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HomeVISIONIRecensioni | Cordelia | febbraio 2022 

 | Cordelia | febbraio 2022 

RECENSIONI  BREVI MA INTENSE. Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Ogni mese apriremo una nuova pagina di Cordelia per recensire il maggior numero possibile di spettacoli. Scorrete fino alla fine per trovare tutte le opere recensite finora.

 

 LIFE    #MILANO 

C’è tanta vita anche nelle storie che raccontano la morte. Ce lo mostrano due attori ai poli opposti di un palco. Da una parte Cinzia Spanò nelle vesti di Ulrike Meinhof, editorialista e terrorista tra i fondatori della RAF. All’inizio è seduta, poi si alza e avanza; sta parlando mentre guarda con gli occhi infuocati della ribellione un punto indistinto della platea. Conduce un monologo tanto intenso quanto violento che sviscera ogni ideale, anche il più sudicio. Parole urlate si riverberano in un climax ascendente che fagocita il silenzio di una prigionia immanente. L’illuminazione si sposta e rivela la presenza di un altro personaggio, seduto e incappucciato: è Roberto Peci (Emiliano Brioschi), rapito e condannato a morte dalle Brigate Rosse per alto tradimento. Il suo è un racconto che riesce a prendere realmente corpo soltanto in un video proiettato sul fondo della scena: Peci si agita, suda, si tocca compulsivamente i capelli, in un dialogo fatto di sospiri, di tentennamenti, di silenzi. La regia di Brioschi ci strappa così da una storia all’altra, per farci avvertire tutto quel senso di costrizione, di soffocamento, di impotenza nei confronti di una vita negata. Nell’abbattimento della quarta parete che ci rende tutti in qualche modo un po’ partecipi, un po’ complici, gli attori sono in grado di spogliarci della nostra pelle e delle nostre convinzioni. L’ultimo pensiero, però, è rivolto ai figli e al peso che dovranno portare, anche se forse è troppo tardi ormai. E come la Meinhof, ora vorremmo tutti spingere via il cielo un po’ più in là. (Andrea Gardenghi)
Visto alla sala Bausch del Teatro Elfo Puccini, Milano. Crediti: di Emiliano Brioschi, regia Emiliano Brioschi, con Emiliano Brioschi e Cinzia Spanò luci Claudine Castay, audio e video Elvio Longato, produzione Brioschi/Spanò

 JOSEPHINE    #ROMA 

Josephine è un topo. Ma, diversamente dagli altri, Josephine canta. E i topi non sanno perché ma si fermano ad ascoltarla, interrompono la corsa incessante, in qualche modo forse inconsapevole si accorgono che l’arte è in apparenza priva di finalità, ma ne conquista attraverso l’azione, nutrendosi di sé stessa: se il gesto viene compiuto, allora può diventare qualsiasi cosa. L’ultimo racconto di Kafka prima di morire, per le mani di Tamara Bartolini e Michele Baronio, prende vita su un tappeto bianco che sfrutta la prospettiva e di fronte a un velo bianco che limita il fondale, ma che si farà spazio aperto per la proiezione; di lato, una scrivania e degli oggetti che aspettano qualcuno, chi prenderà responsabilità di farne uso. Lei siede in quella regia laterale e guiderà per mano e voce, lui conquista il centro della scena e si farà carico della storia, ombreggiando in una figura di topo le diverse percezioni del popolo in movimento: per alcuni Josephine esercita la dignità, per altri un capriccio. Nel mezzo è la necessità individuale che si sforza a esprimersi collettiva, sarà allora che Baronio toglierà ogni trucco, ogni voce diversa dalla propria, cadrà il paravento tra l’uomo e l’attore, per poter rivendicare la consanguineità dell’uno e dell’altro. La drammaturgia meriterebbe una severità maggiore, i materiali sono talvolta non compatti, ma sia lode all’artigianato dell’arte, sia lode agli artisti con il cuore che batte in ciò che fanno, sia lode alla libertà di essere, uomini o topi, non fa differenza. (Simone Nebbia)
Visto a Teatro India, un progetto di e con Tamara Bartolini e Michele Baronio drammaturgia Tamara Bartolini regia Bartolini/Baronio  luce Gianni Staropoli, suono Michele Boreggi. tecnica e regia video Marco D’Amelio, costumi e collaborazione alla scena Marta Montevecchi

