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La scena indipendente a Londra. Reportage dal Vault Festival

Un racconto in prima persona dal Vault Festival di Londra. Giulio Stasi, regista teatrale e in passato già autore di altri articoli per teatroecritica, ha dato un’occhiata al teatro indipendente inglese riflettendo anche su questioni materiali e produttive.

Foto Giulio Stasi

Percorro il tunnel sotto la stazione ferroviaria di Waterloo, interamente coperto di tags, graffiti, murales. È diventata una passeggiata abituale ormai, ma ogni sera appaiono disegni nuovi. La sovrapposizione e copertura dei vecchi disegni che durano pochi giorni e scompaiono per sempre mi annichilisce. Alcuni sono, erano, bellissimi. Questa è l’arte effimera e violenta dei writers, questa è la competizione, la velocità a cui muore e rinasce la città.

Siamo a Londra, al Vault Festival, in scena dal 24 Gennaio al 19 Marzo 2023, lo “UK’s leading independent showcase of live performance and artistic talent” come si autodefinisce, ovvero una “vetrina” per oltre 500 spettacoli brevi (60 minuti massimo) che spaziano dal teatro, alla stand-up comedy, passando per la performance, il teatro immersivo e le nuove tecnologie. A questo si aggiungono programmi di formazione per drammaturghi, registi e critici, workshop vari, eventi speciali e programmi di supporto agli operatori più giovani o meritevoli.

La venue, in un quartiere centrale e di tendenza, si presenta molto underground. Un tunnel sotto la stazione di Waterloo dà accesso a un dedalo di piccole sale teatrali e tre bar a cui si aggiunge un piccolo container appoggiato poco fuori e adibito a opere più intime e originali nel formato.

Il pubblico è vario, siamo a Londra, in prevalenza giovane ma ci sono persone di tutte le età. Rispetto a un festival italiano mi sembra che la percentuale di addetti ai lavori sia minore ma non ho dati a confermarlo. Sicuramente molti sono amici e conoscenti degli artisti in scena.

Le compagnie che si esibiscono sono quasi esclusivamente inglesi. Il festival, che non riceve sovvenzioni pubbliche, non paga gli artisti e offre una formula 60/40 o 70/30 con un minimo garantito per il Festival e un minimo supporto tecnico e di staff per le compagnie. Gli spettacoli che hanno patrocini o sostegni, in particolare dal Arts Council England o dalla National Lottery, lo evidenziano bene nelle loro locandine. Questi bollini, insieme alle quattro o cinque stelle della critica, accompagnate da frasi brevi o aggettivi ad effetto estrapolati dalle recensioni, costituiscono il più importante segnale per differenziarsi e sperare di conquistare gli spettatori, facilmente disorientati da un calendario così ricco.

Foto Giulio Stasi

Il sito internet del festival è completo ed esaustivo e l’organizzazione impeccabile: code e rispetto degli orari inglesi. Dopo il primo applauso i tecnici entrano subito in azione per allestire la performance successiva. A volte sembra manchi la possibilità di respirare quanto si è visto e vissuto in sala. Tutto corre veloce. Come i treni che durante le rappresentazioni transitano sopra le sale e le fanno tremare. Dopo un po’ ci si abitua, come fosse il marchio in sovrimpressione del Festival, o della vita frenetica della città che schiaccia e imprigiona nelle sue segrete gli slanci artistici dei suoi cittadini.

I prezzi dei biglietti variano a seconda dello spettacolo, della notorietà dell’artista, del fatto che il lavoro sia un work in progress o uno spettacolo finito e si distinguono poi fra prezzo standard, minimo, paga di più se puoi, sconti per gruppi o acquisto di più biglietti. Al prezzo si aggiunge una Festival Contribution obbligatoria e  una donazione di 5 sterline preselezionata ad ogni acquisto (bisogna essere attenti a deselezionarla nel caso in cui non si volesse aggiungerla). Ovunque il sito internet, il bar, la biglietteria chiedono poi donazioni per la causa del festival che a quanto pare verrà sfrattato dalla propria sede il prossimo anno. Possiamo dire che i prezzi per singola performance variano fra le 8 e le 25 sterline, mediamente stiamo intorno alle 12. Decisamente meno che per altri spettacoli in questa città ma il processo di acquisto si avvicina sempre più a quello di un biglietto aereo di una compagnia low-cost. Assisto a una quindicina di rappresentazioni nell’arco di tre settimane. Scelgo a intuito leggendo le poche righe di presentazione, osservando la locandina. Non ho altri elementi a cui aggrapparmi, non conosco nessun artista, sono tutti molto giovani.

