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Fotofinish. Libertà artistica e consenso, il dibattito

A partire da un post su Instagram di Generazione Magazine dedicato allo spettacolo di RezzaMastrella (Antonio Rezza e Flavia Mastrella), Fotofinish, si è sviluppato un dibattito sui social network che investe la relazione tra l’arte teatrale e i mutamenti della sensibilità del pubblico. Abbiamo invitato i due protagonisti del dibattito – Valentina Sbrescia che ha curato il post di Generazione Magazine dal titolo “Quando l’arte sovrasta il consenso” e Graziano Graziani, autore dell’intervento su Facebook “Se non si ride non è la mia rivoluzione” che commentava il post di Generazione – ad ampliare le proprie riflessioni con due interventi che pubblichiamo di seguito. (Si è scelto di pubblicare prima l’articolo di Graziani per la sua natura di risposta a un post sorgente che era già stato reso pubblico sui social, NdR).

di GRAZIANO GRAZIANI

Su invito della redazione di Teatro e Critica provo a operare una sintesi del dibattito che si è generato sui social media a partire da un post su Instagram del 26 dicembre di Generazione Magazine – che aveva per oggetto Fotofinish, uno spettacolo del duo RezzaMastrella che va in scena da vent’anni esatti e in questi giorni è tornato al Teatro Vascello di Roma – post che ho ripreso e commentato il giorno successivo su Facebook. In entrambi i casi si è innescata una discussione molto partecipata. Rispetto al post originario si tratta di alcune slide non firmate, non di un articolo vero e proprio, dove in sostanza ci si interroga sulla legittimità di una scena in cui Antonio Rezza prende delle persone dal pubblico e le porta sul palco rompendo la quarta parete. Si legge testualmente nel post: «Ad un certo punto delle persone vengono scelte e portate dietro le quinte, una ad una, dove verranno “uccise” da uno sparo e trascinate esanimi sul palco. Restano immobili e dunque alla completa mercé dell’artista, che è libero di sbeffeggiarle e di palparle nelle parti intime».
Appurato da quanto riportato e dai commenti a corredo che non si stava parlando di una molestia a sfondo sessuale nascosta da un atto teatrale, ma di una scena prevista ed effettuata pubblicamente da vent’anni a questa parte, insomma di “linguaggio”, sono rimasto perplesso dall’accostamento tra quanto scritto e l’hashtag “molestie” riportato nel post, così come dal parametro utilizzato per valutare quanto avvenuto, quello del consenso e del limite di legge (suggeriti dall’account di Generazione non nel post originario, ma nei commenti). Una comunicazione che, pur cercando legittimamente di proporre un ragionamento su una questione importante e centrale dei nostri giorni, mi è parsa confusa e potenzialmente mistificatoria.
Il post non riportava una lamentela specifica, anche se poi è intervenuta la vicedirettrice del magazine, Benedetta Di Placido, per chiarire che una ragazza si era sentita a disagio (aggiungo io: altre due persone hanno poi riferito di altre due reazioni simili in passato). Inoltre nel post non specificava cosa si intendesse per «parti intime». Sulla base della mia esperienza di spettatore risalente a diversi anni fa, ho pensato che ci si riferisse alle spinte, alle finte percosse e ai rotolamenti che Rezza compie in quella scena, che simboleggia una guerra e la carneficina in essa contenuta, mimando quindi un episodio di violenza. Tali spinte potevano avere come oggetto le natiche delle persone, maschi e femmine, coinvolte nella scena (ovviamente il teatro cambia ogni sera, potrei non aver assistito alla stessa cosa, questo va messo in conto; ma descrizione e ricordo sembrerebbero collimare).