 SCARPETTE ROTTE    #CESENA 

Due scarpette rosse, separate alla nascita, fortuitamente si ritrovano l’una ancora splendente, l’altra ormai lacera, sull’asfalto di una lunga strada. Come danzare ancora insieme? Esse trovano nella riscrittura della Dante una nuova fiaba, dominata dal colore e dal ballo. Celine è orfana, povera e muta. Piange la madre circondata da barocche croci d’argento, ma una buona e ricca contessa la prende con sé e ne affida la cura ai servitori, ricoprendola di abiti e doni d’ogni sorta. Finché un personaggio inedito, principessa Matilde che molto ricorda la turchina fata di Perrault, le regala le scarpette. Rotte, secondo il titolo dello spettacolo; e brutte, secondo la leggenda; tuttavia perfette e lucenti, in scena. Fin troppo esplicita la raccomandazione: sii gentile e altruista, o le scarpette ti costringeranno a danzare per sempre. Ma, anche se i bambini in sala suggeriscono che no, non è affatto il caso di abbandonare la contessa malata per il fastoso ballo di corte, l’epilogo è facilmente intuibile. Lo sfinimento nella danza sfrenata è in assoluto il cuore del macabro racconto di Andersen. Ma qui tutto è già dall’inizio denso di movimento: il conflitto e, insieme, l’evoluzione di Celine si risolvono con facilità in una scena troppo breve, che non sa creare suspense e speranze. Uno spettacolo delicato nella scelta dei toni, dei materiali e delle luci. Molto calcato nella presenza abile, spesso sopra le righe, degli attori. Forse le nostre aspettative troppo adulte ci avrebbero fatto desiderare un pizzico di rischio e di personalità in più, non sazie di una scena splendente e una morale lampante.(Angela Forti)
Visto a Teatro Bonci scritto e diretto da Emma Dante con Martina Caracappa, Davide Celona, Adriano Di Carlo, Daniela Macaluso scene Carmine Maringola; luci Cristian Zucaro produzione Ert Teatro Nazionale, Fondazione Trg Onlus,

 PIANURA    #RAVENNA 

Un teatro che riapre: al suo ingresso c’è un cavallo dorato, faceva parte della scenografia dello storico I polacchi, spettacolo del 1998 del Teatro delle Albe (dall’Ubu Re di Jarry). Questo teatro, il Rasi di Ravenna, è la casa della compagnia fondata da Marco Martinelli e Ermanna Montanari, sede di Ravenna Teatro, centro di produzione e cooperativa dall’inizio dei Novanta (dall’unione delle Albe con Drammatico Vegetale). Soprannominato lo Stabile Corsaro, diretto da Marcella Nonni e Alessandro Argnani, il Rasi dopo sette mesi di chiusura è tornato ad accogliere il pubblico con una platea bellissima e funzionale, spiovente sul palcoscenico e sotto pannelli fono assorbenti un po’ futuristici, nell’oscurità di un nero quasi religioso. Qui abbiamo visto Marco Belpoliti farsi attore per una sera, medium delle proprie parole. Un leggio, un uomo molto alto, in scena con il suo giaccone, forse per tenere lontano il freddo della Pianura che racconta. Marco Martinelli disegna una regia semplice ma funzionale, tesa a a far emergere la voce dolce, il colore rotondo ed emiliano dello scrittore. Tra le foto di Luigi Ghirri e le avventure teatrali e poetiche di altri due uomini, che a quelle terre hanno dato tantissimo, Giuliano Scabia e Gianni Celati, si muove un viaggio ironico e malinconico al contempo. Dalla centuriazione romana di cui sono forgiate le terre romagnole alle rivoluzioni poetiche del Dams, fuori dagli schemi e alla ricerca di un teatro che andasse incontro al l’uomo.(Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Rasi di e con Marco Belpoliti, regia Marco Martinelli, produzione Ravenna Teatro

 CIRCO KAFKA    #NAPOLI 

È sbalorditivo quanto bene possano fare lo spirito circense e l’ondata continua di meraviglia che trascina con sé. Che sollievo sono la momentanea sospensione della parola, come la possibilità di osservare la complessità del reale compresso nello spazio volubile della pura emozione. Roberto Abbiati realizza da sé la cornice di compressione per il Processo di Kafka sui pochi gradini di alcune pedane, riempendole di materiale di recupero e tutto quanto possa soddisfare la sua energia creativa. È quasi solo in scena, se non fosse per la presenza, nascosta ma preziosa, di Johannes Schlosser che magnificamente contribuisce a gestire i tempi con le sue produzioni audio. Abbiati accoglie il pubblico indossando una tuta protettiva e distribuendo dei fogli sui cui è trascritto l’incipit del romanzo; sforbicia la tuta, inizia a sfarfallare piegato sulle ginocchia, a produrre schiocchi con la lingua e le labbra, e infila la giubba di un poliziotto. Un attimo dopo è il confuso Joseph K in camicia da notte, ma poi cambia d’abito ed eccolo il giudice sornione che gira una ruota per stabilire i destini, e ancora un altro giro e riappare il poliziotto; al posto suo, nelle vesti di Joseph, una marionetta in cartapesta. All’improvviso parla l’Abbiati, e sveglia tutti dal sonno: ma è un nonsense, e il moto di un macinacaffè è paragonabile a quello del sole. L’attore, il clown, cerca con sguardo furbo la complicità del pubblico, inarcando le sopracciglia e piegando di lato la testa, e nessuno avrebbe il cuore di negargliela.(Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Stabile d’innovazione Galleria Toledo, Napoli Crediti: Da Il processo di Franz Kafka; Regia Claudio Morganti; Con Roberto Abbiati e la partecipazione di Johannes Schlosser

