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HomeArticoliIl paradosso del teatro indipendente, il Fringe e la distanza dal pubblico

Il paradosso del teatro indipendente, il Fringe e la distanza dal pubblico

Dall’11 al 26 luglio il Teatro Vascello ha ospitato la decima edizione del Roma Fringe Festival. Vincitore lo spettacolo Lady Gray di Will Eno con Alice Giroldini per la regia di Marco Maccieri. L’appuntamento internazionale col teatro off  fornisce, nella sua decennale edizione romana, l’occasione per alcune riflessioni sui meccanismi produttivi del teatro indipendente, il ruolo di festival e concorsi ad esso dedicati e il rapporto con il pubblico.

Lorenzo Terenzi in Vomito. Ph. Piero Tauro

Come da tradizione il Roma Fringe Festival si configura come densa e corposa rassegna che porta in poppa la bandiera del teatro indipendente italiano, grazie alla collaborazione dell’estesa rete Zona Indipendente, dodici realtà teatrali attive da Padova a Palermo. La promozione del teatro off, ma più specificamente di quello esente da ogni tipo di sostegno ministeriale, è la missione della rete e naturalmente del circuito romano del Fringe. Ne deriva un appuntamento annuale certamente atteso, che prevede un lunghissimo lavoro preparatorio di selezione e scandaglio, nonché, dopo il debutto, un altrettanto intenso lavoro per la giuria chiamata a decretare il vincitore di una tournée di dodici date (una per ciascun teatro della Rete), oltre all’accesso al San Diego Fringe Festival per l’anno successivo. Nel pullulare di appuntamenti, rassegne, microfestival dell’estate romana, la targa off del Fringe rappresenta un elemento importante e decisivo. Ma, come già si raccontava su queste pagine anni fa, la definizione reca con sé una serie di elementi problematici o quantomeno da sviscerare. Per questo chi scrive ha scelto di raccontare questa decima edizione partendo da riflessioni più legate ai meccanismi produttivi che a quelli artistici, pur non dimenticando quanto le due cose procedano intrecciate e si influenzino necessariamente a vicenda.

Com’è noto, il panorama produttivo del teatro italiano è precario e a imbuto; l’accesso ai finanziamenti rappresenta la salvezza di pochi, da assicurarsi a cadenza triennale rispettando obiettivi non alla portata di tutti; accade così che spesso le compagnie riconosciute e sostenute dal Ministero, per rimanere fedeli agli standard minimi richiesti (numero di giornate lavorative, incassi, sbigliettamento…), si nutrano del lavoro di miriadi di realtà più attive ma più piccole dal punto di vista imprenditoriale. La compagnia indipendente, che magari non riuscirebbe da sola ad adempiere alle spese di agibilità per andare in scena, lavora sotto la firma produttiva e amministrativa della compagnia riconosciuta, la quale può inserire nei propri rendiconti spettacoli e repliche in realtà non suoi. Un mutuo soccorso che in alcuni casi rappresenta un circolo virtuoso, ma in molti altri degenera in italianissimo vizio: il teatro off è spesso teatro sommerso, non professionistico, per lo Stato non esiste. In questo contesto, l’ossigeno che occasioni come il Fringe forniscono alle suddette “piccole” compagnie è preziosissimo. Non soltanto per la circuitazione che il concorso mette in palio, ma proprio per l’occasione artistica e promozionale che la kermesse può rappresentare.