* Sulla base di questo, e sulla base del fatto che la stessa redazione parla di assenza di intenzioni sessuali nel gesto di Rezza (lo fa in un commento Valentina Sbrescia, che ha curato le slide), provo ad argomentare l’ammissibilità di quanto accaduto. Siamo nell’alveo della finzione, di una forma drammaturgica che avviene pubblicamente sul palco, e questo già ci dà una cornice precisa in cui possiamo facilmente leggere e decodificare cosa sta accadendo. Questo non vuol dire che non ci si possa sentire a disagio e decidere di sottrarsi a quanto sta avvenendo – quello può accadere in qualunque momento – vuole però dire che di base siamo all’interno di un patto comunicativo chiaro.
Più di una persona, nel dibattito, è intervenuta per sottolineare che il pubblico che segue fedelmente il duo RezzaMastrella da anni lo fa proprio per vedere ciò che Rezza fa sul palco, il che è genericamente vero. Ma se anche ci trovassimo di fronte al caso dello spettatore ignaro, magari portato da un amico, la cornice composta dalla dimensione teatrale, dall’atto ludico e dalla forma pubblica di tutto questo resterebbe comunque evidente. Ovviamente sarebbe legittimo anche irritarsi, rifiutare di farsi coinvolgere, andarsene, non tornare. Chi “stressa” il rapporto col pubblico sa che ci si può aspettare anche questo.
Questa riflessione sulla liceità dell’azione in questione non significa, è evidente, che spettatori e spettatrici debbano farsi andare bene qualunque cosa. Si può subire qualcosa che crea disagio poiché lo si considera parte di un processo estetico, di conoscenza, o persino provare piacere per il fatto di essere messi a disagio; ma, d’altro canto, ci si può anche sentire a disagio senza corollari e scegliere di sottrarsi dalla situazione. Colpevolizzare lo spettatore che non capisce o si sottrae è fuori discussione – la questione (con cui concordo in pieno) è stata posta da Andrea Falcone, che provava chiedersi se non fosse il caso di «mandare in pensione» quello che è stato indubbiamente un grande spettacolo, visti gli esiti, ma che non intercetta più le sensibilità odierne in alcune sue forme. Anche Fabio Massimo Franceschelli è intervenuto sottolineando come da vent’anni a questa parte la sensibilità sia molto cambiata, soprattutto attorno al corpo femminile nello spazio pubblico; il confine tra lecito e illecito cambia con il tempo e con l’evolversi delle sensibilità (altro aspetto con cui concordo in pieno).
Per quanto la questione diacronica abbia un proprio senso, tuttavia, non penso che “storicizzare” e archiviare sia la soluzione al problema. Se da un lato ricordare che uno spettacolo ha vent’anni di storia non vuol dire nulla dal punto di vista della sua liceità o della sua tenuta, perché potrebbe comunque essere “invecchiato male”, riscontrare che esiste oggi un pubblico nutrito che quel lavoro va a vederlo, che ne decodifica i codici e che ne gode esteticamente, questo è qualcosa che ci parla del nostro presente.
Le sensibilità in campo sono tante, come lo sono i mondi teatrali in cui ci si può imbattere. Sarebbe allora più proficuo parlare di “coesistenza”, anziché di ammissibilità, perché se è vero che quello che per me è ammissibile potrebbe non esserlo per te, ciò non vuol dire che la fetta di pubblico che ritiene ammissibile un lavoro che si apre all’imprevisto debba per forza privarsene poiché questo viene giudicato, da altri, inammissibile. Come tenere assieme le due cose? Difficile farlo quando si prende a parametro il binomio lecito/illecito, perché si tratta di categorie, per propria natura, normative. Una cosa illecita è di per sé fuori dall’orizzonte delle possibilità. Se invece stiamo parlando di sensibilità, le cose si fanno immediatamente più sfumate, plurali e meno classificabili. Certo, possiamo mettere sopra tutto questo ragionamento il fatto che le sensibilità, tutte, vanno rispettate. Che è un approccio sensato, oltre che auspicabile. Ma come fare a tenere preventivamente presenti tutte le possibili reazioni?