 LAGO DEI CIGNI    #MODENA 

È tutta una cupa e pessimistica retorica ecologista la nuova versione del Lago dei cigni di Angelin Preljocaj, vista al Teatro Pavarotti di Modena. Impressionante per il sovrastante impiego della tecnologia video, ma poco convincente per l’indeterminatezza della facile allegoria. La partitura per il balletto di Čajkovskij è intensificata qui con citazioni dalla seconda e quarta sinfonia, nonché frammista a interventi di musica elettronica (79D). Tutto promette ma solo la danza mantiene, spesso bellissima, compresi il celebre passo a due dei protagonisti, e lo spietato unisono del pas de quatre. La storia è più o meno la stessa: un giovane rampollo (Laurent Le Gall), in contrasto con il suo destino e desideroso di una qualche forma di trascendenza, si innamora di una designata (Clara Freschel), che è stata trasformata in cigno da un brutale, senza scrupoli, immobiliarista. Ma che tanto piace ai genitori di lui, però, compiaciuti e arraffoni non meno. Gli ambiziosi progetti architettonici che distruggono natura e paesaggio, così come raccontati nelle immersive (e affoganti) proiezioni video (di Boris Labbé), potrebbero essere sventati dal rampollo attraverso l’amore, ma travolto dalle astuzie del male alla fine resterà soltanto corpo morto nella polvere. La sconfitta del luogo e dell’ambiente, sovrastati da edifici che divorano anche il lago del titolo, è in fondo la vittoria di un mondo distopico già bell’e tutto condannato. La nuova città che si costruisce, dunque non è per nulla quella del Sole, ma regno della polvere incapace di critica della pretesa necessità di questo reale.(Stefano Tomassini)
Visto a Teatro Comunale Modena Ballet Preljocaj, Il lago dei cigni, Coreografia Angelin Preljocaj, Musica Pëtr Il’ic Cajkovskij, 79D, Costumi Igor Chapurin, Luci Éric Soyer, Video Boris Labbé, 

 SUITE ESCAPE    #ROMA 

Un concetto e un mezzo sono le guide della coreografia di Equilibrio Dinamico, Suite Escape, creata da Riccardo Buscarini: da una parte la rielaborazione e scomposizione dell’idea di passo a due (una “fuga da” recita il sottotitolo), dall’altra le tracce musicali – un godibile repertorio tardo ottocentesco tra cui spicca Čajkovskij – adattate ed eseguite dal vivo su un pianoforte che troneggia al lato del palco del Teatro Vascello.
I cinque danzatori si alternano sui confini di un quadrato segnato a terra, spazio di azione dal quale raramente usciranno. Ne vediamo i cambi repentini, l’abbandono, il ritorno, la sfida, il rifiuto, la rivoluzione. Toni e note suggeriscono i sentimenti con cui agiscono i performer nella messa in forma di un legame continuamente ribaltato, tra struggimento, mestizia e sospensione, gesti staccati, trattenuti, sfuggenti. Se il primo quadro lavora su coppie che si rincorrono e mai riescono a completare il loro legame, il secondo presenta una sequenza più corale, che replica in una leggera variazione esponenziale, volteggi, oscillazioni che sono quasi cadute e riprese. L’acme del virtuosismo viene raggiunto al terzo quadro, quando una delle danzatrici tramuta l’idea di crollo in verticale, aiutata dagli altri scivola giù, dalla testa fino a coinvolgere a terra la compagna in un abbraccio sensuale (anche se con un movimento ancora incerto nella tecnica della prima parte).
Sebbene l’indagine possa essere di per sé interessante, la ricerca non si sposta troppo da certi canoni, e quella forza immaginifica data dalla musica rischia di sovrastare i tentativi di creazione di un intero immaginario. (Viviana Raciti)
Visto a Teatro Vascello, concept/coreografia Riccardo Buscarini, musiche P.I. Caikovskij, L. Minkus, A. Adam trascrizione/rielaborazioni musicali M° S.Sabatelli pianista M° Benedetto Boccuzzi costumi Francesco Colamorea disegno luci Roberto Colabufo, danzatori Quattro produzione Equilibrio Dinamico Dance Company

