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Short Theatre: rifare una storia, in dialogo con Piersandra Di Matteo

Con l’edizione 2023 di Short Theatre prosegue il percorso iniziato due anni fa da Piersandra Di Matteo, che sta trasformando con discrezione e lungimiranza il festival, senza disperderne l’identità.

Quanto è importante lo spazio di un festival? Non intendiamo, qui, lo spazio come luogo e meno ancora come monumento, ma come sostanza tra i corpi e le cose, tra il pubblico e l* performer, tra chi e cosa costituisce la comunità della rassegna. Partiamo con ordine dagli spazi che hanno scandito il nostro personale attraversamento dell’edizione 2023 di Short Theatre, per poi cedere la voce a chi ha messo a sistema, con tenacia e raffinatezza, questi spazi in un’articolazione organica di pieni e vuoti: distese luminose sotto il cielo della città, librati volumi neoclassici, recessi intimi per riposare lo sguardo, lacerti di verde urbano inatteso, dancefloor…

foto di Claudia Pajewski

Il Teatro Nazionale di Roma è un edificio incongruo. L’ingresso sull’angolo dell’isolato, alla maniera di certo urbanesimo tutt’altro che autoctono, affacciato su una via simbolicamente nevralgica della capitale, e tuttavia pressocché irrintracciabile nelle geografie teatrali, se non per qualche attività collaterale del Teatro dell’Opera. L’interno amplifica lo spiazzamento: un foyer fuori scala, una sala con una torre scenica e una quinta spropositate. Si avverte la vertigine di certi incubi o di certi horror raffinati, quando l’inquietudine non sgorga dall’assurdità della trama onirica, ma semmai dalla sua verosimiglianza, appena corrotta da qualche incongruità. Se mai fosse possibile dire brutta un’architettura, sarebbe questo il caso. Eppure proprio questa bruttura giunge ad un punto di saturazione, eppoi deflagra nel susseguirsi di due eventi scenici rammagliati dalla sapienza del disegno curatoriale di Short Theatre 2023. Echolalias di Sofia Jernberg, cantante e compositrice afrodiscendente attualmente di base a Stoccolma, e Il Terzo Reich di Romeo Castellucci, nella sua forma puramente installativa, troncato cioè di quel prologo coreografato di cui la performance vocale di Jernberg svolge eccezionale supplenza.

foto di Claudia Pajewski

Questa diade sconvolgente riesce a farsi architettura, cioè a (ri)vivere nello spazio e dello spazio teatrale in cui si manifesta. Chi scrive ha iniziato il suo attraversamento di Short Theatre 2023 proprio da lì, da quella vertigine, fuori dai padiglioni della Pelanda, spazi storici e identitari del Festival. La direzione artistica di Piersandra Di Matteo prosegue nel segno di questo esodo sempre più incisivo verso il farsi città di Short. Un andar-fuori in grado di leggere e sovvertire le antinomie più banali tra centro e periferia: se per una comunità di pubblico e artist* la Pelanda è diventata cuore pulsante di una storia, il centro storico è paradossalmente esso stesso una periferia. E che dire dei Granai, centro commerciale postmoderno e fulcro di un quartiere, Roma 70, che riassume tutte le contraddizioni amministrative e architettoniche dell’ultimo mezzo secolo capitolino? Lì, tra le interminabili campiture di un parcheggio coperto, Di Matteo ha portato Radio Vinci Park di Théo Mercier, con François Chaingnaud e Marie-Pierre Brébant. Altra epifania dirompente, densa di richiami iconografici e musicali al repertorio classico, capace di mettere in crisi lo spazio fisico e simbolico in cui accade. A tal proposito, esordisce Di Matteo:

“In questa edizione di Short si convoca spesso la cultura classica musicale e per indicarne i possibili spazi di reinvenzione, di ripensamento, che rendono possibile riabitarne la storia e le forme, scavandovi punti di commozione. Penso appunto a Sofia Jernberg e al suo modo di forare il repertorio barocco, fino a inciampare nella ricerca percussiva di Scott Gibbons in questa giustapposizione con l’installazione di Romeo Castellucci, o al clavicembalo di Radio Vinci Park, usato con una tecnica che implica e stravolge la storicità dello strumento, fino, di nuovo, a inciampare nel rombo di una moto. Anche Alessandro Sciarroni, in Dream, ha lavorato su temi classici, da Bach a Satie, a Cage”.

