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lunedì 29Aprile 2024
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 | Cordelia | aprile 2024 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di aprile 2024 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#VICENZA

PASSAGE/PAYSAGE (di Camilla Monga)

Una volta entrate, come gli spettri, non usciranno più dalla nostra mente. Ma prima il preludio, solo musicale di elettronica e viola di Federica Furlani, che è lungo, intenso, necessario oltreché bellissimo: come un dare le carte prima della partita, che già si anticipa intensa, decisa, vivace. Poi, come angeli nerovestite cadute sulla scena, prima Camilla Monga, morbida e flessuosa, poi Chiara Montalbani, più accesa e spedita, questo duo di figure in dinamica scavano tra loro diversità sofisticate e affinità impertinenti. Tra selvaggie rotazioni e morbidi incroci, come un susseguirsi di educati esorcismi per opera di garbati sciamani, assistiamo a una infinita serpentina di disseminate alternanze e intelligenti decostruzioni di movimento: un incredibile susseguirsi di invenzioni cinetiche come una sorta di Pensée Sauvage tra passaggio e paesaggio, in una festosa mestizia. «Un immaginario in costante evoluzione», è scritto, di questo Passage/Paysage. Ed è proprio così, ma è nel pieno montare di basse onde sonore e di «suoni concreti e acidi», che allora tutta una corsa insegue e sorpassa con perizia lo sguardo di noi spettatori, improvvisamente trascinati entro i malinconici recessi dell’incontro con l’Alterità. Eccolo forse il più vero passaggio inseguito e marcato: dai residui nostalgici di una Natura primitiva e selvaggia al paesaggio di una sofisticata Cultura piena di eredità. Monga restituisce al tema della ripetizione il suo valore di classico nella composizione coreografica, con tutto quel che ciò comporta: «cambiamento» e «combinazione», ma anche epifania di ciò che manca, e ricerca di ciò che si è perduto, in una nuova condizione che è felice presagio. L’incontro più vero delle due danzatrici non è nell’ordine del dicibile né del documentabile. Ma solo nello svanire dell’una nel corpo dell’altra, nell’impronta delle ombre che restano a terra, fra i sussulti sonori e le fenditure luminose della scena. Nella finale realtà che compare in un’ultima sparizione. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Comunale di Vicenza; progetto di Camilla Monga e Federica Furlani; coreografia di Camilla Monga; live music (viola & electronics) Federica Furlani; danza Camilla Monga e Chiara Montalbani; luci di Francesco Bertolini; produzione Van.

#PALERMO

CAMERA 701 (di di E. Wilk, regia L. Mazzone)

Si è da poco tenuto al Libero Camera 701, della romena Elise Wilke, per un progetto in collaborazione con PAV / Fabulamundi Playwriting Europe. Il titolo allude a una stanza d'albergo in cui si svolgono le vicende di varie coppie di passaggio: un non-luogo allo stesso tempo aperto e chiuso rispetto all'esterno. L'elegante ambiente déco vagamente anni Settanta, arredato da Mario Chiappara, è la sede fissa di vicende le quali, nel loro continuo succedersi, si presentano invece come effimere, transitorie. «Una camera d’albergo non possiede il calore di una casa. Ci si sente soli, immersi nella propria esistenza scandita da amore, delusione, fallimento, paure»: al suo interno si svolgono vicende tutto sommato quotidiane, ma che dal quotidiano fuggono in virtù di qualche singolare e ironica specificità. Un matrimonio di convenienza, un'imprevedibile lezione di spogliarello, un suicidio sventato, una relazione che da professionale sembra divenire ambiguamente affettiva. La stanza dell'hotel diviene dunque lo spaccato di un umano colto nei limiti della propria irredimibile contemporaneità. In toni da commedia brillante, gli interpreti (Federica D’Angelo, Giuseppe Lanino, Nicolò Prestigiacomo, Silvia Scuderi) portano in scena un pugno di nevrosi e speranze: la regia (di Luca Mazzone) le organizza tutte con equilibrata misura, strutturando l'intera rappresentazione intorno al cadenzato svolgersi dei rapporti tra i personaggi. Rapporti fondati sullo scambio di sensazioni e sentimenti: sono questi a rappresentare il vero e unico fulcro della vicenda drammatica. In fondo è su un tono di accattivante superficie che il racconto vuole svolgersi: Camera 701 diverte il pubblico mantenendosi su un'ironia delicata e sempre conciliante, tratteggiata a tinte pastello (Tiziana Bonsignore).