 SORELLE    #MODENA 

Sara e Anna si ritrovano dopo anni nello spazio non ancora allestito di una conferenza, con intorno soltanto il bianco di un linoleum, i tiri, due pile di sedie. Hanno molto da dirsi, le Sorelle di Rambert, di quello che non si ha mai avuto il tempo e il coraggio di dirsi e che adesso è troppo difficile da ricostruire nelle memorie e nel rancore. Sballottate da un luogo all’altro in una relazione sepolta dall’imitazione prima, dalla sfida poi, dal tentativo di conquista dell’attenzione dei genitori archeologi. Troppo, davvero, sembrano doversi dire queste due sorelle nello spazio angusto di uno spettacolo, incastrate in una scacchiera di sedie colorate: i monologhi si alternano in un elettrocardiogramma sempre al limite, con ascese repentine e urli disumani e poi cadute vertiginose e frasi sospirate. Ai ricordi dell’infanzia e le reciproche accuse si sommano, vertiginosamente, la lingua che uccide e distrugge il mondo, la geopolitica, i rifugiati, l’orrore della guerra, il volontariato, l’amore. Un iper-conflitto in un testo contorto, ricercato e lunghissimo che non riesce, però, a scalfire la superficie del discorso e farsi davvero “perturbante” come vorrebbe il foglio di sala. Troppo, davvero, lo sforzo che a queste due brave attrici è richiesto, e che riescono solo in parte a rendere in uno spazio asettico che soltanto per un attimo assurdo, in cui le due, come bambine, sembrano dimenticarsi di tutto per ballare insieme, si modifica nello schema di quella scacchiera dove i pezzi, condannati alla stessa partita, non potranno incontrarsi mai. (Angela Forti)
Vito al Teatro Storchi; Testo, messinscena e spazio scenico Pascal Rambert; con Sara Bertelà e Anna Della Rosa traduzione italiana Chiara Elefante produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, FOG Triennale Milano Performing Arts

 SERVO DI SCENA    #ROMA 

Il teatro sotto le bombe tedesche del 1942, resistere con e attraverso Shakespeare, questa l’attività di Sir Donald Wolfit, attore costretto ad accontentarsi della provincia. Il corpo e la mente lo stanno per abbandonare e gli eroi shakesperiani si mescolano nella sua memoria: dopo centinaia di repliche di Re Lear ora non ricorda l’attacco, le prime battute. È un testo commovente Servo di scena del sudafricano Ronald Harwood, scritto nel’79 e poi anche in pellicola nell’83. Al Quirino, fino a qualche giorno prima che le bombe vere iniziassero a cadere sopra l’Ucraina, lo ha portato in scena Geppy Gleijeses, il direttore artistico del teatro che rappresenta (specialmente ora dopo la chiusura dell’Eliseo) una meta sicura per gli amanti della tradizione. Niente è fuori posto nell’allestimento di Guglielmo Ferro in omaggio al padre Turi che recitò proprio questo testo all’inizio degli anni Novanta con la regia del figlio. E il pubblico apprezza, riempiendo al sala, il lavoro di fino Maurizio Micheli nel ruolo del titolo; puntuale anche Lucia Poli (la compagna del protagonista), così come Gleijeses nel tratteggiare l’istrionico attore. Qui c’è una venatura importante: non solo la malinconia della fine, ma una certa tracotanza di un personaggio che resiste anche perché altro non saprebbe fare della propria vita. Meno efficace il livello del teatro nel teatro, affidato ad ombre e voci fuori campo; così come la scena in generale, frontale e con poco spazio per l’immaginazione e le possibilità di una maggiore dinamica di movimento. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Quirino, con Geppy Gleijeses, Maurizio Micheli, Lucia Poli, Roberta Lucca, Elisabetta Mirra, Agostino Pannone, Antonio Sarasso, In coproduzione con Teatro Stabile di Catania, produzione Gitiesse Artisti Riuniti, traduzione Masolino D’Amico, regia Guglielmo Ferro