Se sottrarsi, protestare e non tornare sono sempre azioni possibili di dissociazione dagli artisti e dalle loro pratiche, limitare preventivamente una situazione che può aprirsi al disagio altrui significa fatalmente intervenire sui contenuti. L’entertaiment, ad esempio, lavora proprio su quello, dovendo raggiungere vasti pubblici senza rischiare di scontentare nessuno. L’arte teatrale è invece destinata a pubblici più piccoli e lavora (o può lavorare) su logiche differenti: e questo non perché le riconosciamo uno statuto “speciale” che le consente di fare impunemente quello che altrove non è consentito, ma perché propone una differente esperienza estetica, che può contemplare l’imprevisto e il ribaltamento della zona comfort, e ci sono pubblici disposti a frequentarla proprio per questa ragione.
La vicedirettrice di Generazione Magazine, Benedetta Di Placido, è intervenuta nel dibattito per spiegare che la questione centrale per la redazione resta il consenso, concetto non sindacabile. Una posizione che considero non solo condivisibile, ma di grande importanza nel nostro presente, dentro e fuori dalle dinamiche teatrali. Tuttavia, se per la stessa redazione di Generazione Magazine quello che accade sul palco di RezzaMastrella non ha una rilevanza sessuale, resta da capire perché la questione del consenso venga evocata invece come se questa rilevanza ci fosse. E resta da capire perché si scelga di usare l’hashtag “molestie” anziché parlare legittimamente di disagio. Un disagio nei confronti del quale ci si può sottrarre e persino protestare.
L’assenza di informazione sulle implicazioni dell’interazione tra pubblico e artisti resta un tema centrale nella riflessione del magazine, e la cosa ha un suo senso. Tuttavia Fotofinish (proprio come accade anche nella sfera dell’entertainment che utilizza linguaggi espliciti o immagini violente) è accompagnato da un disclaimer che recita così: «Lo spettacolo prevede interazione con il pubblico e per la presenza di nudo in scena si consiglia la visione agli over 16». Troppo poco? Forse sì. Forse si potrebbe essere ancora più specifici e parlare di interazione che prevede contatto fisico. Rimane da chiedersi se il famoso spettatore ignaro sarebbe in questo modo davvero tutelato – i
disclaimer, si sa, sono più che altro degli scarichi di responsabilità.
Concludo con una riflessione che non c’entra con lo spettacolo, ma che riguarda l’innesco della polemica. Viviamo un’epoca fragile e le lotte che si stanno portando avanti contro forme secolari di molestia e vessazione è forse una delle poche questioni, assieme a quella ambientale, a dare linfa a un momento politicamente esangue. Non sono io, per età e per posizione, a dover dire a una redazione di under25 come portare avanti questa battaglia, che è soprattutto della loro generazione. Ma tutti quanti, giovani o meno, si può contribuire al ragionamento con le proprie sensibilità, che in questo caso mi vedono a favore di una presa di consapevolezza dello iato che intercorre tra il simbolico e il reale. Il teatro ha spesso giocato sulla confusione dei due piani e quando questo avviene a discapito di qualcuno che avverte disagio, o di qualcuna, costei è certamente legittimata a mandare cordialmente a quel paese chi lo fa. Nella consapevolezza, tuttavia, che si sta parlando di teatro, non di realtà.
Buona lotta a tutti e a tutte, dunque. E buona coesistenza, ognuno frequentando i mondi teatrali che ritiene più opportuni.