Dopo alcuni spettacoli poco convincenti, assisto a Right of Way, scritto diretto e interpretato da Beth Bowden, fra i pochissimi spettacoli a ricevere un sostegno più sostanzioso, seppur non economico, dal programma Vault V. Righ of Way è una narrazione autobiografica della passione per le camminate lungo la costa inglese, a stretto contatto con il mare e la natura, passione ereditata e condivisa con la mamma e la nonna, oggi immobilizzate da una grave malattia che incombe anche sulla giovanissima protagonista. Una messinscena che interagisce con video documentari e oggetti simbolici per allargare i propri orizzonti oltre lo spazio fisico e la concezione spazio-tempo in cui viviamo. Nei momenti più toccanti, lo spettacolo prende una posizione forte e netta contro le blande politiche inglesi di contrasto al covid e denuncia le centinaia di migliaia di vittime, per lo più nelle fasce deboli della popolazione, che queste hanno determinato. È uno spettacolo puro e commovente. C’è un momento in cui non riesco a trattenere le lacrime e credo di non essere l’unico. A fine spettacolo avrei bisogno di un tempo e rimanere seduto ma dobbiamo liberare velocemente lo spazio.

Foto Giulio Stasi

Nella sala accanto mi aspetta The Unicorn. Di Sam Potter, diretto da Tom Brennan, The Unicorn è un esilarante, godibilissimo, a tratti toccante, monologo interpretato in prima persona da Alice Lamb. In gergo gli unicorni, con allusione alla loro rarità, sono le ragazze molto giovani che prendono parte ai sex party della scena underground londinese. La protagonista, lasciata dal compagno e perso il lavoro, viene iniziata a questo mondo. Inizia così un cammino che le permette di liberarsi di tabù, godere del proprio corpo, fare esperienze formative, per precipitare infine in una spirale di dipendenza pericolosa e sempre più difficile da gestire. Il problema non è il sesso, il problema è la dipendenza, i traumi del passato: uno in particolare, che si rivela durante un’esperienza bondage di asfissia erotica combinata a una sorta di psicanalisi che la protagonista sperimenta con un suo partner. È un momento dello spettacolo che toglie il fiato anche al pubblico in sala. Il testo ha il grande merito di sdoganare una sessualità libera, in particolar modo per l’universo femminile, in un mondo in cui ancora oggi uomini e donne sembrano sottomessi a standard diversi. Alice Lamb è potente e disinibita, pochi indovinati espedienti scenici aiutano il suo ottimo story telling e la sua prepotente presenza scenica. Il testo esce così naturale e vero che solo rileggendo i crediti dopo lo spettacolo scopro con grande sorpresa che non è autobiografico.

Fiji è uno dei rari spettacoli del festival con più di un performer in scena. Sam e Nick sono al loro primo e ultimo appuntamento. Due perfetti sconosciuti, se tutto andrà bene, realizzeranno la loro più estrema fantasia: mangiare ed essere mangiati da un altro essere umano. Lo spettacolo scopre lentamente i fatti e la psicologia dei personaggi, indaga il desiderio di dominio e sottomissione, e tiene il pubblico incollato alle sedie per 60 minuti. Per la prima volta in questo festival assisto, in prima fila, ad uno spettacolo con la quarta parete. Eddie Loodmer-Elliott e Sam Henderson, entrambi formatisi alla prestigiosa Bristol Old Vic Theatre School, sono gli straordinari, veri, mai sopra le righe, interpreti di questo testo scritto da Evan Lordan e Pedro Leandro e diretto dallo stesso Lordan. Coprodotto da varie istituzioni il testo verrà messo in scena in altre venue e da altre compagnie.