 IL DELITTO DI VIA DELL’ORSINA    #NAPOLI 

La morte è proprio come una livella; soprattutto la morte degli altri. Potenzialmente, chiunque può far del male a un altro e non c’è educazione o classe sociale che tenga. Questo il cuore spiritoso de L’ Affaire de la rue de Lourcine di Eugéne Labiche del 1857, riadattato da Andrée Ruth Shammah. Due amici di lunga data, portati in scena da Massimo Dapporto e Antonello Fassari, si ritrovano per caso a una festa di compagni d’istituto e si risvegliano il giorno dopo rintronati per i bagordi; è possibile che per puro divertimento abbiano ammazzato una carbonaia. Per quanto abbiano ricevuto la stessa istruzione, uno è un riccone pieno di vizietti e l’altro un semplice cuoco beone. I tradizionali giochi di malintesi e bugie, infiocchettati con deliziose battute brillanti e taglienti, alleggeriscono le contrapposizioni di classe esattamente come l’idea (“intuizione” che forse allevia i sensi di colpa del magnanimo cuore borghese, tanto a metà ‘800 quanto adesso) che in fin dei conti siamo tutti uguali. Ed è tutto distillato in piacevolezze eleganti. La scenografia è deliziosamente funzionale al racconto: le pareti che scivolano via, insieme a porte e porticine sono come virgole di giunzione tra una menzogna e l’altra. Le atmosfere colorate e ridenti degli anni ’50 (del ‘900, stavolta) ricordano, e non a caso, quelle della commedia musicale di François Ozon Huit Femmes (riadattamento cinematografico della commedia di Robert Thomas): anche lì i veri innocenti non esistono. Incantevole, ma agée.(Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Mercadante, Napoli Crediti: Da L’ Affaire de la rue de Lourcine; Di Eugéne Labiche; Regia e adattamento Andrée Ruth Shammah; Con Massimo Dapporto, Antonello Fassari, Susanna Marcomeni, e con Marco Balbi, Andrea Soffiantini, Christian Pradella, Luca Cesa Bianchi

 MACBETH. L’ULTIMO SGUARDO    #MILANO 

Tre rintocchi sul piatto di una batteria. È giunto il momento. Nelle parole di un magistrale Luca Stetur la testa di Macbeth ora rotola per terra e vede il mondo da un’altra prospettiva. È la fine di una vita e l’inizio di uno spettacolo che, come un film proiettato al contrario, riavvolge la pellicola e ci mostra l’incedere del delirio di onnipotenza che porta Macbeth alla più cieca delle pazzie. Una coltre di suoni profondi, lugubri e viscerali (Alessandro Sesana) rievoca un’atmosfera densa, intrisa dei germi dell’ossessione maniaca di una profezia: Macbeth diventerà re. E così l’uomo, con una pesante corona appesa al collo, si muove brancolando nel buio, schiacciato dal gravare di un funesto destino. A intermittenza accende e spegne delle lampadine che non fanno altro che rendere inquieto lo spettatore, poiché effimere quanto l’esistenza stessa; esse illuminano la duplicità di un uomo solitario, nero come l’oscurità che lo avvolge. Nel testo scritto da Rita Frongia in collaborazione con Claudio Morganti, avvertiamo tutta la potenza di un soliloquio che mette in scena un’anima che si sgretola e scivola negli abissi della dissennatezza. Procedendo da dove termina il film di Polanski, lo spettacolo riesce così a dare l’allucinata visione di una vita trapassata, qui dove il corpo di Luca Stetur trema, la mimica si contorce, gli occhi si spengono, la voce si stringe per poi svanire, come tutto del resto, e lasciare solo l’illuminazione di un palco oramai vuoto. (Andrea Gardenghi)
Visto a Campo Teatrale, Milano. Crediti: testo di Rita Frongia, con Luca Stetur, interventi sonori Alessandro Sesana, in collaborazione con Claudio Morganti, produzione Esecutivi per lo spettacolo

 GATTO RANDAGIO    #NAPOLI 

Ogni grande città ha i suoi elementi di ereditarietà quasi genetica: esiste un’epigenetica sociale cittadina. Succede che le tradizioni si mischiano alle questioni personali, e il processo artistico alimenta quella linea di ereditarietà non diventando mai davvero avanguardia. Si potrebbero fare studi antropologici sul rapporto di alcuni artisti con la poesia per scoprire che le novità non esistono; e in alcuni casi va benissimo così. Chissà cosa si potrebbe percepire di Tonino Taiuti fuori da Napoli, fuori dai Quartieri Spagnoli. Quale impressione provocherebbero le foto distorte in video delle cave di tufo, che sono le fondamenta instabili e umide della città. Taiuti, di (giustamente) orgogliosissima estrazione popolare, è davvero un randagio inquieto. Gioca con sé stesso e con la propria storia professionale, cucendoci insieme suggestioni e ricordi. Non è avanguardia, nemmeno una sperimentazione o un’evoluzione artistica: è un monologo intimissimo e assai complesso, per chi ha la fortuna di spiare, da comprendere per intero; al massimo, ci si fida e ci si abbandona all’ascolto. Taiuti si accompagna da sé: anche la chitarra elettrica e i pedali sono un prolungamento dell’artista, e mai soltanto un mezzo espressivo autonomo. Si fa voce sentimentale di Sanguineti e Moscato, e l’aria già appesantita dai fumi si ricolma di free jazz e noise rock; eppure, nonostante quella musicalità, non ci si allontana per niente dalle atmosfere cavernose dell’Inferno della Poesia Napoletana. Tonino Taiuti dentro è fatto di tufo, come il suo pubblico. (Valentina V. Mancini)