* Nota. L’articolo si basa sui fatti ricostruiti a partire dalla visione dello spettacolo avuta dall’autore e da altre testimonianze intervenute. Nel caso i fatti sostanziali fossero diversi cambierebbero anche le considerazioni. La comunicazione frammentata all’origine del dibattito non ha permesso una disambiguazione di questo passaggio. Siamo comunque aperti al confronto.


Graziano Graziani è scrittore e critico teatrale.


di VALENTINA SBRESCIA 

«Nel tentativo di demistificazione dico che come avete visto non c’è nessuna manipolazione: lo spettacolo è così da vent’anni e rimarrà così per sempre». In breve queste sono le parole usate da Antonio Rezza, alla fine dello spettacolo Fotofinish durante la replica del 27 dicembre scorso al Teatro Vascello di Roma, per rispondere alle curiosità nate negli ultimi giorni sul suo spettacolo. Il web si è diviso infatti, per un post di Generazione Magazine, scritto da me e discusso ovviamente con il team. L’articolo in questione, “Quando l’arte sovrasta il consenso”, pone delle domande riguardanti appunto il limite tra performance, quando questa utilizza il corpo di altri, e consenso. Lo spettacolo che abbiamo visto (e teniamo a dire che ci è piaciuto e che apprezziamo la compagnia RezzaMastrella) ci ha fatto sorgere delle domande e, ascoltando una spettatrice, abbiamo capito che si poneva i nostri stessi dubbi. Così abbiamo buttato giù un post, poiché eravamo davvero curiosi di sapere innanzitutto le persone come hanno recepito lo spettacolo leggendo i loro feedback e poi, magari, ipotizzare se, usando dei piccoli accorgimenti, l’aggiunta di indicazioni alla visione avrebbe comportato una differenza sostanziale sulla fruizione stessa. Ad un certo punto della messinscena, delle persone vengono prese dal pubblico e fatte salire sul palco, viene simulata la loro morte per fucilazione lontano dagli occhi del pubblico e dopo un secondo vengono trascinate sul palco. Il loro corpo è ovviamente alla completa mercé di chi in quel momento è attivo in scena. Ora, vi sono due aspetti da tenere in considerazione che determinano il paradosso: da un lato se si spiegasse cosa sta per succedere si taglierebbe fuori l’imprevisto e lo spettacolo si snaturerebbe, dall’altro è vero che ogni persona sul palco è in pieno possesso del proprio libero arbitrio e nessuno le vieterebbe di tornare al proprio posto ma questa potrebbe sentirsi in soggezione e sotto pressione, guardata da centinaia di spettatori, e quindi restìa a qualsiasi atto di “ribellione”. Ed è anche ovvio che chi sale sul palco sa che potrebbe accadere qualsiasi cosa, ma magari non tiene conto che potrebbe essere toccato in quelli che per la propria percezione possono essere “trigger points”. E non è una cosa scontata, come alcune persone hanno detto: «Se vai a vedere RezzaMastrella sai cosa aspettarti». E se avessi accompagnato solo un’amica senza sapere nulla di RezzaMastrella? Perciò per migliorare l’esperienza di qualcuno, potrebbe essere aggiunta la premessa «Come sapete può succedere di tutto, potrei addirittura toccarti le parti intime se mi va. Ti sta bene?». E, mi chiedo, formulare alle persone – magari in sordina, senza che il pubblico possa sentire, magari proprio nel momento prima della “fucilazione” – una premessa del genere, regalandogli un’esperienza più consapevole, andrebbe a ledere lo spirito dello spettacolo pur non svelando ciò che sta per succedere? Le persone hanno percezioni diverse, storie diverse e reazioni diverse, solo perché avviene su un palco non possiamo pensare che tutto sia linguaggio universale. Una persona con, ad esempio, degli abusi alle spalle si ritrova magari in quella situazione e inizia a provare disagio. E no, non doveva privarsi di andare a vedere lo spettacolo, come molte persone (mi duole dirlo, ma soprattutto uomini) hanno suggerito. Perché anche essendo consapevole delle sue proposte, non puoi dare per scontato che certe cose accadranno. Alcune persone nei commenti ci hanno accusati di “voler censurare” l’arte, e altre cose da cui ci discostiamo in quanto amiamo ogni forma di espressione artistica. Io stessa sono un’attrice. Come potrei, come potremmo, volere la censura quando ci sentiamo liberi di portare i nostri dubbi ai nostri lettori per avere un confronto e dunque accogliere una visione magari diversa dalla nostra, che può farci aprire a nuovi orizzonti? Non siamo bigotti, ma persone che si interrogano in un’era che di domande ne fa porre tante. Chiaramente, a chi le domande sa ancora farsele. 
