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Nel festival dove il santo incontra l’attore

Dal 18 al 25 agosto si è tenuta la quarta edizione del Ginesio Fest, rassegna dedicata all’arte dell’attore nel borgo marchigiano di San Ginesio che vuole legare la propria rinascita al teatro. Un racconto dal festival diretto da Leonardo Lidi e quest’anno dedicato al tema della maschera. 

Il pubblico del Ginesio Fest 23 – Foto E. Rieti

«Se lei se ne va in giro, a quest’ora e in questo posto, vuol dire che desidera qualcosa che non ha, e questa cosa, io, gliela posso dare». Ha gli occhi grandi Filippo Timi mentre racconta di sé, della propria idea di teatro citando l’incipit de Nella Solitudine dei Campi di Cotone di Koltès, abbracciato al suo handpan. Attore e spettatore nel rapporto dealer/cliente, «con l’umiltà di chi offre davanti a chi compra, con l’umiltà di chi possiede davanti a chi desidera, […] con dolcezza, con rispetto, quasi con affetto». Dentro questo scambio, dentro questo desiderio cresce il Ginesio Fest che dal 2020 celebra l’arte dell’attore con spirito sempre più coerente perché sempre più vicino alla meta: riqualificare e ripopolare il borgo dopo il terremoto del 2016 nel segno del teatro. L’energica determinazione di Isabella Parrucci, direttrice generale del festival, spiega come in pochi anni San Ginesio abbia ottenuto di avvicinarsi alla concreta realizzazione del Borgo degli Attori anche grazie all’assegnazione dei fondi del PNRR: con la prossima riapertura del Teatro Giacomo Leopardi e la ristrutturazione dell’ex istituto Frau da convertire in scuola dei mestieri teatrali, il borgo marchigiano aspira sempre più ad accogliere e promuovere l’arte, attraendo energie nazionali e valorizzando quelle locali. Il festival è logisticamente in mano ad una nutrita squadra di giovanissimi/e residenti: per alcuni una vocazione, per altri un lavoro estivo comunitario, che salda amicizie nell’impegno, costruisce competenze, soprattutto abita i luoghi. Dall’altro fronte, la direzione artistica di Leonardo Lidi si conferma attenta, appassionata e militante: sempre dietro le quinte e mai in proscenio, Lidi sorveglia e cura le giornate ginesine, lungo un percorso artistico annodato  al tema della maschera, emblema della città.

Le maschere di Sulla Morte Senza Esagerare

Il Ginesio Fest infatti continua a coincidere con la settimana che precede le festività patronali del martire attore, degli attori protettore, San Ginesio. Così l’evento è davvero una festa, più che un festival: un susseguirsi non concitato di appuntamenti preceduti da incontri, seguiti da cene comuni, da concludersi nella piazza centrale, crocevia di idee, aneddoti, discussioni tra generazioni, per culminare nell’assegnazione del premio San Ginesio all’Arte dell’Attore, che in questa edizione è andato a Lino Musella e Sara Putignano. Nei giorni in cui è stata presente chi scrive, la compagnia milanese Teatro dei Gordi ha esposto le sue preziose maschere – pezzi unici, di cui non esistono copie – alle domande dei giovani allievi dello Stabile di Torino, ospiti del festival. Uno di loro li ringrazia, «per essere così tanti, usciti dalla stessa accademia e ancora insieme». In Sulla Morte Senza Esagerare, spettacolo che segnò sette anni fa il debutto dei Gordi, quelle maschere integrali in cartapesta «portano in dote il silenzio» diventando undici personaggi per quattro attori. Ed è la maschera a scegliere il proprio interprete, lavorando per sottrazione: fa attrito all’attore, gli ricorda il principio di efficacia della sua arte, imponendo una disciplina che magnifica i significati. Senza esagerare, solo con l’indispensabile, si può ridere della morte davanti all’andirivieni della vita, della sua tenacia, della sua fragilità e fare pace con la parola fine.