Visto al Teatro Libero, Palermo. Crediti: di Elise Wilk, traduzione Loredana Chircu, scena e regia Luca Mazzone, con Federica D’Angelo, Giuseppe Lanino, Nicolò Prestigiacomo e Silvia Scuderi, costumi Lia Chiappara, elementi scenici Mario Chiappara, luci e suoni Michele Ambrose. Foto di Giulia Mastellone

LADIES FOOTBALL CLUB (di S. Massini, regia G. Sangati)

Nel 1917 gli Usa entravano in guerra e in Russia si preparava la rivoluzione. Ma non solo: in Inghilterra, in una fabbrica di munizioni, undici operaie decidono di calciare un pallone nel cortile dello stabilimento. È l'avvio di Ladies Football Club, di Stefano Massini, per la regia di Giorgio Sangati, vista alla Strehler del Biondo di Palermo. Quel calcio, apparentemente casuale, è molto di più: è l'inizio di una partita di calcio clandestina, per sole donne, perché gli uomini sono tutti al fronte e durante il conflitto non possono certo giocare al pallone. Il primo lancio è di Rosalind Taylor: nei suoi panni di proletaria, Maria Paiato racconta in prima persona una storia corale, un mosaico unitario di esperienze diverse ma coincidenti. Tra sport e lotta politica, assistiamo alla metamorfosi di un corpo di lavoratrici in squadra: la trasformazione ha i toni di un romanzo di formazione, dove tuttavia alla persona autoriale si sostituisce una moltitudine di individualità. Attraverso la voce dell'interprete, siamo in grado di attribuire a ciascuna delle protagoniste un volto, una storia, un'attitudine personalissima e individuale. Paiato le racconta tutte, da acuta caratterista. Sebbene rimanga abbastanza stabile al centro della scena, dove mantiene senza cadute le attenzioni del pubblico, la rievocazione di azioni e passaggi agìta dall'attrice si imprime nella mente dello spettatore con precisione definita. Nella breve traiettoria che l'attrice talvolta attraversa per rivolgersi più direttamente a chi la osserva, si consuma anche la trasformazione degli spettatori in tifosi, e viceversa. La scena di Marco Rossi, un cortile in cemento su cui si riverberano luci da stadio (di Luigi Biondi), si scopre essere «un rettangolo sublime, di misura regolamentare», il luogo di uno slancio «non sportivo, ma disperato». Tuttavia, la vicenda delle operaie è anche un fatto gioiso, vissuto tra toni di festa: sport e teatro si trovano uniti in una comune radice ludica. Ma il gioco qui è un fatto serissimo; una volta tornati dal fronte, le partite verranno restituite alle gambe e ai muscoli dei reduci. Agli occhi del restaurato patriarcato calcistico, le imprese delle giovani operaie non sono state che uno scherzo (Tiziana Bonsignore).

Visto al Teatro Biondo, Palermo. Crediti: di Stefano Massini con Maria Paiato, regia Giorgio Sangati, scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca, luci Luigi Biondi, assistente alla regia Michele Tonicello, produzione Teatro Biondo Palermo / CTB - Centro Teatrale Bresciano, in collaborazione con Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa. Foto di Masiar Pasquali

#ROMA

I MASNADIERI (regia Michele Sinisi)