Foto Giulio Stasi

Love in è una breve ed intensa esperienza per un solo spettatore. Un dialogo sull’amore in cui Amanda Grace, una “bambina neurodivergente e sognatrice, transatlantica, il cui lavoro di narrazione si trascina attraverso luoghi marginali, comuni, collettivi, teatri anatomici, speakesy d’era proibizionistica, tendoni da circo, palcoscenici e schermi”, o semplicemente lei stessa, ci accoglierà nel suo spazio allestito dentro un container. Qui, tradurrà il nostro pensiero su questioni da lei proposte intorno al concetto di amore, in una lettera personalizzata che ci consegnerà alla fine dell’incontro. Invitandoci a nostra volta a scriverne un’altra ad uno sconosciuto che ha partecipato alla stessa performance prima di noi. Sognatrice delicata ed empatica, Amanda Grace, ci indica la strada per riacquistare fiducia nei sentimenti più nobili del genere umano.

You Are Going to Die arriva dopo una serie di spettacoli modesti e sarà la cosa più dirompente che vedrò al festival. Adam Scott-Rowley ci accoglie nudo seduto su un wc. La testa è rivolta verso il basso, il corpo è una corda di violino tesa, un elastico pronto a schizzare; oscillazioni, micromovimenti, vibrazioni, tremori. Un loop di musica techno, mentre si fa sala, che diventa sempre più coinvolgente e spinge molti ad assecondare il ritmo con il capo. La sala si riempie in un periodo lungo ma la presenza dell’attore è potentissima e non ha un attimo di caduta. Poi le luci si abbassano e l’attore e lo spettacolo decollano come un razzo su una rampa di lancio. Adam Scott-Rowley, con un’intensità che mi ricorda Roberto Latini, esplode in una danza di versi, movimenti, narrazioni, immagini, deliri, canzonette; un flusso di coscienza che non usa solamente la parola e quando la usa è un gramelot personalissimo che dall’abisso interno si rovescia fuori. Se dovessi descrivere cosa succede, e non tocco immagini che lo spettacolo non tocchi, è come se da quella tazza un braccio si insinuasse fra le natiche del performer, salisse attraverso le budella fino al cervello e cominciasse a disinnescare le sinapsi come fa David ad HAL 9000 in 2001 Odissea nello Spazio. Lo spettacolo, che ha anche note comiche, racconta una solitudine insostenibile. Il pubblico ride molto, mi guardo in giro per capirne la ragione, perché sì, lo spettacolo ha momenti ilari e Adam a volte coinvolge la sala a partecipare ai suoi deliri, ma in quelle risate vedo l’imbarazzo di fronte a quello che accade, una cintura di salvataggio dalla paura di precipitare con l’attore in quell’abisso viscido.

Snails è un monologo scritto e interpretato da Bebe Sanders, diretta da Imy Wyatt Corner. Una lumaca sovverte lentamente la vita di una giovane insegnate in carriera, risucchiata da lavoro, classi yoga, vita sociale. La lumaca, che mai vediamo, rinchiusa in una teca per essere mostrata ai suoi studenti, instaura un surreale dialogo con l’insegnante mostrandole il groove di una vita più rilassata. La voce black e suadente della lumaca, i racconti sulla sua intensa ed estrema vita sessuale, convincono l’insegnate ad “entrare” nella teca fino a liberare se stessa (e la lumaca dalla teca) dai tanti impegni che la opprimevano. Bebe Sanders, anche lei scuola Bristol Old Vic, è brillante come il suo personaggio e porta grande energia in scena. Lego questa energia agli sforzi che deve aver fatto per questa breve apparizione al festival, per far parte di quel vortice di rappresentazioni bulimico ed estenuante. Mi sembra stridere con i contenuti dello spettacolo. O forse la denuncia da dentro la “teca” teatrale, la presa di coscienza, è il suo grande merito.