Hai citato dei lavori in cui ricorre un rivolgimento alla tradizione e alla cultura musicale che si salda profondamente alla dimensione performativa. Tutti, inoltre, avvengono in luoghi non convenzionali, spesso estranei alle geografie teatrali.

foto di Claudia Pajewski

Il Teatro Nazionale è uno spazio aperto di rado alla città, usato prevalentemente come sala prove del Costanzi. La collaborazione inaugurata con il Teatro dell’Opera nasce proprio nell’ottica di riconsegnare un teatro alla città, ma ancora di più con l’intento, condiviso da subito con il sovrintendente Francesco Giambrone, di mettere in connessione pubblici consolidati ma separati, tra loro ancora poco permeabili. Credo che nei prossimi anni la sinergia con il lavoro dei teatri d’opera possa rivoluzionare lo spettacolo dal vivo e il mondo della performance. A livello europeo, soprattutto grazie a una nuova generazione di dramaturg che lavora in quelle istituzioni, si stanno reimmaginando nuove tattiche di attraversamento di repertori e archivi, persino codificando inediti formati di teatro musicale. Altro luogo insolito del centro è l’Acquario Romano, edificio classicheggiante oggi Sede dell’Ordine degli Architetti, tra Piazza Vittorio e la Stazione Termini. Insolito e poco conosciuto sebbene nei primi anni Duemila sia stato sede di una realtà importante per la scena sperimentale nel contesto romano: il Festival Enzimi. Con queste peregrinazioni urbane, Short Theatre vuole anche ritracciare delle consonanze con storie passate che si ripresentano sotto forma di affiorescenze mnestiche già inscritte nella trama urbana.

Nel disegno curatoriale generale, che raccoglie anche la storicità di un festival come Short, che funzione hanno questi smarginamenti fisici della programmazione?

foto di Claudia Pajewski

La storia dei festival ci insegna come questi possano funzionare nutrendo e nutrendosi-di una comunità di riferimento, il che ne ha rappresentato la forza e la riconoscibilità. Ma credo che sia venuto il momento di provare ad abitare la città in modo diverso. Per questo abbiamo immaginato alcuni gesti di attraversamento urbano come il lavoro Body Farm di Silvia Rampelli sul Monte Testaccio, luogo simbolo della topografia romana cui paradossalmente si accede molto raramente. Attraversamenti rasoterra o acquisizioni di punti di vista sopraelevati sulla città, è il caso della collaborazione con la Reale Accademia di Spagna, che ha dischiuso il privilegio di ascoltare il vasto paesaggio sonoro urbano dal Gianicolo. Un belvedere simbolo che può essere la scena ideale per attivare nuovi processi di immaginazione visiva e sonora, nel segno di una nuova ecologia dell’ascolto.

L’accento sulle politiche della vocalità e dell’ascolto è ricorrente nel tuo lavoro curatoriale e di ricerca. In che modo coniughi la radicalità di questo interesse con la responsabilità della direzione artistica di un festival in grado di formulare un programma così eterogeneo rispetto al panorama performativo?