Nella prefazione ai Masnadieri (1781), lo stesso Schiller confessa di aver inzeppato il dramma di sottotrame per riuscire a «illustrare le passioni e i pensieri». Passioni, ancor più che pensieri, sono il catalizzatore di quella che sarebbe stata la scuola romantica, idee con cui, pochi anni prima, nella Drammaturgia d’Amburgo, Lessing aveva impastato l’identità culturale tedesca, contro il teatro di corte di Corneille e Voltaire e cantando la tragedia elisabettiana, la farsa di Molière e l’illuminismo acre di Diderot. Uno stesso progetto di metodo propone, con i consueti slittamenti da personaggio ad attore, il regista Michele Sinisi, autore di un adattamento sfrenato, urlante e complesso per il Gruppo della Creta in lunga tenitura romana all’agguerrito Teatro Basilica. Sì, perché tra gli archi di mattoncini di pietra che incorniciano lo spazio scenico nudo, al suono della sontuosa ouverture dell’opera di Giuseppe Verdi mandata da uno smartphone, il ribelle Karl Moor si presenta innanzitutto con nome e cognome dell’interprete e così faranno tutti gli altri, spezzando il racconto con note autobiografiche e un sunto rapido della funzione del proprio personaggio. Facendo persino ripetere un’intera scena senza neppure sottolinearlo, tornano gli spettri che abitano il ragionamento scenico di Sinisi: i limiti del dispositivo di finzione e però la potenza liturgica della creazione d’attore. Quasi un grimorio di formule da sturm un drang, I Masnadieri è una concitata storia di pirati in cui un rinnegato rampollo della nobiltà ducale, osteggiato dalle luciferine trame del fratello, guida una masnada di violenti guasconi a scatenare un caos assoluto che possa salvare lo «spirito tedesco» dalla cancrena benpensante. Certi tramutati in azione, altri epicamente narrati, dell’intricato ordito restano qui quasi tutti i fili: elevate al massimo volume non sono solo grida all’assalto, ma anche confessioni d’amore e ultime parole al capezzale; se la pantomima è la chiave per un rituale finale, in tono piano sono i monologhi speculativi, che danno mostra di un sottile pensiero politico, in grado di interrogare i concetti di merito e redenzione, in un mondo di maschi alfa che non s’accorge di sacrificarsi a insensati altarini, smarrendo la grana umana. La cifra usata è quella dello sberleffo che si prende gioco delle convenzioni; eppure, ancora una volta, Sinisi non si ferma qui: nudi cambi luce, una pioggia di lattine calpestate, pochi elementi di costume e oggetti sono sufficienti a questo rinnovato nerbo elisabettiano, sudicio e affascinante, dove in teatro, eduardianamente, «tutto è finto ma niente è falso». (Sergio Lo Gatto) - Crediti completi

C19H28O2 o Come Avere le Palle (di Riccardo Rampazzo)

Con poco, molto poco, per dire tanto, senza imbrigliare il pensiero o imporre un posizionamento, rifuggendo il giudizio per rappresentare un fatto, le sue luci e, attorno, le ombre. Solo una cassa nel buio della scena, dalla quale si allungano due microfoni con filo serpeggiante sul pavimento di Fortezza Est. Poi due torce, che diventeranno in seguito tre, a illuminare i punti cardinali di una notte che non farà mai giorno. Loris (Paolo Sangiorgio) e Gu (Leonardo Cesaroni) e un’ombrina, il pesce che ha gli stessi occhi di Anna (Sara Younes). È un tedio circolare quello che li unisce: Loris canta, è romantico ma prevaricatore; Gu più misterioso e alienato nella sua catena di montaggio quotidiana. Due pescatori in impermeabile uno e salopette l’altro, entrambi gialli, ingombranti, stanno sulla barca, pescano e, spesso, non tirano su niente, poi tornano a casa, vanno al pub, e il giorno dopo si ricomincia. Il guizzo registico è un’idea semplice ma efficace, calibrata in un’interpretazione giovane e non acerba, anche se troppo gridata e accesa negli sbotti ma di una densità che tiene il pubblico all’erta. La scrittura drammaturgica è completata da una partitura musicale che punta all’essenza e fa palpitare proprio le viscere: i microfoni sono infatti usati come casse sonore, battuti con le mani o sul petto a creare pulsazioni ritmate, frequenze di onde che si propagano e scandiscono «Prendo, taglio, tolgo, butto» e di nuovo, e ancora. Una mascolinità incapace, goffa e impaurita emanano i due personaggi, soggiogati dal lavoro e dall’unica figura femminile che esercita su di loro un controllo, verso il quale ci si ribella con quell’imprevedibilità tossica e inconsapevole che trasforma la maldestrezza in turpe violenza: i punti di luce dal giallo virano al rosso e poi buio. L’oscurità è dei flutti, delle profondità marine, viscose e impenetrabili, come il titolo stesso C19H28O2, dalle quali sembra levarsi sinuosa la dolcezza di un canto di sirena, ammaliante, stregato, che ti stordisce e ti tira giù, fortissimo. (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est: scritto e diretto da Riccardo Rampazzo, Aiuto-regia Giulia Ravelli, con Leonardo Cesaroni, Paolo Sangiorgio, Sara Younes, un progetto di Lidi Precari

IL TUO È UN POSTO DOVE NON POSSO ARRIVARE (di Eleonora Gusmano)