E sappiamo ancora ridere, ma i tempi cambiano, e così anche il pubblico. Che nel frattempo può essere diventato più consapevole su determinati argomenti. Non siamo più a un cabaret di un villaggio turistico nel 2005, dove venivano portate persone sul palco e veniva fatto loro di tutto (ci tengo a precisare che non sto paragonando gli spettacoli di RezzaMastrella a un cabaret durante le vacanze, l’esempio deriva dalla praticità. Come detto in precedenza, le proposte di Rezza ci piacciono molto). E lì, anche se eri terribilmente in imbarazzo e a disagio, non dicevi niente e ti facevi una risata. Non perché all’epoca non si provasse disagio, ma perché per la mentalità di allora saresti risultato “pesante”, perché mancava la consapevolezza e mancava qualcuno che iniziasse a dire “aspetta, fermo, ma che fai senza il mio permesso?”. La gente era a disagio anche allora, ma non riusciva a dirlo. Credeva che fosse un problema suo e basta, non sapeva dei milioni di persone con le stesse sensazioni. È cambiato che oggi abbiamo maggiore consapevolezza e ci sentiamo maggiormente sicuri nel parlarne.
Graziano Graziani, che ha analizzato il nostro post, dichiara che nel contesto il gesto è “ammissibile”. Ma io credo che ognuno, su questa tematica così delicata, possa parlare soltanto per se stesso. Perché ciò che è ammissibile per lui, non può esserlo per me. E non devo per forza avere motivazioni come un trauma alle spalle. E Graziani dice anche che in quanto facilmente interpretabile come gesto artistico, sia quindi legittimo. Ma resta il fatto che, per lanciare il tuo messaggio, per dar vita alla tua arte, non stai usando il tuo corpo, ma il mio. Sarebbe pienamente legittimo nel momento in cui l’artista usasse come mezzo se stesso o una persona al corrente di ciò che sta accadendo. Diversamente, invece, sei soggetto alla percezione dell’altro. Alcune persone che hanno assistito allo spettacolo, infatti, parlavano del loro disagio e avevano opinioni e perplessità diverse. E delle perplessità le abbiamo avute anche noi, ma non sulle intenzioni di Rezza che ribadiamo, sono sicuramente lontane da un movente sessuale, ma sul come potrebbe sentirsi chi è dall’altra parte trovandosi in quella situazione senza saperlo.
Sappiamo sempre ridere, ma oggi sappiamo anche che siamo liberi di dire che qualcosa ci turba senza incorrere in pregiudizi arcaici. O solo perché è arte non si può dire che a qualcuno ha lasciato l’amaro in bocca? La gente nei commenti del post di Graziani, la maggior parte almeno, non aveva colto (e forse nemmeno letto) il nostro post. Alcuni commenti erano davvero forti, uno dello stesso Graziani che rispondeva alla testimonianza di una donna – la quale aveva trovato «di una violenza inaudita» degli attori di uno spettacolo di Ricci Forte che scendevano nel pubblico a baciare gli spettatori – con un «se penso a qualcosa di inaudita violenza in questo momento mi viene in mente la guerra»*. Sminuendo così il sentire di una persona soltanto perché non voleva essere baciata da un estraneo senza saperlo e trovava il gesto “violento”. Noi non siamo i paladini del politically correct, ma le persone hanno tanto lottato per potersi sentire libere di esprimere il loro dissenso, perché tornare indietro?
E tantomeno, come suggerisce qualcun altro sempre nei commenti, con la nostra curiosità abbiamo tentato di affossare l’opera. 
Come scritto prima, e ripetuto nei commenti del post di Graziani da Andrea Falcone, il pubblico cambia e questa cosa va accolta. E non è necessario stravolgere o togliere dai cartelloni uno spettacolo che è bello e funziona tutt’oggi, ma potrebbe essere una cosa giusta prendere dei piccoli accorgimenti.
Anche nei commenti del post di Generazione ci sono pareri contrastanti, c’è chi dice “dovete sentire, non capire”, “ma mica è obbligatorio andare a vedere RezzaMastrella”, ma c’è anche chi scrive: «Sono un grande fan di RezzaMastrella ed ero a teatro durante una delle repliche di Fotofinish, che è un bellissimo spettacolo. Mi sono domandato a lungo cosa fosse giusto pensare di quella scena finale, ma l’unica cosa che posso dire è che mi ha messo molto a disagio essere lì e assistere mentre accadeva questa cosa. Non l’ho vissuta benissimo».
Tutti i commenti qui riportati e molti altri sono disponibili nell’area commenti del post in questione di Generazione Magazine e nei commenti del post di Graziano Graziani. E ogni singolo commento, di qualsiasi tipologia, è stato un grande tesoro per noi, perché ci ha dato modo di esplorare la visione di ognuna delle persone che, commentando, si è esposta dicendo la sua. E dopo questo siamo ancor più convinti che se per dieci persone che ridono ce n’è una che va via turbata, non è quell’unica persona ad essere sbagliata, così come nemmeno chi lascia la sala ridendo. Sbagliato sarebbe il non poter esprimere la propria opinione commentando uno spettacolo appena visto, perché c’è qualcuno che cerca di convincerti “che hai un problema” se hai provato disagio.