Visto a Sala Assoli, Napoli Crediti: Con Tonino Taiuti; Regia Luca Taiuti; Costumi Sara Marino; Videoinstallazione e contributo grafico Vincenzo De Luce per le fotografie e Mino D’Andrea; Produzione Casa del Contemporaneo


 MALAGRAZIA    #MILANO 

Nel dizionario “malagrazia” è un’accentuata e sgradevole rozzezza e volgarità di maniere. A teatro è la prima scena a cui assistiamo: entrati nella sala, Sebastiano e Carmelo (Edoardo Barbone e Daniele Fedeli) colti di spalle, camicia bianca e pantaloni slacciati, praticano dell’autoerotismo e si accorgono solo poco alla volta della presenza di un pubblico dallo sguardo voyeurista. I due fratelli gemelli, così, si ricompongono furtivi e sul palco cominciano a rincorrersi e scontrarsi, come due bambini a cui crescere sembra troppo difficile e doloroso. Sono soli, forse gli ultimi, eppure ballano e giocano, per interrogarsi sul senso del proprio (r)esistere. Quello che vediamo in tutta la sua complessità è lo spettacolo della vita che esplode in mille direzioni ma pur sempre all’interno di un confine, quello di una stanza senza finestre. Una condizione di prigionia necessaria all’interno di uno scenario distopico, per un mondo che muore fuori e che traccia di sé non lascia. Tra piedi sbattuti a terra, gesti improvvisi, corpi impulsivi e suoni assordanti la regia di Giuseppe Isgrò decide di usare il disturbo visivo/uditivo come mezzo per creare un vibrante senso di urgenza. Una scelta tanto rischiosa quanto efficace, perché ad imprimersi nello spettatore è la prepotenza dei corpi nudi che urlano una carnalità a cui non siamo più abituati, separati da distanze di sicurezza e mascherine anticontagio. L’irruenza, però, viene mitigata dall’innocenza di domande genuine, infantili e da una farfalla che rappresenta la possibilità di volare ancora, nonostante il ritmo incalzante della morte. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini, sala Bausch, Milano. Crediti: ideazione e regia Giuseppe Isgrò, drammaturgia Michelangelo Zeno, con Edoardo Barbone e Daniele Fedeli, architettura del suono Stefano De Ponti

 SENZA FAMIGLIA    #NAPOLI 

“Ogni vera ribellione inizia con un NO”, “Mai fidarsi degli adulti e delle loro promesse”: cosa succede quando è un genitore a dirlo? Di più: cosa succede quando è una madre a dirlo? Una madre (Angelo Maria Tronca) severa e arida, temprata dalle lotte degli anni ’70, che tenta di educare alla libertà la figlia (Barbara Mazzi). Questa è a sua volta moglie di un inetto, appellato giustamente Minus, (Francesco Gargiulo), e madre di una ragazza (Alba Maria Porto) femminista e autolesionista, e un* ragazz* (Christian Di Filippo) intenzionat* a intraprendere il percorso di transizione. Si narra sfogliando un album di fotografie, e dal buio si impongono grottesche immagini, scattate tutte con un impietoso flash, da cui si procede per sottili distruzioni: la famiglia è sulla spiaggia, ma la sabbia è presa da urne funerarie; la famiglia si riunisce attorno al tavolo della cucina per mangiare una torta di mele, ma questa è stata avvelenata dallo sputo della genitrice. Le conversazioni, in famiglia, si scandiscono a ritmo di battute la cui gustosa imbecillità ammorbidisce un boccone altrimenti difficile da deglutire. Poi la verità si vomita ed ecco una foto terribile di uccelli morti che non hanno avuto la possibilità di volare via, al sicuro. Tutti tranne lei, come Pirro sul campo di battaglia, la terribile matrona armata di ideologia. Potrebbe essere che il passaggio generazionale sia una sconfitta, e che pure che i rapporti familiari siano tutti un’impietosa rovina, e forse è giusto chiedersi se è meglio salvare i figli degli altri piuttosto che i propri. Forse.(Valentina V. Mancini)
Visto a Piccolo Bellini, Napoli Crediti: Di Magdalena Barile; Regia Marco Lorenzi; Con Christian Di Filippo, Francesco Gargiulo, Barbara Mazzi, Alba Maria Porto e Angelo Maria Tronca; Light designer Eleonora Diana; Foto di scena Manuela Giusto, Produzione Acti Teatri Indipendenti / Il Mulino di Amleto