Lei sta nella vasca perché al mare non ci è mai andata e solo immersa nella vasca può “dividersi a metà”, come fa qualsiasi corpo immerso. Prima rigirata e capovolta, poi alzata, è proprio una vasca bianca a occupare la scena e a fungere da rifugio, nido, all’attrice Eleonora Gusmano che racconta la storia di M. Nonostante l’ingombrante presenza dell’oggetto sia ancora in una fase di ulteriore definizione, la vasca sembra porsi come correlativo oggettivo de Il tuo è un posto dove non posso arrivare, al debutto lo scorso weekend a Fortezza Est. Il racconto solitario di Gusmano è un monologo prismatico, scisso in più voci che a quella di lei, nipote di M., che si inserisce con i suoi ricordi, si alternano quella di M., che racconta della sua esistenza reclusa, distante dalla vita perché fragile, costretta in casa da una famiglia anaffettiva che ha scambiato l’amore con il possesso; e poi brevi inserti di Enrichetto, Piero, l’amica Daniela, i vicini. L’interpretazione di Gusmano, guidata dalla regia di Daniele Aureli, si colorisce del dialetto torinese, detto con puerile accento all’inizio, cresciuto negli interrogativi adolescenziali e posato, definito, nella maturità consapevole di una presa di coscienza. Al realismo della scrittura si contrappone tanto nel disegno luci che nelle musiche originali di Alessandro Romano Lorco, un immaginario fiabesco e impalpabile, fatto di suoni sommersi oppure stridenti, che sembrano provenire da un es agitato e quindi castigato da un super io limitante. Calibrando maggiormente alcuni passaggi, come la funzione della moltitudine di lettere che riempirà la scena e come queste usciranno dalla vasca, lo spettacolo potrà trovare più nettezza nel suo racconto, esemplificandolo al fine di rendere la storia di M. comune a molte e molti di noi costretti in una solitudine che non hanno scelto, inarrivabili nonostante siano stati sempre nello stesso posto, vicini ma lontanissimi. (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est: Finalista del Premio Letterario Internazionale Maria Cumani Quasimodo, Produzione Focus 2, Di e con Eleonora Gusmano, Regia Daniele Aureli, Dramaturg Giusi De Santis

IL GIUOCATORE (regia Roberto Valerio)

Certi testi sono dei classici proprio perché riescono sempre a ritagliarsi un piccolo spazio per parlare al pubblico di oggi e lo fanno andando oltre l’impostazione registica. Con Carlo Goldoni è spesso così, ma un classico può portare anche a un risultato noioso sul palcoscenico, non è il caso del Giuocatore, messo in scena con grande abilità e sapienza da Roberto Valerio. Il quale può affidarsi a un gruppo di attrici e attori coeso e di talento - nel quale spiccano il Florindo di Alessandro Averone e la Gandolfa di Alvia Reale - e a una scena suggestiva (di Guido Fiorato) che racconta un vicolo veneziano pieno di praticabili, scorci, altezze diverse e sembra quasi una nave in cui i personaggi si muovono in balia delle onde. Anche perché il ritmo goldoniano qui è sostenuto, Valerio e si suoi sono bravi ad agganciare l’attenzione del pubblico dentro una storia che potrebbe essere scritta oggi. La trama è semplice e ruota attorno a un male sociale, ciò che oggi chiamiamo ludopatia e forse non è un caso che il testo abbia visto la luce tra le drammaturgie della celebre scommessa giocata da Goldoni con il pubblico veneziano e i suoi detrattori, quella per cui avrebbe dovuto completare 16 commedie entro un anno. Il gioco era un problema anche nel ‘700, basti pensare che Pietro Chiari, proprio l’antagonista per eccellenza di Goldoni, pubblicò un romanzo dal titolo Le Memorie di madama Tolot ovvero la giocatrice di lotto. Averone sposta il fulcro del personaggio verso di noi, conferendogli dei tratti da anti eroe dannato e novecentesco, il suo Florindo a causa del gioco perderà la sua promessa sposa Rosaura (Mimosa Campironi che colpisce anche nel canto e nella scrittura delle musiche) e per appianare i debiti tenta di sedurre Gandolfa, la sorella di Pantalone. Qui sale in cattedra Alvia Reale disponendo sul tavolo tutte le carte da grande attrice: le numerose sfumature, l’ironia, i tempi comici e la capacità di tratteggiare in profondità un personaggio che parrebbe secondario ma che invece si staglia per modernità. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Sala Umberto: di Carlo Goldoni adattamento e regia Roberto Valerio con Alessandro Averone, Mimosa Campironi, Alvia Reale, Nicola Rignanese, Massimo Grigò, Davide Lorino, Roberta Rosignoli, Mario Valiani scene e costumi Guido Fiorato musiche originali Mimosa Campironi luci Emiliano Pona produzione Teatri di Pistoia – Centro di Produzione Teatrale