Alice Giroldini in Lady Gray. Ph. Simona Albani

In questo senso la collaborazione con il Teatro Vascello, iniziata nelle due precedenti edizioni per la sola finale e confermata quest’anno per l’intera rassegna, è significativa. Introducendo la serata conclusiva, Fabio Galadini, direttore del Roma Fringe Festival, non nasconde un certo orgoglio per tale sinergia, in uno dei teatri di Roma che definisce “record di incassi”. Si tratta di un palcoscenico importante, ricco di tradizione e di precedenti di successo, per certi versi anche sfidante per compagnie di diversa estrazione e provenienza, geografica e fattuale. Nato ad Edimburgo in risposta ad un festival istituzionale, il Fringe è storicamente una kermesse inclusiva. Nella sua versione originale però, è puramente una vetrina a cui chiunque, senza selezione di merito o criterio artistico, può partecipare. Lo scopo è andare in scena, farsi conoscere, andare incontro alla città. Il Roma Fringe Festival, nato nel 2012 sotto la direzione artistica di Davide Ambrogi, ha attraversato negli anni la capitale abitando spazi diversi nel nome del teatro off: dagli inizi nel “parco del teatro” di Villa Mercede a San Lorenzo, forse la location più adeguata allo spirito originario del festival, passando per Castel Sant’Angelo, una felice parentesi a Villa Ada, fino allo spostamento “al chiuso”, sotto la nuova direzione di Galadini, negli spazi dell’Ex Mattatoio di Testaccio e del teatro Piccolo Eliseo (qui tutti gli articoli sulle varie edizioni). Al di là delle esigenze dettate anche dalla situazione pandemica (la scorsa edizione si è tenuta in streaming), si rileva che ad un progressivo allargamento nazionale, con l’istituzione nel 2019 della rete Zona Indipendente, è corrisposta una sorta di parallela chiusura rispetto alla città, confermata dall’approdo alla storica sala del quartiere Monteverde.

Altea Bonatesta e Martina Capaccioli in Variabili. Ph. Piero Tauro

La formula del concorso, fondamentale per gli aspetti produttivi di cui sopra, rappresenta allo stesso tempo una grande contraddizione intrinseca, comune a molte competizioni omologhe. E cioè la necessità pratica di applicare gli stessi criteri di giudizio ad un numero notevole di spettacoli che non hanno però gli stessi presupposti di partenza. La gara è gara, sul palcoscenico sono tutti uguali. E hanno a disposizione due repliche, con tempi di allestimento e avvicendamento strettissimi, per misurarsi con colleghi molto diversi, anche anagraficamente, magari più avvantaggiati da mezzi propri o semplicemente da maggiore esperienza. Portando un esempio non esaustivo, nella triade dei finalisti sono finiti due testi originali e uno a firma di un affermato e premiato drammaturgo americano – Will Eno, spettacolo quest’ultimo al quale, per meriti ascrivibili sicuramente all’operazione nel complesso, all’interprete ma certamente anche alla scrittura, è andato il premio Miglior Spettacolo, con relativa tournée italiana e internazionale. Parliamo di Lady Gray, regia di Marco Oscar Maccieri prodotto da MaMiMò Teatro Piccolo Orologio di Reggio Emilia; monologo frammentato su un’esistenza frammentata, stream of consciousness in forma di conferenza, è tenuto in piedi dalla solida presenza scenica di Alice Giroldini, che si aggiudica anche il premio Miglior Attrice. Pur giocando su una costante interazione con il pubblico, lo spettacolo contiene nel grigio del titolo l’essenza di un racconto sostanzialmente sfidante più per l’interprete che per la platea.