Landscape. Foto E. Rieti

Passeggiando per le vie del borgo dai colori pastello, le cui facciate rosate espongono ancora le tragiche ferite del terremoto nei puntelli metallici, ci si inerpica tra vicoli intatti nel ricordo, ripercorsi dagli adolescenti del posto durante la performance Landscape, esito finale di un laboratorio a cura di Elena De Carolis ed Elena Fioretti. Nell’incontro col maestoso paesaggio scopriamo perché San Ginesio venga definito il balcone dei Sibillini, osserviamo come l’erba trovi la sua strada anche tra i mattoni in cotto della facciata neogotica di San Gregorio e nella calma e nel silenzio dei vicoli ancora più grandi sono quegli occhi giovani e timorosi assetati di speranza, di bellezza condivisa. Una parola donata a ognuno all’orecchio, e subito l’intralcio diventa intreccio, l’opportunità per una storia.

A cos’altro si consacra l’arte dell’attore che il Ginesio Fest vuole celebrare se non a quell’intralcio che sono le storie, viluppi di fili da sbrogliare e imbrogliare in nuova foggia. È quanto propone Filippo Timi agli allievi attori della Scuola del Teatro Stabile di Torino, che per il secondo anno abitano San Ginesio in percorsi laboratoriali intensivi. Dal loro incontro con Timi è nato One Shot Show: un pastiche di slanci poetici e cadute in picchiata attorno al Paradiso Perduto di J. Milton. Costruito in cinque giorni, lo spettacolo è un grumo di dolore per infinite voci, scoppia come un fuoco d’artificio quando gli spettatori ancora stanno cercando le proprie sedute, come a ricordare che il teatro è prima di tutto una festa di sguardi, di contatto tra corpi, un venire incontro e imbrattarsi di vita. Eppure tutto convergerà nell’immagine di Timi rannicchiato in un angolo del palcoscenico, il volto coperto da un velo di pizzo, circondato da microfoni che riverberano il groviglio di suoni di cui è impastata la sua voce. Con le parole di Koltès, Satana deliberatamente sceglie di lasciare il paradiso e si ritrova al cospetto di se stesso, l’altro, con gli stessi desideri, le stesse paure, mosso dallo stesso amore. Un’immensa, festante solitudine, fradicia di sangue, lacrime, gioia.

In un’inedita risonanza e con diverse vibrazioni, la stessa solitudine aleggia sul palco che ospita il giorno seguente Roberto Latini: il suo Venere e Adone compie un rito di devozione a quel teatro «che è un malinteso, e noi giochiamo a malintenderci». Cinque momenti per scandagliare l’amore e la sua rappresentazione con la maschera della voce (Latini stesso sottolinea quanto spesso preferisca tenere il microfono davanti e non sotto al viso). C’è il sale sulle ferite, c’è la schiena piegata, c’è l’andirivieni del mondo, ci sono le pieghe del tempo, le bugie ancestrali, c’è persino un cane robotico che imitando la realtà, non può che rassegnarsi a quella mancanza, «la stessa di cui son fatti i sogni». L’amore, come il teatro, non sono che abbandono al desiderio.

Roberto Latini in Venere e Adone. Foto E. Rieti

L’essenza del Ginesio Fest si svela nel giorno della festa patronale, quando sul colle Ascarano due riti si mescolano: il santo incontra l’attore, la banda scandisce involontariamente il ritmo della scena finale di Gino il Re del duo Dendi/Nardin, scanzonato e delicato racconto per bambini e famiglie sulla bellezza dell’incontro e sulla potenza dell’essere insieme. Un finto matrimonio si celebra con la benedizione (reale?) della reliquia del santo di passaggio in processione, mentre la folla dei devoti si mescola a quella degli spettatori e l’uno non si distingue dall’altro perché entrambi desiderano, entrambi partecipano a un atto di fede, spinti da una mancanza, colmi di grazia.

Sabrina Fasanella

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