foto di Laura Accardo \ CIRCA

In una città dove spesso ciascuno coltiva il proprio hortus conclusus, non è più tempo di radicalismi estetici escludenti. Bisogna attivare forme di co-progettazione. Per questo ho sin da subito cercato una collaborazione con le realtà e le personalità che rendono vitale il tessuto romano, dal Teatro Quarticciolo a Carrozzerie NOT, da lacasadargilla al Teatro Basilica dove Daniela Giovannetti, Alessandro di Murro e il Gruppo della Creta stanno facendo un lavoro importante (con loro, ad esempio, abbiamo trovato una convergenza sul lavoro di Daria Deflorian).
L’eterogeneità dei linguaggi, l’accostamento di artist* emergenti e affermat* o di lavori in solo e corali, sono responsabilità precise di un festival oggi. Altra responsabilità fondamentale è quella di esercitare forme di prossimità a lavori in costruzione, mettersi costantemente in dialogo, condividere i materiali della propria ricerca con gli artisti e le artiste. Short non ha, come noto, mezzi per produrre, ma può essere un cantiere per le comunità convocate. Mi rendo conto che questo implica anche la presentazione di lavori incipitari, irrisolti rispetto alle premesse immaginate ma proprio per questo disponibili, in futuro, a nuove articolazioni. Sarebbe utile allora esercitare – proprio nel senso dell’allenamento – uno sguardo capace di partecipare all’esperienza, senza ridursi al negozio paternalistico del giudizio che taglia fuori tutta una fetta di saperi in gioco. Si nota spesso negli osservatori una certa mancanza di complicità, nutrire la quale non vuol dire assecondare apriori i lavori, o essere indulgenti, ma esercitare istanze critiche che siano capaci di contemplare la dimensione del fare, il laboratorio incarnato della creazione, le faglie di un sistema che non sostiene produttivamente le realtà emergenti. È la curiosità di aderire alle cose che attiva i processi di conoscenza, una conoscenza corporea, incarnata, affettiva. Saper nominare e conversare con gli oggetti, pur nella loro vulnerabilità.

Radical Sympathy è un titolo che seziona attivamente tutta la programmazione, attivando echi teorici in ogni performance, talk, evento del festival. Come si rapporta la coerenza e la forza del discorso della curatela con la polifonia di un programma così ampio?

foto di Claudia Pajewski

Non è possibile, almeno per me, immaginare una curatela timida, che usi un titolo interscambiabile con un altro. Che funga semplicemente da insegna lampeggiante. Nel momento in cui convochi una comunità, uno sguardo e un orecchio (per ricordare come la dimensione acustica abbia un peso determinante nella ricerca che vogliamo mettere in campo), bisogna prendersi la piena responsabilità di quell’appello. Non penso però si tratti della mia voce, e in nessun modo la rivendico: si tratta sempre di una polifonia, di un assemblaggio di voci, qualcosa di poroso perché attraversabile, capace di contemplare cacofonie e punti di contraddizione, già a partire dall’accostamento dei lavori. “Radical Sympathy“ non sta lì a richiamare un sentimento con qualità morali, semmai una vitalità impersonale. È piuttosto il modo di spostare l’attenzione dalle cose alla relazione tra le cose, quel campo di forze che genera attrazioni e repulsioni, influenze reciproche, correnti erotiche fra corpi e materia umane e non umane. Queste declinazioni di “simpatia”, sottratta alla sfera dei sentimenti centrati nell’io, marca una prospettiva non-antropocentrica e convoca logiche di mescolanza tra il dentro e il fuori che ci affetta, influenza, tocca, colpisce, per riconoscere alle cose che abitano la scena e gli ambienti che percorriamo una propria agentività. Se il festival non è solo il palinsesto degli spettacoli ma uno spazio striato di incontri, la domanda non è tanto “con cosa ci sintonizziamo?” quanto piuttosto “come accade questa sintonizzazione?”. Com’è possibile dare rilievo a ciò che ci resta distante, invece di liquidarlo come un’estraneità? Fondamentale è l’ottica neo-materialista di Jane Bennett, filosofa politica statunitense che studia l’agency umana al cospetto delle influenze non umane. Proprio lei si è concentrata sulla nozione di “sympathy”, mettendo il concetto a lavoro attraverso la produzione letteraria di Walt Whitman, che declina la simpatia anche come “sensitività barometrica”, pressione atmosferica che circola tra i corpi e le cose. Quanto è importante, oggi, l’atmosfera nella fruizione di uno spettacolo? Intendo l’atmosfera come una forma di vitalità materiale tra pubblico e performer, ma anche come condizione metereologica, temperatura della sala, che può condizionare radicalmente la nostra percezione.

Pensandoci proprio in ottica situata, come declini il privilegio di essere una curatrice bianca, occidentale, cisgender?