Lorenzo Terenzi in Vomito. Ph Simona Albani

L’iniziativa privata del teatro indipendente è legata per natura alle leggi del mercato. Questo vale tanto per le compagnie quanto per i teatri: per quanto l’ultima e decisiva scelta del vincitore sia stata affidata ad una giuria artistica (presieduta da Manuela Kustermann), non è da escludere che nelle valutazioni della giuria che ha decretato i tre spettacoli finalisti, quella composta da Zona Indipendente, abbia un peso l’effettiva vendibilità futura dello spettacolo selezionato all’interno di un cartellone che si regge sugli incassi. Probabilmente non è un caso che sia giunta in finale la performance livorosa e ironica del fiorentino Lorenzo Terenzi, Vomito: sicuramente adatto ad un pubblico trasversale e ampio, si tratta di un monologo ammiccante sulle storture della società, sul difficile scambio intergenerazionale e sull’inadeguatezza dello stare al mondo. Terenzi, cui è stato assegnato il riconoscimento come miglior attore, è letteralmente compresso in una scatola per quaranta minuti, testa parlante che vomita come da titolo amarezze, sangue e spunti comici non sempre profondi quanto ci si aspetterebbe dall’apparato, in un crescendo che sul finale sfocia nella pura performance, tutta corpo e musica. Un caso diverso rappresenta Variabili, anch’esso nella triade dei finalisti di questa edizione. Un racconto delicato del disturbo alimentare scritto da Altea Bonatesta e interpretato dalla stessa accanto a Martina Capaccioli, dirette da Marco de Rossi, bolognese alla sua prima regia. Il tema è sublimato in una struttura drammaturgica e registica opaca e ambigua che pur con qualche incertezza restituisce la complessità emotiva e la necessità espressiva di chi è sul palco (a Marco de Rossi il premio per la Migliore Regia).

Il punto cardine di queste riflessioni, nascosto in piena vista, rimane il pubblico. Dovrebbe essere la vera cartina al tornasole di un appuntamento come questo. In assenza di sostegni pubblici, solo gli spettatori possono decretare il destino (artistico e finanziario) di chi si espone con coraggio, determinazione – e in alcuni casi ingenuità – su un palcoscenico. Purtroppo il pubblico è il grande assente della kermesse: anche il teatro dei grandi numeri, record d’incassi nella stagione appena conclusa, si ritrova semivuoto nell’afa di luglio. Questo è sicuramente un problema vasto, ovviamente non esclusivo di questo appuntamento, dovuto anche qui a questioni che attengono al mercato, all’offerta culturale dispersiva di una città come Roma, al famoso “audience development”. Inevitabile risulta però trovare tra le tante motivazioni di questa assenza il nesso con il luogo prescelto: il quartiere residenziale e borghese, distante dai luoghi di aggregazione estiva, da studenti e turisti, appare in contraddizione con l’offerta del cartellone, volontariamente priva di nomi di richiamo (calamita per il grande pubblico) proprio perché dedicata a promuovere il teatro emergente. Per questo le poltrone vuote si fanno più significative, la scarsità di pubblico in qualche modo tradisce le premesse della rassegna stessa, pubblico che potrebbe essere coinvolto in maniera più diretta e partecipe, magari anche con una più intensa campagna promozionale o andandogli incontro “fisicamente”, a beneficio di tutti gli attori coinvolti: il festival stesso, le compagnie, il teatro. Chi se non un’iniziativa democratica e inclusiva come il Fringe può cercare di rompere la coltre che avvolge la quasi totalità degli appuntamenti teatrali, destinati ai soli addetti ai lavori. Ne deriverebbe una trasfusione di energie pulite, preziosa a vari livelli, concederebbe alle compagnie che qui mettono in gioco drammaturgie originali di testarle e magari affinarle; ai nuovi linguaggi di diffondersi “dal basso” e senza gli orpelli elitari degli ambienti istituzionali. In ultima analisi, la partecipazione viva del pubblico permetterebbe un’analisi critica sullo stato di salute di una società intera, alla quale il teatro indipendente, che non può concedersi il lusso di sperimentare l’arte per l’arte ma deve continuamente trovare compromessi tra la propria vocazione artistica e l’esigenza di fare cassa, si rivolge e si espone più direttamente.

Sabrina Fasanella

ROMA FRINGE FESTIVAL
Teatro Vascello, Roma – 11-26 luglio 2022
Direttore artistico
Fabio Galadini
Segreteria Organizzativa
Francesca Romana Nascè
Responsabile Logistica
Raffaele Balzano
Responsabile Tecnico
Marco Zordan
Grafica e Web
Laura Girolami
Ufficio Stampa
Maya Amenduni, Federica Guidozzi
Fotografi ufficiali
Piero Tauro, Simona Albani

 

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