*Nota. Riportiamo di seguito il commento di Graziano Graziani nella sua interezza apparso sotto al post: “se dovessi pensare a qualcosa di “inaudita violenza” a me in questo momento viene in mente quello che si sta verificando a Gaza. Se tutti ci sforzassimo di circostanziare i discorsi alle cornici che li contengono, forse faremmo meno fatica a trovare dei punti di incontro tra posizioni differenti (lo dico senza polemica, perché spesso il tuo fastidio è stato anche il mio)”.


Valentina Sbrescia, nata a Napoli nel 1996 si è formata in drammaturgia teatrale. Scrive per TgNews24, Generazione Magazine e nel 2018 ha pubblicato una raccolta di poesie.


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4 COMMENTS

  1. Credo che alla radice della polemica ci sia una profonda sottovalutazione dell’importanza del disagio come categoria estetica (si tratti di teatro o meno). Ma si potrebbe anche dire che la polemica stessa ne avvalori la sostanziale necessità.

  2. In risposta allo scritto qui pubblicato di Valentina Sbrescia (Disclaimer: forse qualcuno lo ha già scritto, ma ammetto di non aver seguito tutta la discussione sui vari social e/o siti, ma solo la parte che compare qui). Certo che la persona che ha provato disagio ha tutto il diritto di sentirlo ed esprimerlo e non c’è assolutamente niente di sbagliato in questo sentire ed esprimere, anzi, ma il punto non è forse proprio che l’intenzione era quella di creare e far provare disagio? Non è forse uno dei compiti dell’arte, quello di essere scomoda? Non è questo, anche se non solo questo, che in qualche modo la distingue dall’intrattenimento? Quel disagio non è forse l’ombra (per altro infinitamente pallida e sbiadita, e per fortuna!) del terrore e l’angoscia che prova una persona che si trovi a vivere quella situazione “nella vita reale”? Secondo me non c’è modo di scampare da questa strettoia: o quello che RezzaMastrella fanno è arte, e il provocare disagio ed essere scomoda è dunque uno dei suoi legittimi e anzi in fondo auspicabili intenti, o è goliardia, dunque, ebbene sì, inutile molestia, per quanto si svolga su un palcoscenico. Secondo me non è tanto il contesto (palcoscenico) a cambiare la sostanza, ma l’intenzione e lo scopo di quel particolare gesto artistico. Se l’intento del gesto artistico in questione è creare disagio, fare pensare, risultare scomodo, ribaltare la percezione di vivere in una confort zone, provocare emozioni non necessariamente piacevoli, il risultante disagio fa necessariamente parte del gioco. Assodato che l’intento non è sessuale, il disclaimer potrebbe essere: è uno spettacolo che potrebbe far sentire e provare emozioni non necessariamente piacevoli, ed è questo il suo (o uno dei suoi) scopo (scopi)?

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