturini, Francesca Osso e Caterina Filograno stessa. Anche il testo sembra smaterializzarsi, in una scrittura che si fa sempre più frammentaria e vivendo di pochissima trama e tante gag: sarà anche questo sempre un effetto dell’irrompere nel mondo reale del Metaverso? (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Fontana di Milano. Crediti: Drammaturgia e regia Caterina Filograno, Cast Giulia Mazzarino, Isacco Venturini, Francesca Osso e Caterina Filograno, Aiuto regia Ilaria Marchianò, Costume design Margherita Platè, Collaborazione ai costumi Giuseppe Di Morabito, Set design Maddalena Oriani, Light design Emanuele Mestriner, Sound design Gerets, Contributo alla creazione Francesco Melchiorri, Produzione esecutiva Elsinor Centro di Produzione Teatrale, con il sostegno del MiC e di SIAE nell’ambito del progetto Per Chi Crea, Progetto vincitore del bando di drammaturgia FUTURO PASSATO e del premio di produzione di FESTIL, Festival estivo del Litorale 24, con il sostegno della Fondazione Pietro Pittini
SHAME CULTURE (di Andrea Lucchetta)
È una particolarità della società odierna l’apparire, ancor più che essere o esistere, dimostrare qualcosa agli altri: che non possiamo fallire, che il tempo è così tiranno che fagocita tutto quello che non riesce a stare al passo, che il rendimento conta a tal punto da divenire condizione esistenziale, che quello che fai vedere di te stesso ti definisce, sempre e irrimediabilmente. È da questi presupposti che prende avvio il lavoro di Asilo Republic, calato all’interno del mondo giovanile universitario: in scena tre bravi performer Anna Bisciari, Marco Fanizzi e Vincenzo Grassi, che sono studenti ma anche madri, padri e figli, esseri umani che vivono uno scarto generazionale e ne subiscono il principio di incomunicabilità. L’audace regia di Andrea Lucchetta riesce ben a rappresentare visivamente questa impossibilità relazionale – negli scarti tra piani scenografici, tra persona fisica e virtuale o nei monologhi personalissimi di ogni personaggio – e semina sul palco i segni dell’apparire come indizi descrittivi di un mondo che deve davvero cambiare alle sue radici: computer, telecamere, cellulari e proiettori, sono strumenti digitali attraverso cui potersi sdoppiare ma che al tempo stesso creano una realtà fittizia incubatrice di ansie, paure, di alibi per menzogne e isolamento. Attingendo alla materia pulsante e magmatica di un certo teatro documentario e d’indagine, che speriamo il regista possa ulteriormente approfondire, – nelle riprese video “sporche” ma autentiche affidate a Carlo Fabiano –, Lucchetta riflette sulla trasformazione in atto dell’individuo nella società della performance, una trasformazione che il filosofo Byung-Chul Han definirebbe “da soggetto a progetto”, che porta un ragazzo a mentire fino all’ultimo sui suoi risultati scolastici, a organizzare la propria festa di laura senza conseguirla per poi togliersi la vita. Una trasformazione che si può ancora invertire nelle sue spinte, forse solo facendo lo sforzo di comprenderle, fino in fondo, senza mai giudicarle. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: drammaturgia Asilo Republic, regia Andrea Lucchetta, con Anna Bisciari, Marco Fanizzi e Vincenzo Grassi, luci Gianni Staropoli, musiche Luca Nostro, fonico Luca Gaudenzi, scene e costumi Dario Gessati, video Carlo Fabiano, assistente alla regia Marco Fasciana, coproduzione Teatro dell’Elfo, Accademia Nazionale Silvio D’Amico
#NAPOLI
ANNA CAPPELLI (di A. Ruccello, regia B. Buccellato)
