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Il Portogallo di Pendulum, tra danze liberatorie e realismo postcoloniale

Recensione. Pendulum del regista portoghese Marco Martins – andato in scena all’Arena del Sole il 26 e il 27 gennaio – racconta le storie di sette donne migranti che si sono ritrovate a svolgere il lavoro di assistente familiare a Lisbona. 

Foto Estelle Valente
Foto Estelle Valente

Il palcoscenico, privato delle quinte, si presenta come una piazza dopo il mercato, quando tutti gli ambulanti sono andati via lasciando le tracce della vita caotica che si può, ora, solo immaginare: ingombro di stracci vecchi che una donna sulla sessantina, capelli grigi e pelle scura, inizia a ripulire accumulando lo sporco in un angolo della scena. È entrata dalla platea, attraversando il corridoio, sale sul palcoscenico dalla scaletta del proscenio, parla al telefono. Si spoglia dei suoi abiti quotidiani per indossare una divisa. È tutto così ordinario che annoia. Non ci si aspetta niente da lei, eppure lei, improvvisamente illuminata da un faro che la isola, presentandosi col suo vero nome, Maria, le sua età e dichiarando la provenienza, ci parla, si rivolge direttamente a noi, la platea da cui è venuta fuori, come tutte le altre dopo di lei. Lei è simile a noi, una lavoratrice, un ingranaggio di un sistema più grande, perfetto e dettagliato. Lei è quel piccolo dettaglio. Le sue parole si dissolvono in poche battute trasformandosi presto in una danza tribale che racconta, più di ogni altra cosa, le sue origini. Dice che non le era stato permesso di danzarla quando era giovane e viveva nelle colonie; dice che si tratta di una danza provocante, che secondo gli uomini stranieri il demonio passasse così dalla donna per sedurre e ammaliare. È una danza dell’infanzia che le è stata proibita e che ora il suo corpo adulto non ha dimenticato. Lei può danzare nello spazio asettico del supermercato, al buio, in silenzio. Ed è questa danza che ci lega immediatamente a lei. Maria non è un’attrice, è una donna comune che si muove, calamitando l’attenzione su se stessa, al centro di una scena vuota. 

Foto Estelle Valente

Marco Martins ha realizzato Pendulum all’interno di un progetto dal titolo Prospero Extended Theatre che coinvolge nove paesi dell’Unione Europea e dieci partner, tra cui ERT, nella produzione e nello scambio di spettacoli con la grande ambizione di “stimolare le facoltà critiche collettive” e “partecipare allo sviluppo culturale dell’Europa” come si legge sui canali ufficiali del progetto. 

La messa a punto di quest’opera, in particolare, ha previsto un laboratorio di sei mesi con sette donne migranti di prima e seconda generazione provenienti da ex-colonie portoghesi come Capo Verde e Brasile e impiegate come collaboratrici domestiche. Le questioni che intende affrontare sono chiare sin da questa prima scena: il passato coloniale di queste donne emerge, specie dai loro corpi, in un presente problematico, in cui è ancora difficile essere accettate e sentirsi cittadine dello Stato in cui vivono e, soprattutto, lavorano. Sono donne pendolari (Pendulum in portoghese), dalla periferia al centro, circoscritto qui nel retro di un grande supermercato di Lisbona.

Foto Estelle Valente

Sono moltissimi gli spunti di riflessione che, durante tutta la durata dello spettacolo, ci vengono offerti dalle singole storie che le sette protagoniste ci raccontano in prima persona. C’è contraddizione, c’è bellezza, c’è molta sofferenza, c’è la speranza di una vita migliore e c’è l’appiattimento dovuto al ruolo sociale ottenuto, quello di badante, che sembra anche l’unico possibile. Ci sono storie di prostituzione, più o meno esplicitata, e storie di grande tenerezza nel rapporto tra queste donne accudenti e i loro pazienti/datori di lavoro. Non sono storie “nuove”, spesso poco interessanti, esposte attraverso un’estetica quasi cinematografica, in cui prevale la costruzione di quadri scenici isolati. E una struttura drammaturgica frammentata in cui si alternano le singole individualità. Il passaggio tra le scene è spesso brusco, poco fluido, ma senza che questo denoti uno stile registico preciso e comprensibile, o dichiaratamente straniante. E nella maggior parte dei casi questo linguaggio crea un distanziamento importante tra il pubblico e la scena. Come se dovessimo essere sempre ricondotti alla realtà, ogni momento distensivo o patetico è sempre seguito dal rumore assordante di un flash e da luci accecanti che si accendono contro la platea. Siamo investiti per cinque, sei, sette volte da questo enorme obiettivo immaginario che ci sveglia e rompe l’equilibrio. 