ALL YOU CAN VAX (di Enoch Marrella)

Quali sono le nostre memorie dei tempi della pandemia? Di quali immagini sono fatte? Quattro anni fa abbiamo vissuto qualcosa di unico, di tragico, che non era mai accaduto negli ultimi decenni, ma sembra che abbiamo cancellato tutto, dal discorso pubblico e forse anche dai nostri ricordi. A dissotterrare certe immagini ci ha pensato Enoch Marrella con il suo All You Can Vax, visto presso gli spazi di Fonderia delle Arti, all’interno di Entrature Sonore, nuovo progetto di Tuttoteatro.com. Marrella se ne sta sul lato destro del palco con magliette e felpe con la scritta Pfizer, dietro di lui un fondale accoglie immagini proiettate che seguono il racconto, talvolta con una relazione totalmente didascalica con il testo. L’attore e autore, originario di Verona, intreccia il tema della salute, ritagliato sulle grandi vaccinazioni, con quello del cibo, la vera e forse più importante religione della nostra società contemporanea e si veda infatti il prologo con i versi di Pompeo Bettini. Quando il protagonista - Marella interpreta un uomo qualunque, che forse accetta la vaccinazione solo per poter andare al ristorante - si presenta di fronte alla dottoressa dell’hub vaccinale, lo scambio è emblematico: «Mutamento dello stato di salute e reazione avverse? - gli chiedono prima dell'iniezione - Guardi, a parte un insopprimibile bisogno di cacio e pepe, nessuna». Il fare dinoccolato, il ritmo sincopato, i personaggi tratteggiati come se fossero usciti da un fumetto punk e sgangherato, la paura del vaccino e la sublimazione dell’ignoto con la scelta in grande, «all’insegna del design»: La Nuvola, ovvero il Il Roma Convention Center progettato dallo Studio Fuksas. E poi una volta vaccinato, il nostro sente di far parte della maggioranza, annoverato tra i «responsabili». Seconda dose a Cinecittà, dose booster presso l’hub di Acea: nell’odissea vaccinale di Marrella si incontrano personaggi e frammenti di vita, e soprattutto si fanno i conti con un rimosso collettivo, attraverso la leggerezza e la libertà del comico. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Fonderia delle Arti. Entrature Sonore: di e con Enoch Marrella In coproduzione con Tuttoteatro.com Con il sostegno di Ex Rugiada Visual | Andrea Romoli Live Electronics | Gabriele Silvestri Locandina | Andrea Romoli Foto in locandina | Nina Tyler Z

#PERUGIA

HYENAS. FORME DI MINOTAURI CONTEMPORANEI (Compagnia Abbondanza/Bertoni)

In uno spazio disadorno, quasi sfregiato, entrano, uno alla volta, cinque danzatori. Indossano maschere di pecore, di capre e di arieti, gli abiti sono colorati e leggeri, i corpi giovani. La sproporzione delle teste posticce richiama l’antropomorfismo oscuro di Rabbits di David Lynch. Modellano con lentezza il gesto e la posa, scrutandosi a vicenda: sembrano stabilire, con il pubblico, una relazione basata sulla pazienza, sulla richiesta di presiedere a questa lunga preparazione. A volte, indirizzano alla platea i loro sguardi vitrei e attoniti, di animali impagliati. All’improvviso, il tempo concesso è disatteso, spezzato dalla schiettezza della musica techno, dal movimento percussivo e forsennato, ma non liberatorio. Come in Femina, anche qui la coercizione sembra effondere dall’interno e (seppure le note di regia e lo studio attento delle distanze svelino la genesi della ricerca, ai tempi del Covid) le inquietudini e le latenze che palpitano nelle compulsioni leggere dei movimenti – a volte sembrano scrollare uno schermo, oppure soppesare una sostanza invisibile – lasciano apparire, sul palco, un’immagine atemporale di giovinezza. C’è forse il veleno onirico delle adolescenze di Sofia Coppola, ma senza quel languore. Il mistero è violento, esposto, eppure irraggiungibile. Deporre la maschera non modifica la tensione, la nudità del viso si contorce in un ghigno di iena. Michele Abbondanza e Antonella Bertoni lavorano stavolta sulla dualità dei volti e, attraverso la metafora del ballo in maschera, sull’istinto, di tutti, a portarsi in scena. Ma la gigantografia delle teste caprine non si lascia dimenticare e, mentre questi satiri contemporanei danzano, ridono e si immobilizzano, striking a pose, la luce sacrificale delle Grandi Dionisie lampeggia, insinuandosi tra quelle della festa e della possessione. Viene da domandarsi chi sia a esercitare lo sguardo – così purificato dal giudizio – su questa ritualità incomprensibile persino a se stessa. Una danzatrice, dal proscenio, rivolge al pubblico i suoi occhi, che somigliano a una preghiera.