Anna Cappelli è stato scritto nel 1986 da Annibale Ruccello poco prima che morisse, sotto richiesta di Benedetta Buccellato: l’attrice aveva letto un fatto di cronaca in cui era coinvolto un uomo giapponese che aveva divorato la compagna. Gli chiese di renderla quella che divora. Quasi quarant’anni dopo, Benedetta Buccellato è ancora Anna Cappelli. Il teatro di Ruccello è anche un teatro di oggetti, di oggetti che materializzano la presenza e la volontà di chi se ne circonda: una radio da cui si sente Pensiero d’amore di Mal, una sedia, un ombrello, un attaccapanni, un impermeabile da uomo e una tanica. Tutto intorno, invisibili ed evocati con ossessione, ci sono gli oggetti che Anna Cappelli vuole per sé e che non è disposta a perdere. È una donna senza qualità, trasferitasi a Latina per essere indipendente, e finisce in una relazione ambigua con un ricco ragioniere del posto. Il ragioniere Tonino Scarpa un giorno si stanca di lei e decide di abbandonarla. Anna parla con i suoi interlocutori in modo incalzante, ripetendo senza sosta i suoi desideri affinché vengano esauditi; non è compresa, e continua a ripetersi. Prima è compiacente, seppur petulante, ma poi l’ossessività diventa un malessere che schiaccia chi le è attorno. C’è una libertà di scrittura una e libertà attoriale sorprendente, un’attenzione umana mai morbosa per questa mente che si sgretola, per questa Filumena Marturano piccolo borghese che non potrà mai attirare su di sé le simpatie di preti e servitù perché è una meschina. È una scrittura che desidera veder vivere davvero tutto ciò che produce. Fa una strana sensazione leggere di un Annibale Ruccello sempre attuale, perché è ormai probabile che non lo sia più. È così evidentemente “altro” da quanto esiste oggi, per quanto lo si riconosca con così tanta facilità come qualcosa di intimo, che forse il suo tempo non è il sempre presente ma un “fu” sentimentale, un tratto genetico originario ormai non più dominante. Che incalcolabile perdita, che peccato.
Visto a Sala Assoli; Crediti: di Annibale Ruccello; Regia e con Benedetta Buccellato; Produzione Casa del Contemporaneo.
SKIRK (Adriano Bolognino)
Skirk, per la coreografia di Adriano Bolognino, è il secondo dittico che compone la prima serata della rassegna curata dallo Spazio Körper. Esattamente come nel lavoro di Merola, Bolognino sviluppa un percorso di indagine sul puro sentire; in questo caso, però, dedica il suo lavoro al soggetto noto dell’Urlo (in norvegese skirk) di Edvard Munch. Anche in questo caso, la scrittura si prosciuga attorno alla semplice idea, che però è ben perseguita dalla coreografia, creando una corrispondenza comprensibile. È ben articolata l’immagine che lega il senso di turbamento alla ripetizione sincopata di brevi movimenti, che producono anche l’incalzare di rumori fastidiosi, come il tonfo e lo stridio delle punte dei piedi che percuotono il pavimento, oppure alle geometrie inquiete delle braccia. Ci sono però delle incongruenze legate all’idea che è penalizzata dalla linea sottile di scrittura che si intravede nell’azione. Quello che il pittore norvegese ha espresso su tela non è “la piccolezza dell’uomo nell’immensità dell’universo”, come sostiene Bolognino nelle note di regia: è, invece, il terrore di vivere, perché vivere non ha senso. È qualcosa che, in un’ottica mediterranea, diventa una depressione. Nell’immaginario scandinavo, c’è solo paura, c’è silenzio. Non c’è posto, ad esempio, per la coralità: era sufficiente un solo danzatore, al posto dei dieci in scena. Non era invece sufficiente immobilizzare i danzatori in un urlo muto per creare quell’unico rimando all’immagine originaria: è stato inadeguato, perché di quell’originario non c’era alcunché. Un adeguato approfondimento drammaturgico avrebbe sostenuto e perfezionato le immagini. Queste immagini sono fuggevoli e creativamente limitate, poiché troppo assolute e cerebrali. Individuate le variazioni che si reiterano, se ne perde il senso, anche quello emotivo. Poteva essere utile teatralizzare l’azione, magari darle una profondità di contesto, ricercando in altri modelli (Bergman, Strindberg, Kierkegaard), che le permettesse di uscire da un individualismo ormai non più coinvolgente.