Sono seduto ad un tavolo di uno dei bar del festival, sempre molto affollati. Una ragazza in appariscenti abiti rosa, locandina e flyers in mano, mi invita al suo spettacolo che debutterà la prossima settimana. Mi assicura che è uno spettacolo molto forte, che parla di violenza sessuale in ambito familiare. Le chiedo se è autobiografico mi risponde di sì. Le dico che farò il possibile per venire. Mi saluta e continua a promuovere il suo spettacolo ad altri commensali.

Gli spettacoli del festival, di fronte a una varietà di contenuti davvero ampia e libera, sembrano in larga parte adagiarsi e ingabbiarsi nella forma del one man/woman show e della scrittura originale a partire dalla propria biografia. È un tema ampiamente discusso anche in Italia (ne parlava anche Andrea Pocosgnich in questo articolo dalla scorsa edizione di Santarcangelo Festival), dove ci si chiede se questo sia dovuto a una de-formazione da social network, per cui tutti abbiamo imparato a mettere in scena, in “vetrina”, la nostra vita. Ci sono altre concause naturalmente e qui sono ancor più chiare: la limitazione a un’ora per le rappresentazioni, la necessità di un allestimento molto leggero e i costi di produzione, in una delle città più care al mondo, totalmente a carico delle compagnie. La direzione artistica, per come la intendiamo in Italia nei festival indipendenti, che compone un programma con un chiaro e dichiarato tema estetico, politico o sociale, che affianca artisti affermati ad altri ancora sconosciuti, qui sembra non esistere. È un Fringe Festival. Gli artisti si esibiscono ad incasso. Tutti dentro. Questa minore ingerenza della Direzione Artistica, d’altra parte, permette una forse più democratica, equilibrata, eterogenea, pluralità di temi. Il rischio, o l’intuizione, è quella di aver creato una sorta di Facebook teatrale, una vetrina che dà spazio e al tempo stesso sfrutta le energie dei giovani artisti dell’arte dal vivo. Ma per quanto potranno ancora autoprodursi? Tempo fa, Sergio Lo Gatto, su La Falena, rifletteva sui concetti di indipendenza e autonomia in ambito teatrale. Laddove il primo definisce la capacità dell’artista di essere intellettualmente slegato da chiunque altro, il secondo sottolinea la conquistata capacità di auto-sostenersi. Mi chiedo se questa indipendenza lasciata agli artisti che si esibiscono si trasformerà mai in autonomia e, se questo avverrà, quanto e quanti riusciranno a rimanere ancora indipendenti.

Appare chiaro che la traccia più determinante lasciata da questo Festival non sembra essere quella artistica ma quella gestionale: assumersi la responsabilità di preparare il festival nei mesi precedenti e gestire un numero esagerato di spettacoli nelle otto settimane di rappresentazione. E questa cosa, non è scontato, la direzione la fa brillantemente. Con la sicurezza del minimo garantito pagato dall’artista. Ma brillantemente, perché sì, tutto deve brillare, attrarre, entusiasmare, eccitare, avere successo. Starz in their eyes cantava l’inglese Just Jack nel 2007.

Esco dall’ultima rappresentazione della serata. Sono nel tunnel. Un uomo sta preparando il suo giaciglio per la notte. Percorro qualche decina di metri poi torno indietro per chiedergli se vuole qualcosa da mangiare o una bevanda calda. Mi mostra che ha tutto e sorride. Non è l’unico a passare la notte nel tunnel. Lui mi sembra sia nuovo all’esperienza della strada. Mi sento arrogante e condiscendente, patronising come si dice in Inglese, nell’avergli offerto la mia carità. Poco più in là alcuni ragazzi, bomboletta di vernice alla mano, urlano sui muri del tunnel la loro trasparente presenza in questa città.