 SULLE VIE DELL’ INFERNO   #ROMA 

Al centro della scena con la spada e i battiti del cunto Mimmo Cuticchio ci presenta un insolito paladino tra la schiera di personaggi che abita l’Opera dei Pupi di Palermo: è Ariodante, ruolo minore nell’Orlando Furioso e, insieme, omaggio dell’Ariosto a Dante – e a sé stesso; e che ora finalmente viene alla ribalta vestendo i panni del Sommo per accompagnarci Sulle vie dell’Inferno, uno slancio di sperimentazione che da sempre caratterizza il lavoro di Cuticchio e che riesce ad eleggere la Figura a teatro del presente e dell’innovazione. Qui ritroviamo il rapporto paterno con quelle creature di legno, l’energia dirompente del cunto, la musica dal vivo (suite di grande eleganza composta da Giacomo Cuticchio), l’animazione dei pupi nel contesto del teatrino; al contempo, però, i versi di Dante (nella voce di Alfonso Veneroso) si incontrano con quelli trasformati dalla lingua del cunto siciliano a comporre una poesia inattesa; e i paladini nelle armature lucenti si incontrano con pupi dalle fattezze nuove, spogliati, larvali, sfigurati in nuova estetica scarna e brutale, come quella delle parole dantesche. Ospitano questo incontro luoghi aspri e mitici di una Sicilia nascosta e densa di colori nella fotografia di Daniele Ciprì; la stessa che ci porta ai piedi dei giganti o nel mezzo del combattimento dove armature e arti saltano e i corpi si disgregano, dove possiamo ammirare ogni più piccolo dettaglio delle splendide creature, ogni più lieve movimento. (Angela Forti).
Visto a Roma, Auditorium Parco della Musica. Crediti: Ideazione scenica e regia Mimmo Cuticchio Manianti Mimmo e Giacomo Cuticchio, Tania Giordano, Giuseppe Graffeo, Emanuele Salamanca Cunto Mimmo Cuticchio

 SETTANTASEI   #NAPOLI 

Prima o poi capita a chiunque di avere a che fare con l’ovvietà. L’ovvietà come elemento qualitativo non interessa, soprattutto perché ha un’accezione miserevole più che negativa. L’ovvio è un fatto, e in realtà è un fatto essenziale. “Io esisto”, “Io dico e penso”, “Io faccio, e quello che faccio ha un valore”. Dirsi è ovvio, così tanto che può essere un grido di rivolta. La croce dell’ovvio è che, ahinoi, non basta: allora si sperimenta. Licia Lanera, Pier Lorenzo Pisano, Alfredo Angelici, Federica Carruba Toscano e Matilde Vigna si ripropongono reali come sono in teatro; in una realtà che è quella del lockdown. Lasciano per 76 giorni i pezzi delle loro singole esistenze per sperimentare la reclusione collettiva che diventa sforzo creativo, che diventa a sua volta l’ovvia affermazione di sé. Il quid è dato dalle telecamere che hanno ripreso e riprodotto in streaming la convivenza e le prove dello spettacolo. Quindi dal dirsi teatranti, al dire a qualcuno proprio perché si è teatranti. Assistito da un rapporto solido tra gli attori, per cui i tempi sono scanditi pure da un’effettiva complicità, tutto il motivo del teatro, che ragiona pure su sé stesso, si dimostra fondamentale per una riflessione sulla solitudine, sul corpo, sulla libertà e sull’amore. Il dialogo univoco e insistente con la telecamera serve a ribadire il rapporto di necessità reciproca, comunitaria e politica, tra artisti e fruitori. A fronte di tutto resta però un dubbio su quanto valore formale possa avere caricare l’ovvio di così tante, troppe parole. (Valentina V. Mancini).
Visto a Piccolo Bellini, Napoli Crediti: di Licia Lanera e Pier Lorenzo Pisani; Con Alfredo Angelici, Federica Carruba Toscano e Matilde Vigna; Scene Lucia Imperato; Disegno luci Salvatore Palladino. Foto Enzo Iamunno

  TADDRARITE   #MILANO 

Seduti sui sedili del Teatro Menotti, veniamo improvvisamente trasportati nella realtà grottesca di un paesino della Sicilia. Società immutata e immutabile, potremmo dire, perché ad essere rappresentate sono le catene di una tradizione che non riesce a spezzarsi. E a prendere voce, nel buio della sala, sono tre giovani sorelle vestite a lutto. Tornate a casa dal funerale del marito della minore, si raccolgono per vegliarne la salma: “Facìemu chistu rosario” è il motore e il ritmo della narrazione che, interrotta e ripresa più volte, alterna momenti di una vuota preghiera a monologhi carichi della vergona di tutte quelle cose non dette. Sono parole eloquenti di un imposto mutismo che riescono a trovare la libertà soltanto nell’oscurità della notte, in un paese che dorme e non sente. Taddrarite, in siciliano pipistrelli, è la storia di segreti nascosti, sofferenze trattenute, violenze subite e taciute. È il dramma di tutte quelle donne costrette a vivere in un carcere domiciliare, che urlano in silenzio per un marito che si sbronza, picchia e tradisce. Luana Rondinelli con intensa verità e leggera ironia riesce a portare a teatro una realtà ancora tagliente e amara, aprendoci alla visione di una condizione che non rimane un vago ricordo del passato, ma che si ancora profondamente al presente. Di fronte all’abilità delle attrici di trasmettere sentimenti così potenti, lo scoglio linguistico del dialetto locale si sgretola e svanisce. Rimane la viscerale voglia di un riscatto e la porta di casa chiusa, chissà che lo spirito del marito ritorni. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Menotti, Milano. Crediti: testo e regia di Luana Rondinelli, con Donatella Finocchiaro, Claudia Potenza, Luana Rondinelli,