Visto a Teatro Nuovo. Crediti: Coreografia Adriano Bolognino; Musiche Max Richter; Realizzazione costumi Nuvia Valestri; Danzatori Filippo Begnozzi, Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Matilde Gherardi, Aurora Lattanzi, Fabiana Lonardo, Giorgia Raffetto, Alice Ruspaggiari, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa; Produzione MM COntemporary Dance Company
SHORT STORIES (Michele Merola)
La scrittrice americana Edith Wharton sosteneva che ad ogni soggetto corrispondesse una forma precisa, che era già implicita nel soggetto stesso. Bontà sua, non è sempre così semplice. Short Stories è uno dei dittici che compongono la prima serata della rassegna curata dallo Spazio Körper, ed è l’elaborazione di momenti emozionali astratti. Nella coreografia di Michele Merola, l’agire del movimento è una combinazione casuale delle emozioni, senza un’effettiva direzione che le identifichi con chiarezza, poiché delega quella direzione all’intuizione dell’occhio dello spettatore. I momenti si susseguono tra assoli e coralità, separati nettamente da pause che però non impediscono una continuità riconoscibile nelle variazioni. Lo spazio di definizione del movimento è quello direttamente perimetrale ai corpi serpentinati, quello che è possibile riempire con delle profonde curve della schiena o affondi che accarezzano il pavimento. È un’azione decisamente muscolare e tesa, per quanto si propaghi, vibrando, tra i danzatori, offrendo una suggestione di morbidezza. La suggestione è ulteriormente favorita dalla voce della compositrice Natalia Abbascia, che accompagna le immagini col violino. È una sensualità che può con essere intesa come erotica, ma è alla sensibilità dello spettatore districarsi tra le proprie emozioni. È un’operazione che però lascia perplessi: la fluidità che dovrebbe intercorrere tra pubblico e palcoscenico, così come dichiarano le note di regia, in realtà è fittizia, se non del tutto assente. Il voler sviluppare in assoluto l’emozionalità senza una scrittura solida che vada oltre la semplice idea, ha prodotto immagini fredde e vuote, decisamente distanti, per quanto belle e vagamente allusive: l’espressività sensuale dei sei corpi in scena non è sufficiente. Esattamente come non può essere sufficiente demandare lo sforzo immaginativo a qualcosa di indefinibile che è al di fuori della scrittura, soprattutto se quella scrittura ha bisogno di essere ulteriormente affinata.
Visto a Teatro Nuovo. Crediti: Coreografia Michele Merola; Musica Composta ed eseguita dal vivo da Natalia Abbascia; Costumi Nuvia Valestri; Danzatori Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Fabiana Lonardo, Alice Ruspaggiari, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa; Assistente alla coreografia Paolo Lauri; Produzione MM Contemporary Dance Company
DE/FRAMMENTAZIONE (di F.Pisano, regia M. Segreto)
In scena sono presenti Uno (Michele Magni), Zero (Roberto Marinelli) e Moglie di Uno (Francesca Borriero). Uno e Moglie desiderano un figlio, ma non possono. Zero e Uno sono amici di vecchia data. Anche Zero e Moglie sono amici, ma non di così vecchia data. La storia di impossibilità che Fabio Pisano offre al pubblico si districa all’interno di queste semplici relazioni. La semplicità di ciò che sarebbe si complica a teatro, che concede i suoi strumenti di lettura e disvelamento. La didascalia è l’inimmaginabile chiave di ulteriore comprensione e approfondimento dei fatti. I personaggi prendono posto a un lungo tavolo, alla cui estremità siede l’aiuto regista, Irene Latronico, che chiarisce alla lavagna luminosa le intuizioni dell’autore. Non è necessario altro in questa lettura drammatizzata con azione drammatica. Quello di Pisano è uno spettacolo che lascia perplessi. È ben riconoscibile il lavoro approfondimento, di scavo, sulla parola che diventa unica e assoluta, priva di sinonimi e ambiguità. È ben riconoscibile il lavoro, ormai più che maturo, di regia che sfrutta l’assolutezza della parola per azionare un movimento preciso e razionale. È ben riconoscibile un teatro che tende, pur rimanendo nei propri perimetri, al letterario: quell’esuberanza letteraria produce, nel suo essere scrittura in modo così intransigente, così dichiaratamente parola scritta, il grottesco e il riso. È ben riconoscibile la presenza fisica dello stesso Pisano, dell’autore, che è riconosciuto dai suoi stessi personaggi. Lascia perplessi la realizzazione di un dispositivo gradevole, che deve assolutamente piacere. Sarebbe meglio usare, più che dispositivo, il termine “formula”. Si ha la sensazione che manchi qualcosa di vivo in scena, che non si parli realmente di sensazioni vive: è come se la cosa viva servisse a parlare, per paradosso, solo del teatro. È come se fosse un dialogo tra la scena e il suo autore, e quindi tra l’autore e sé stesso. Quello che non è chiaro, è il perché.