Credo attraverso un’ecologia dell’attenzione che richiede studio, atti puntuali di ascolto, gesti di retrocessione. Il festival accade come l’emersione di una comunità larga di intese e connessioni, dialoghi con altri mondi, realtà diffuse e diverse soggettività. Si tratta di assumere il proprio privilegio e di metterlo in questione, non saturando uno spazio già esausto, non parlando al-posto-di, ma innescando un fare-con. Quello spazio va oggi forato, percosso con altre estetiche e posizionamenti critici in una chiave radicalmente decoloniale. Qualcuno parla di redistribuire il proprio privilegio… a patto che non sia una “concessione” o un altro modo di “dare accesso” – Erin Manning propone un’analisi tagliente su come tali manovre ripieghino nel compiacimento auto-assolutorio di chi le dispensa, in fondo un’altra forma dissimulata di controllo, che serve solo la riaffermazione delle logiche esistenti. La questione è: che ne è del conflitto, del rifiuto, del desiderio di “restare barbari” – come sostiene Louisa Yousfi – contro le pratiche assimilazioniste dell’Impero? Quale spazio ha l’esercizio artistico che resiste al consenso, che vuole vivere nella rabbia, che lavora per sottrarre terreno alle logiche della bianchezza?

Larga parte della programmazione ha offerto uno spaccato, raramente visibile in Italia, su performatività e blackness. Esistono dei fili rossi che attarversano queste esperienze?

foto di Claudia Pajewski

Le pratiche artistiche black presenti al festival hanno mostrano orientamenti diversi. Penso alla scena anti-catartica e fuggitiva di Ligia Lewis, a cui abbiamo dedicato il PRISMA 2023, che ha visto la coreografa statunitense a contatto con diversi luoghi e comunità della città, come l’incontro con i ragazzi con background migratorio di CivicoZero. Per Lewis non c’è risarcimento né rimediazione possibile, né sono possibili forme di concertazione trasversali. Cadute e collisioni, pause e ripetizioni ossessive, inazione e catatonia nel suo lavoro tematizzano questa impossibilità della riparazione. E la scena restituisce corpi mai integri, perché l’integrità – afferma – non riguarda le persone nere, considerate sempre a pezzi, più carne che corpi. Il festival ha inaugurato l’edizione, ospitando al Teatro Argentina, Fred Moten, punto di riferimento fondamentale per il pensiero politico black contemporaneo. La sua produzione poetica, che smargina di continuo tra il lirico e il teorico, ha mobilitato la comunità che si occupa di Nerezza nel nostro paese, ad esempio la ricercatrice e attivista Mackda Ghebremariam Tesfau’, che lo ha accompagnato in un talk insieme a Justin Randolph Thompson, artista italo-statunitense e direttore di Black History Month. Randolph Thompson ha preso anche parte a una coraggiosa traduzione in italiano delle poesie di Moten, curata dal poeta Lorenzo Mari, e intesa come un atto plurale. Il volume uscirà presto come parte della collana Short Books per Nero editions. Moten del resto già nella sua opera undercommons, scritta insieme al pensatore Stefano Harney, ha evidenziato la trama di connessione tra la cultura black e il pensiero operaista e post-operaista italiano, invitandosi a un’interrogazione perpetua sui rapporti di complicità, dentro e fuori il conflitto, per costruire il comune.

La possibilità di riscrivere la storia mi riporta anche alla possibilità di raccontare in maniera diversa un festival come Short. In tal senso penso a CUT/ANALOGUE, webzine su cui da due anni collezionate spunti teorici e materiali eterogenei.

CUT/ANALOGUE è uno strano oggetto. Dallo scorso anno, abbiamo deciso di non pubblicare più il catalogo cartaceo ma di investire parte dello sforzo di archiviazione in una raccolta di traduzioni, interviste, materiali teorici che partono dagli spettacoli o che a volte rivendicano una loro precisa autonomia, o logiche di risonanza nella distanza. Non si tratta di creare materiale che sostituisca la scrittura critica, anche se riconosco che alcuni interventi si avvicinano a quel limite (penso alla densa intervista di Attilio Scarpellini a Silvia Rampelli). L’idea è quella di tagliare l’analogia col catalogo, da cui il nome, ma non è diventare un vero magazine di arti performative, piuttosto una collezione di sintonizzazioni specifiche ed episodiche con alcuni oggetti del festival, un contenitore spurio che occupa spazi non-pertinenti.

Andrea Zangari

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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