Visto al Teatro Mengoni, Magione – Crediti: di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni; coreografie in collaborazione con Marco Bissoli, Eleonora Chiocchini, Cristian Cucco, Ludovica Messina, Francesco Pacelli; con Sara Cavalieri, Cristian Cucco, Ludovica Messina, Francesco Pacelli, Serena Pedrotti; disegno luci Andrea Gentili; elaborazioni musicali e collaborazione al progetto Tommaso Monza

#ROMA

XMAS FOREVER (di Tony Clifton Circus)

Ad aprile, la neve a Villa Bonelli coglie di sorpresa e col naso all’insù un nugolo di persone davanti il tendone del festival Sciapitò curato da Dario Aggioli, che entusiasta e con sorriso sornione tiene in mano l’aggeggio tramite cui spara in aria pulviscoli di schiuma bianca che si posano sui capelli, le spalle e i vestiti del pubblico. Per molto poco, un’aria di magia circonda il giardino di Via Montalcini in cui, davanti il tendone, giace steso a terra un enorme, affranto, Babbo Natale gonfiabile. Il vero Santa Claus (Werner Waas) arriverà scortato dal suo body guard cocainomane (Enzo Palazzoni) e sotto braccio a Adolf, la renna antropomorfa (Iacopo Fulgi) con mocassino vellutato ai piedi...sarà subito chiaro che non è proprio come ce lo aspettavamo; vestito raggrinzito e liso, cappello stropicciato, calosce al posto degli stivali...Il re-enactement di XMAS FOREVER di Tony Clifton Circus è un esilarante delirio alcolizzato, blasfemo, politicamente scorrettissimo che se ne frega di arrecare traumi ai bambini e bambine sedute in prima fila. Dopo circa 15 anni dal debutto, è ancora una scarica adrenalinica di cattivo senso, disillusioni, invettive, attentando all’incolumità di una platea piena che, tra risate e applausi, consapevolmente si consegna a questo gruppo di delinquenti. Il trapasso di Santa Claus segna il passaggio dal sogno d’infanzia alla repressione dell’età adulta in cui regna il dictat capitalista della libertà, raggiunta però tramite i soldi e quindi grazie al lavoro (un urlato e spregiudicato Arbeit Macht Frei). Tra una «frosty air» e «we are the children» e «'Cause this is thriller», la bastardaggine ribelle camuffata socialmente prende il sopravvento, si accende in fuochi liberi, si spacca a terra come una chitarra giocattolo e spara in aria come una pistola a salve. I quattro clown cattivi ci mostrano le storture e nefandezze di un circo che, abbandonata la meraviglia, svela gli orrori del reale (Lucia Medri).

FUNERALE ALL’ITALIANA (di Benedetta Parisi e Alice Sinigaglia)