Visto a Piccolo Bellini. Crediti: Drammaturgia Fabio Pisano; Regia Michele Segreto; Con Francesca Borriero, Michele Magni, Roberto Marinelli; Assistente alla regia Irene LatronicoCostumi Alessandra Faienza; Produzione servomutoTeatro e Liberaimago; Con il sostegno di AMAT – Associazione Marchigiana Attività Teatrali; In collaborazione con RAM – Residenze Artistiche Marchigiane; Progetto promosso da MiC e Regione Marche; Con il supporto del progetto di residenza artistica Teatro Le Forche – Futuro Prossimo Venturo 2024; Con il sostengo di Circuito CLAPS/IntercettAzioni.
#GENOVA
UN PERDENTE DI SUCCESSO (Pia Tolomei di Lippa)
Il sipario è chiuso, un chiacchiericcio dilaga per la sala gremita, difficile da mettere a tacere anche dagli avvisi preregistrati che invitano gli spettatori a prendere posto. Poi, quella spessa tenda di velluto rosso si alza, svelando una formazione musicale, un trio composto da un pianista (Massimiliano Gagliardi), un contrabbassista (Dario Piccioni) e un fisarmonicista (Gianluca Casadei). Le prime note si diffondono per la sala, fanno la loro entrata in scena, disponendosi da sinistra a destra di fronte ai rispettivi microfoni e leggii, le attrici Laura Marinoni, Elisabetta Pozzi e Mariangela D’Abbraccio. In scena null’altro, un’essenzialità che lascia spazio alla forza evocativa delle parole del maestro Giorgio Albertazzi, stralci di autobiografia adattati dalla stessa D’Abbraccio che prendono corpo servendosi della bravura delle interpreti, le quali sanno dosare con maestria l’andamento ritmico della lettura teatrale. In assenza di un vero e proprio filo logico a legare le varie sezioni, i pensieri e i ricordi si susseguono come un flusso di coscienza altalenante tra passato e presente, tra cari scomparsi, vecchi e nuovi amori, ombre evanescenti di spettacoli su cui ormai la tenda è calata da tempo. Non si percepisce la mancanza effettiva di una rappresentazione dinamica, rimpiazzata dalla staticità della formazione musicale e dei corpi delle attrici. In questa serata d’onore voluta dall’ultima moglie di Albertazzi, Pia Tolomei di Lippa, sono le parole le vere protagoniste, in grado di commuovere e proiettare immagini nella mente dello spettatore, colmando la mancanza di un movimento scenico effettivo. Si alternano secondo uno schema preciso momenti canori dalle tinte latino-americane, che a tratti si fanno partenopee, fino ad affondare le proprie radici nella canzone d’autore. Ed è proprio con una canzone che si chiude la messinscena, brano a cui si mescolano le voci potenti delle interpreti e quella registrata di Albertazzi: “rinascerò”, intonano in coro, a ricordarci che nel permanere della memoria collettiva fluisce nuovamente, in assenza, la vita. (Letizia Chiarlone)
Visto il 4 novembre 2024 al Teatro Ivo Chiesa. Crediti Produzione CMC / Nidodiragno con il sostegno del MiC Adattamento Mariangela D’Abbraccio Progetto ideato e curato da Pia Tolomei di Lippa Interpreti Mariangela D’Abbraccio, Laura Marinoni, Elisabetta Pozzi Allestimento scenico Francesco Tavassi Musiche dal vivo Gianluca Casadei fisarmonica, Massimiliano Gagliardi pianoforte, Dario Piccioni contrabbasso
LA DECAPITAZIONE DI MARCO GUALCO (di Riccardo Cacace)