Foto Estelle Valente

Allo stesso tempo la danza ha un effetto attrattivo e quasi catartico: nelle scene corali queste donne danzano. È la frenesia liberatoria del ballo che accomuna tutti i loro sentimenti e che ci fa stare con loro. Come quando, poco dopo l’inizio dello spettacolo, le vediamo alternarsi al centro di un cerchio come  baccanti che urlano e saltano tenendo un ritmo che pare più interno ai loro corpi che legato alla musica della scena. Tutte scuotono le braccia dall’alto verso il basso e, respirando forte, come per liberarsi da un peso, escono dal cerchio rinnovate. 

Foto Estelle Valente

La scelta di affidare una parte delle loro storie al gesto è interessante e deriva certamente dal lungo lavoro laboratoriale svolto. Quello che dicono attraverso i loro corpi, queste donne, ha molta più potenza rispetto alle loro parole. Ma è quando i linguaggi si sovrappongono che tutto accade in maniera schizofrenica, eccessiva anche, come per il gusto di lasciarci attoniti. 

Nell’ultima scena d’insieme il gruppo si scaglia in una feroce denuncia verso di noi che siamo accusati di guardare e giudicare, di illuderci di conoscerle, di aver appreso dai loro racconti la verità delle loro vite. Anche adesso questa danza coinvolge, attrae; invece le parole ci negano la possibilità di avvicinarci ancora un po’ alle Baccanti di Pendulum. Ma alle denunce, all’accanimento, al senso di colpa, il pubblico contemporaneo è abituato e, nell’intento di darci qualcosa su cui riflettere, questo spettacolo ci stordisce. 

Silvia Maiuri

ideazione e regia Marco Martins
con Elane Galacho, Emanuelle Bezerra, Fabi Lima, Juliana Teodoro Alves, Maria Gustavo, Maria Yaya Rodrigues Correia, Nádia Fabrici
testo Marco Martins con la collaborazione degli attori e di Djaimilia Pereira De Almeida
musica originaleTia Maria Produções
movimento Vânia Rovisco
assistente alla regia e supporto drammaturgico Rita Quelhas

scene Fala Atelier
luci  Nuno Meira
suono Vítor Santos
casting non attoriale José Pires
progetto scenografico, produzione e montaggio Artworks
direttore generale di Arena Ensemble Marta Delgado Martins
direttore di produzione Flávio Catelli
coordinamento e direzione di produzione Mariana Brandão
produzione Artemrede, São Luiz Teatro Municipal, Teatro Municipal Do Porto – Rivoli, Rota Clandestina/C.M. Setúbal

Lo spettacolo è realizzato all’interno del Progetto internazionale “Prospero Extended Theatre”, grazie al supporto del programma “Europa Creativa” dell’Unione Europea

Ringraziamenti
Alexandrina Barros de Pina, Beatriz Maciel, Denise Souto, Filomena Correia, Maria Stella Barbosa de Oliveira,Miriam Pontífice, Poly Ferreira, Rosana Peixoto, Adelaide Silva (Almada Mundo), Ângela Fernandes Barbosa (Centro Cultural de Cabo Verde), Centro Social Paroquial de Cristo Rei, Daniela Ribeiro, Filomena Lopes Correia, Keilla Gonçalves (Conexão Feminina – Setúbal), Larissa Birca (Associação Moldava), Lígia Almeida (Ad Sumus – Almada), Ministério dos Filmes, Natércia Pedro (Centro Comunitário Arrentela), Patrícia Brederode (Casa do Brasil), Pedro Lisboa (coordenador RSI Montijo), Pedro Santarém (C.M Barreiro), Pensão Favorita (Porto), Príncipe Discos, Samantha Costa, Sandra Coelho (Cine-Teatro Joaquim d’Almeida), Sandra Pratas Rodrigues (Montijo), Sílvia Gil, Soraia Talento Marques (Alto Comissariado para as Migrações)

foto ©EGEAC-Teatro São Luiz, Estelle Valente

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