Due donne, attrice e regista che non superano la trentina, portano in scena un funerale, ricordando nel titolo la tragicommedia prima teatrale di De Filippo da cui è stato poi tratto il celebre film di De Sica. In Funerale all’italiana di Benedetta Parisi e Alice Sinigaglia tutto nasce dalla morte e dalla consapevolezza cinica che, nonostante la giovane età delle autrici, se prima si credeva di “avere tutta la vita davanti” ora si parla del futuro indicandolo con “il resto della mia vita” perché, come ribadisce in scena l’attrice Parisi: «Rimarremo morti per molto più tempo di quanto siamo stati vivi». Lo spettacolo è un rito funebre autogestito e sabotato: Benedetta non vuole ammettere il trapasso della nonna e quindi occupa la chiesa, si impossessa del pulpito, fa le veci del prete, officia questa messa alternativa e invita gli e le astanti – prevalentemente familiari e amici in una delle repliche sold out al Teatro Basilica – a prendere parte ai suoi ricordi d’infanzia che, seguendo un’impostazione mista all’autofiction e alla stand-up comedy, dal passato interrogano le mancanze del presente. Da piccole come ci immaginavamo a trent’anni? Madri, lavoratrici, in famiglia o senza? Con chi al nostro fianco che poi non ha mantenuto la promessa? Che fine hanno fatto gli amori à la Gary Copper e Marlene Dietrich? C’è molta convulsione nel racconto di Benedetta, il ritmo sostenuto delle battute intrattiene la visione e incuriosisce per fatti e personaggi presentati. Talmente concitato da rendere il finale un po’ caotico e dispersivo per il pubblico tanto che al momento del buio gli applausi stentano a iniziare. Vi è però una tensione attoriale genuina verso la platea, per coinvolgerla nella memoria della casa dei nonni, dei giochi da bambini, dell’ostia che sa di carta, dell’amore di un tempo che supera tutte le difficoltà e rimane unito fino alla fine, in una danza anziana, sbilenca e arteriosclerotica ma giovane di sentimenti e, ancora, complementare. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Basilica: di Benedetta Parisi e Alice Sinigaglia, regia Alice Sinigaglia, in scena Benedetta Parisi, voce off Michele Coiro, suono Fabio Clemente luci Daniele Passeri, produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d'Innovazione, TPE Teatro Piemonte Europa - Festival delle Colline Torinesi, costumi grazie a Sandra Cardini, foto Andrea Macchia.

NON TROVERETE NULLA DI ME IN QUESTO FILM (Ateliersi)

Capita spesso, anche ai più smaliziati in ambito tech, che nel turbinio quotidiano di release di prodotti e servizi ci si trovi spiazzati di fronte alla crescita apparentemente illimitata del potenziale di nuovi strumenti e linguaggi. Ogni slittamento imposto da un “progresso” genera un nuovo passato, più netto e concreto del futuro stesso. È possibile che questo strapparsi del tempo ci restituisca parziale nozione di tutte quante le altre faglie, di quello stesso limbo di chi è stato, in altri tempi, spinto fuori dal proprio presente. Nel 1916, Eleonora Duse recitò nell’unico film della sua carriera, Cenere, tratto dall’omonimo romanzo di Grazia Deledda. La presenza della divina scorre sullo schermo accompagnato da uno strano senso di estraneità al mezzo: un’enfasi certamente teatrale, ma anche, all’opposto, un’asciuttezza naturale antitetica al vago espressionismo di Febo Mari, già divo del cinema muto, regista e attore nei panni del protagonista del film. Immersa nel tempo, fuori dal tempo, dis-misura dello iato tra due linguaggi, quella prova di curiosità diventa un atto paradossale di autonegazione. Non troverete nulla di me in questo film, chioserà Duse nelle lettere cui Fiorenza Menni presta la sua consueta formidabile voce, doppiando i gesti e i movimenti privi di parola della pellicola. La performance gioca con la forma del cineconcerto: lo schermo sul fondale, Menni e, al suo fianco, Luca Maria Baldini al dj set, in uno straziante atto sinestetico che trasferisce il senso dall’immagine al suono, parole e musica, come per rendere assente l’immagine – che forse per questo è trasfigurata in sostanza emozionale dal recoloring dell’originale con filtri a dominante prima blu, poi gialla e poi rossa. L’impronta drammaturgica mima sapientemente la volontà di autosottrazione della Duse ad ogni livello: la presenza vocale e corporea di Menni è sempre discreta e misurata; il toccante tappeto musicale di Baldini commenta nitidamente il film senza mai occupare il centro della scena. A lunghi tratti, il girato sul fondale mostra le smagliature della pellicola lungo l’asse centrale, come un fuoco che mangia la figura di Duse. Resta quell’assenza al centro di tutto. (Andrea Zangari)

Visto all’Angelo Mai voce Fiorenza Menni; musiche originali e sonorizzazione dal vivo Luca Maria Baldini; ideazione e regia Cosimo Terlizzi ; prodotto da Ateliersi, Luca Maria Baldini, Cosimo Terlizzicon il sostegno di Asolo Musica e Asolo Art Film Festival in collaborazione con Agorà

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