Sogno o son desto? Quella lama che sembra così affilata reciderà davvero la mia testa? Si tormenta, Marco Gualco (Marco Gualco), cerca di guadagnare tempo di fronte al boia (Vincenzo Castellone) e all’inevitabile destino che pare attenderlo. Decide così di fare un tuffo nel passato, nelle decisioni (o sarebbe meglio dire, nelle passive risoluzioni?) che lo hanno portato alla condanna a morte. Si intersecano così, in successione, seguendo la struttura tipica della tragedia greca, dieci episodi costituiti dalla rievocazione di momenti passati, introdotti da un parodo, intervallati da sei stasimi di confronto e commento tra il boia e il protagonista e conclusi da un esodo, per la durata importante di due ore e mezza. I ricordi di Marco sono confusi, non seguono un’esposizione lineare, e finiscono per sfuggire allo stesso controllo del proprietario, che si trova a dover rivivere situazioni traumatiche che erano state rimosse o addirittura manipolate al punto da produrre una falsa memoria, frutto delle paranoie e delle pulsioni violente di Marco. Riccardo Cacace riesce a costruire, per la prima parte, spargendo indizi e allusioni all’interno del testo drammaturgico, una tensione che incuriosisce lo spettatore, sostenuta dalla bravura degli attori, nonostante la lentezza solenne del ritmo scenico. Di quali crimini si sarà mai macchiato il direttore dell’azienda, nonché suocero (Matteo Alfonso), il quale lo ha appena nominato vicedirettore? Cosa sarà mai successo di così scandaloso e disturbante da spingere Marco in una condizione di follia allucinatoria tale da portarlo a fuggire ogni contatto umano e vivere all’ombra dell’ingombrante figura del suocero? Un climax che, purtroppo, portato all’estremo di una corda tirata fino al punto di spezzarsi, non riesce a trovare la giusta valvola di sfogo, nonostante la prestanza scenica dei giovani attori. Un testo classico, dal sapore quasi antico, che mette il pubblico nella posizione di chiedersi se il teatro sia ancora in grado di ascoltare le esigenze degli spettatori o si limiti a essere sfoggio di una penna brillante. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro Eleonora Duse Produzione Teatro Nazionale di Genova, CTB Centro Teatrale Bresciano, Centro Teatrale MaMiMò Regia Riccardo Cacace Interpreti Marco Gualco, Vincenzo Castellone, Susanna Valtucci, Matteo Sintucci, Riccardo Cacace, Matteo Alfonso Scenografia Marco Gualco Luci, costumi e sound design Riccardo Cacace Consulenza artistica Daniele D’Angelo, Claudia Monti, Massimo Mesciulam Cast tecnico direttrice di scena Desirée Tesoro capo elettricista Marco Giorcelli
#ROMA
MUM (di M. Lloyd Malcolm, regia R. Di Maio)
In questi giorni sono andati in scena due spettacoli, a distanza di poco tempo l’uno dall’altro (leggi anche The Wasp), entrambi tratti dalla penna di Morgan Loyd Malcolm, prolifica autrice inglese, non solo per il teatro, anche per il cinema e serie tv. La sua è una scrittura impietosa, e fastidiosa quasi, che non lascia margini di fraintendimento o compassione senza però imporre una lettura interpretativa univoca; una sfida registica e attoriale per chi decide di portarla in scena. Mum è uno psicodramma politico tratto dall’omonimo testo, diretto da Roberto Di Maio e inserito nella rassegna TREND al Teatro Belli. Sul palco Manuela Parodi (Nina), Elena Radonicich (l’amica Jackie) e Tiziana Avarista (la suocera di Nina, Pearl), un trio di attrici affiatato e compatto, a dispetto del poco tempo di prove, che ha fatto proprio il testo restituendolo al pubblico in tutta la sua materna dirompenza; cioè dando al termine materno un significato scisso nelle sue innumerevoli nature. La depressione post partum - tema che solo negli