Foto Giulio Stasi

Sono sul treno verso Blackheath, periferia sud-est dove ho trovato casa. Guardo dal finestrino lo skyline della città che si muove lentamente sull’orizzonte. Londra non aveva questo skyline venti anni fa. Tutto è cambiato velocemente e prepotentemente in questi anni. I grattacieli e l’illuminazione sgargiante di palazzi e monumenti, ormai sdoganata e accettata da tutti, hanno creato un’immagine forte e seducente. In cima alla lista dei finanziatori del Vault Festival figurano We are Waterloo Bid e South Bank Bid, due associazioni e che hanno l’obiettivo di migliorare le condizioni e i servizi del quartiere: sicurezza, pulizia, rifiuti, eventi e tanto altro. Bid sta per Business Improvement District, e non è difficile capire che l’operato di queste associazioni, a metà fra il pubblico e il privato, che si mantengono con i tributi delle attività commerciali residenti, benefici in ultima istanza i proprietari immobiliari. Quei grandi proprietari immobiliari il cui patrimonio è stato messo in pericolo dalle crisi degli ultimi anni, da Brexit, dal Covid, dallo smart working. Ma che possono permettersi di rimanere in attesa che il loro patrimonio riacquisti valore. Solo chi è costretto a vendere, sperimenta sul proprio portafogli il calo dei prezzi.

Foto Giulio Stasi

È mattina. Esco ad esplorare il quartiere. Blackheath è un quartiere benestante. Confina con Lee, un quartiere decisamente più popolare. Qui, in un complesso di social housing che da Lee si affaccia su Blackheath, e che mi dicono verrà demolito a breve, trova spazio il Museum of Neoliberalism. Curato dagli attivisti e artisti Darren Cullen e Gavin Grindon, si presenta come un “modesto prototipo che immagina come un futuro Museo del Neoliberismo potrebbe sembrare. Un’opportunità di guardare indietro al neoliberismo, quello che ha fatto al nostro mondo e cosa potrebbe esserci oltre”. L’accusa al Neoliberismo, un’ideologia economica che definisce il mercato come etico di per sé e che ha governato la maggior parte del mondo negli ultimi 40 anni, è quella di non aver funzionato per la maggior parte della popolazione. I suoi sostenitori credono che dare massima libertà agli affari dei privati, relegando la funzione del governo ad assicurare il rispetto di questa libertà e della proprietà privata, produca i migliori risultati per tutti. Darren e Gavin vogliono mostrare come questo non sia vero. I mercati non sono un evento naturale, sono inventati e mantenuti dalle forze e dagli interessi di pochi. Che sfruttano il resto della popolazione. In vetrina, un grafico mostra come dall’avvento della Thatcher, la sperequazione della ricchezza della popolazione inglese sia quasi raddoppiata. Dentro, in uno spazio espositivo modesto ma ben organizzato, una serie di pannelli approfondisce, in maniera semplice e chiara, questi temi. Le opere esposte, tutte create da Darren, alcune in vendita, sono parodie di prodotti o pubblicità che invitano a riflettere sugli effetti del loro consumo. Un piccolo angolo del museo ha in vendita una nutrita bibliografia sull’argomento. Sul retro, un piccolo laboratorio per le creazioni esposte. Conosco Gavin. Lo incalzo chiedendo quale sarebbe l’alternativa al Neoliberismo. Mi risponde chiaramente: il Socialismo. Mi parla poi di altri progetti che portano avanti come attivisti, in primis Hell, una campagna accusatoria nei confronti della Shell e delle sue politiche di greenwashing che mascherano realtà ben diverse. E poi Subvertising, l’occupazione abusiva di spazi pubblicitari, con manifesti che fanno il verso a vere campagne ma a contenuto politico-sociale. Discutiamo su alcune delle opere esposte. Gavin ci tiene a precisare che Darren, colui che le realizza, non è rappresentato da nessuna agenzia, come è prassi di tutti gli artisti affermati in Inghilterra. È indipendente. E la vendita delle sue opere gli assicura l’autonomia. Mi indica una delle opere di maggior successo Action Men – Battlefield Casualities una sorta di veterani Big Jim che riportano i traumi della guerra, confezionati di tutto punto con allusioni black humor. Pezzi unici, non sono in vendita.

Continuo a guardare le opere esposte, poi compro un piccolo gadget, una borsa di tela con su scritto Shoplifter. Scherzo con Gavin dicendo che avrei dovuto rubarla, poi pago e con dieci sterline mi porto a casa la mia dose di ribellione. Exit Through the Gift Shop.

Giulio Stasi

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