ultimi anni ha visto il diffondersi di una letteratura a riguardo, e ancora un tabù in molti contesti, tanto familiari che sociali - viene resa dalla regia attraverso una dimensione scenica costruita come fosse una matrioska - non è casuale il riferimento alla figura femminile – che ne racchiude al suo interno di altrettante: dalla casa di Nina, all’ospedale, alla casa della madre, al tribunale. Un simile procedimento rappresentativo richiede estrema precisione e, nonostante un accumulo a volte indefinito di oggetti, come quelli della cucina o le medicine sul boccascena, la scena riesce a dare forma al contenuto. Mum confonde i piani della realtà con quelli della finzione, non risparmia gli spettatori, ovvero la società indifferente al dolore, alla stanchezza, alla paura, e rappresenta i meccanismi mentali che imbrigliano non solo una madre, ma anche chi le sta accanto. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Belli per la rassegna TREND: di Morgan Lloyd Malcolm, regia e luci Roberto Di Maio, con Manuela Parodi, Elena Radonicich, Tiziana Avarista, traduzione Manuela Parodi, con il sostegno di ZIP_Zone d'intersezione positiva, con il supporto di Artisti 7607
BAUBÒ (di M. D’Accardi, Regia T. Capodanno)
Come evitare che parlare di malattia diventi soltanto un atto terapeutico, troppo intimo e privato perché lo spettatore possa trovare il proprio posto solo come voyeur?
Matilde D’Accardi, che porta in scena a Carrozzerie not se stessa e il proprio percorso attraverso una grave patologia (che le sia successo o meno, cioè che si tratti di autonarrazione o di autofiction, non cambia), riesce a superare quel rischio ponendosi a una distanza critica grazie al taglio comico, a volte volutamente grottesco, che imprime al suo racconto. Baubò, un monologo utero e dilettevole fa luce su un episodio che a detta degli altri (nel caso specifico, dalla voce fuori campo della madre medico), è definito come qualcosa su cui “metterci una pietra sopra”. Il tabù è un tumore all’utero proseguito con diverse complicazioni, ma diventa occasione non solo per poter parlare delle sfaccettature del rapporto medico-paziente e di quello madre-figlia, ma soprattutto si fa riflessione di come ancora oggi il corpo della donna è corpo politico, per superare lo stereotipo per cui il fine ultimo debba essere ancora sempre e solo preservare la possibilità di avere figli, anche a discapito della vita. Nella regia di Tommaso Capodanno il racconto, che spazia dal teatro di narrazione alla stand-up comedy, passando per l’interazione con un’installazione fatta di una gigantesca sacca di nylon con dentro palloni di diversa fattura (visualizzazione pop dei tumori di Alessandra Solimene che ricorda le sculture di Flavia Mastrella), dipinge attraverso pennellate ironiche i tratti dei diversi personaggi che appartengono alla storia e la scansione degli eventi. Emergono dalle sue parole i tratti del medico superficiale, la dottoressa burbera ma che dà sicurezza, quella che non conclude un discorso e sembra seminare più dubbi che altro, l'infermiere che dà la soluzione inaspettata, la madre che sta scomoda sia nelle vesti di medico che in quelle di genitore, ma alla quale ci si rivolge sempre. Lo spettacolo, ancora alle prime repliche, riesce ad arrivare anche senza quelle poche sbordature di interazione col pubblico, anzi, nella sua asciuttezza ironica e però puntuale, tocca le corde di un’emotività condivisa e che raggiunge tutti.
Visto a Carrozzerie n.o.t. Di e con Matilde D'accardi| Regia e suoni Tommaso Capodanno| Scenografia Alessandra Solimene| Con il sostegno dell’Ass. Settimo Cielo Teatro la Fenice di Arsoli.
THE WASP (di M. Lloyd Malcolm, regia V. Cognatti)
La scena è grande, pulita e ordinata, con solo un pianoforte sulla destra, una porta al centro e un rubinetto alla sinistra. Una dimensione svuotata in cui prima c’era qualcosa e adesso non c’è più: sradicato, rimosso, abortito. A riempire questa assenza, due attrici, neo diplomate all'Accademia Paolo Grassi di Milano, Perla Ambrosini e Silvia D'Anastasio, entrambe con l’onere e onore di portare sulle spalle The Wasp, un testo complesso (che è anche un film), in cui le due protagoniste Erin e Kate rappresentano due spaccati sociali in cui si insinua, dolorosamente e per anni, la violenza: la prima, Erin, subisce a lungo, da giovane, e anche da adulta; la seconda Kate, agisce il male con la banale semplicità di chi lo ha attorno, da sempre, nella propria educazione e non conosce altra modalità di relazione. L’una proietta sull’altra la rabbia verso la propria esistenza: potrebbero sembrare l’una vittima (Erin) e l’altra carnefice (Kate) ma i confini non sono così netti e sopratutto a fare la differenza è il passaggio dall’infanzia all’età adulta, chi sono ora queste donne? Chi erano da bambine e cosa vede l’una quando si specchia nel volto dell’altra? Eccetto qualche lieve incertezza, Ambrosini e D’Anastasio incorporano nell’interpretazione tali interrogativi esprimendone la molteplicità dei caratteri e la totale assenza di definizione. La scrittura della drammaturga e sceneggiatrice inglese Morgan Lloyd Malcolm (leggi anche Mum) viene resa dalla regia di Valentina Cognetti con essenziale fedeltà; la drammaturgia segue la traduzione (di Enrico Luttmann) con aderenza, tanto che a volte si potrebbe lasciare più spazio all’azione scenica e meno al testo, soprattutto nelle parti monologanti e/o soliloqui. Che la violenza generi violenza è un assunto di comodo quando la vera domanda che ci pone questo lavoro è cos’è la violenza e perché la vespa (the wasp) punge? (Lucia Medri)
Visto allo Spazio Diamante: di Morgan Lloyd Malcolm, traduzione Enrico Luttmann , organizzazione Alice Staccioli, scenografia Michelangelo Raponi, aiuto regia Martina Grandin, produzione Margot Theatre Company
ZONA FRANCA (di Alice Ripoll)
Alcuni dei performer sono già in scena mentre il pubblico prende posto, sono in un angolo a sinistra, cantano, tengono il ritmo battendo le mani e picchiando sulle percussioni. Dal soffitto della sala Petrassi dell’Auditorium pendono grandi palloni neri, sul fondale si vedono le aste con i fari la cui luce ci invaderà. Una volta entrato tutto il pubblico l’immagine apparentemente banale di un gruppo di danzatori brasiliani intenti a danzare senza fermarsi mai lascia il posto allo spazio dell’immaginazione, nel quale tutto è possibile. Nella Zona Franca pensata dalla coreografa Alice Ripoll vengono accolti performer con diverse fisicità, a tratti instancabili, a tratti in grado di danzare la lentezza nei silenzi interrotti da musiche potenti. Qui lo spiritualismo si unisce alla sensualità estrema. Tutto si trasforma sotto i nostri occhi: le danze urbane, la danza contemporanea, quella afro e la capoeira. Unisoni, festa apparentemente anarchica, soli, passi a due e a tre. Alice Ripoll non vuole raccontarci una storia ma occasionalmente le danze, anche quelle più furenti, si bloccano lasciando apparire immagini e azioni che hanno a che fare le mitologie moderne: il calcio, l’erotismo nella versione ironica di un twerk in cui una delle danzatrici riesce a muovere i singoli muscoli del fondoschiena a ritmo di musica, oppure il corpo erotico che diventa preda degli smartphone pronti a trasformarlo in preda sessualizzata per un porno quotidiano e a basso costo. I palloni sopra le teste degli artisti esploderanno facendo cadere coloratissimi coriandoli, un rider entrerà in scena con una bicicletta rossa che poi sarà usata come strumento musicale. Siamo con i dieci performer, dall’inizio alla fine, nei salti, nelle prese acrobatiche, tra gli spari e le urla, nelle gambe che si incrociano a ritmi indemoniati o nei gesti lentissimi di una preghiera; siamo tra le strade di un Brasile luccicante dove tutto è possibile, dove la favela è dietro l'angolo e i corpi sono musica pura. (Andrea Pocosgnich)
Visto all'Auditorium Parco della Musica, Romaeuropa Festival. Coreografia: Alice Ripoll Performer: Gabriel Tiobil, GB Dancarino Brabo, Hiltinho Fanta?stico, Katiany Correia, Maylla Eassy, Petersonsidy, Romulo Galvao, Tamires Costa, Thamires Candida, VN Dancarino Brabo Assistenti alla regia: Alan Ferreira e Thais Peixoto Disegno luci: Tomas Ribas e Diana Joels Tecnico luci: Taina Miranda Scenografia e costumi: Raphael Elias Assistente costumista e sarta: Gabriel Alves Soundtrack: Alice Ripoll e Alan Ferreira Tecnico luci e prove: Renato Linhares / Alan Ferreira Illustrazione e Designer: Caick Carvalho
LE SORELLASTRE (di O. Bianchi, regia G. Latini)
L’acqua all’interno della bottiglietta continuerà a tremare per tutto lo spettacolo, poggiata sul tavolo della sala da pranzo - sul quale si terrà il gioco, attorno al quale si urlerà, piangerà, si incasseranno insulti e si riderà anche - non smetterà di essere scossa, mentre alle spalle, sul fondo della scena, immobile sta la bara aperta. Alla sesta stagione di repliche, Le sorellastre di Ottavia Bianchi, con la regia di Giorgio Latini, torna in scena all’Altrove Teatro Studio. Il successo lo si deve a una scrittura schietta, come gli exploit delle protagoniste, che si muove in scena con ritmo, alternando pause, entrate e uscite o fissandosi in una contrainte. L’impianto drammaturgico si costruisce attraverso dei topoi: la morte della madre che porta quattro sorelle distanti a incontrarsi, i litigi e i segreti, l’eredità, l’espediente del gioco; “modelli” comuni nelle commedie nere, di situazione, o negli psicodrammi. A questi, si aggiunga l’affilata e imprevedibile alchimia tra Emma, “la brava” (Ottavia Bianchi), Elvira “la bella” (Livia Castiglioni), Ughetta “la stupida” (Patrizia Ciabatta) e Emilia, Lia, “il bastone della vecchiaia” (Giulia Santilli). Ricordando la tensione di pièce celebri come Due Partite di Cristina Comencini ma anche Carnage di Yasmina Reza, le quattro attrici padroneggiano (eccetto alcuni errori di battuta da prima replica) un’interpretazione intelligente, sempre sostenuta e giocata al rialzo fino alla fine, e non solo tra di loro ma con il pubblico stesso, costantemente preso in scacco. Al punto che, forse, si suggerisce come superflua la lettura della lettera della madre: una spiegazione ridondante perché “già detta” dall’evolversi dell’azione scenica. Le protagoniste ritraggono un quadretto familiare incrinato e afflitto che poi si allarga in un affresco sociale sulle questioni di genere e ruolo, sulle ambizioni e ansie da prestazione; solitudini e rivalse, pregiudizi e vanità che entusiasmano la platea con affascinante perfidia e senza pesantezze moraleggianti. (Lucia Medri)
Visto a Altrove Teatro Studio: di Ottavia Bianchi, con Ottavia Bianchi, Livia Castiglioni, Patrizia Ciabatta, Giulia Santilli. Regia Giorgio Latini