 LE SIGNORINE   #ROMA 

Isa Danieli e Giuliana De Sio sono due attrici generose. Fanno della loro parlata dolcemente partenopea e del corpo irrigidito una danza sincopata che trova nelle due sorelle un po’ in là con gli anni, motivo trainante della commedia amara scritta da Gianni Clementi, diretta da Pierpaolo Sepe e vista all’Ambra Jovinelli di Roma (tra i tanti debutti del ’19 affaticati dal covid, l’approdo romano arriva in ritardo ma viene accolto calorosamente). Come si diceva fastidiosamente un tempo, le due sono Signorine, donne che, nonostante l’attività di famiglia – una merceria sopra la quale si trova la casa finemente ricostruita da Carmelo Giammello – possono definirsi solo al negativo del mancato traguardo matrimoniale raggiunto. Eppure, Addolorata (De Sio) non si è arresa alla vita, vista nel filtro di una vecchia TV (finestra sul mondo di telenovelas infinite e chiromanti arraffoni) e annusata in incontri disperati in cui un ubriacone non è ancora l’ultima spiaggia. Eppure, la postura è di chi non ha mai vissuto davvero, non solo per imposizione sociale, quanto per via della stessa sorella-madre Addolorata (Danieli), vista come avara e costrittiva, detentrice del sapere, assoluto e tossico. Il battibecco continuo tra le due è mordente serrato ottimamente reso, segno, quello, di uno sbilanciamento di potere che si ribalta soltanto quando Rosaria viene colpita da un ictus, in un preludio di esaltazione e caduta. In questa ambientazione volutamente retrò più debole appare la necessità testuale di richiamo al contemporaneo. Le signorine rimangono di un’altra epoca, ma la loro forza sicura e aspra viene colta ugualmente. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Ambra Jovinelli, Roma | Crediti: di Gianni Clementi, regia Pierpaolo Sepe, con Isa Danieli e Giuliana De Sio, voce di Sergio Rubini, scene Carmelo Giammello, costumi di Chiara Aversano, luci di Luigi Biondi. Produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo. Foto Noemi Ardesi

 IL PROBLEMA  #NAPOLI 

Ogni malattia ha un suono ben preciso nel corpo; quelle della mente hanno il rumore di un’interferenza. La malattia, soprattutto quando è vissuta in famiglia, restituisce momenti di estrema e mutevole verità: la pietà, l’odio, l’insofferenza, la paura sono sintomi. Succede che il Padre (Franco Ferrante) una mattina non sa come infilare un calzino, e da quel momento gli si sfilacciano lentamente i ricordi; ha il morbo di Alzheimer, e sia la Figlia (Paola Fresa) che la Madre (Nunzia Antonino) devono imparare a conviverci. La malattia è una gabbia con un perimetro evidente ma senza sbarre, ed è possibile muovercisi liberamente tra il dentro e il fuori, ma è sempre uno strazio. Al centro della gabbia, una sola sedia per lui che guarda confuso o spaventato o furioso chiunque gli si avvicini. La Madre e la Figlia litigano caricando di eccessiva enfasi ogni colpo e recriminazione, e con altrettanto slancio poi si sostengono. Ma laddove è inevitabile che il dolore più inquieto si drammatizzi con sfumature lievemente ridicole, poteva essere trascurata una certa retorica tediosa e usurata come quella dell’impiegato dell’INPS (Michele Cipriani) che maschera l’angoscia del rapporto costante con la morte e la vecchiaia con un becero menefreghismo. Ma forse il guaio da cui non si sfugge è che proprio la realtà svilisce ogni tentativo di dignità. Allora bisognerebbe soltanto concentrare gli occhi e il cuore al centro di quella gabbia, dove l’afflizione non impedisce a una donna di farsi il bagno col marito e toccarlo con immutato amore. (Valentina V. Mancini)
Visto al Piccolo Bellini, Napoli Crediti: di Paola Fresa; Con con Nunzia Antonino, Michele Cipriani, Franco Ferrante, Paola Fresa; Produzione Fondazione Sipario Toscana

 TOPI   #MILANO 

Che cosa accadde in quei tre giorni di luglio 2001 in cui si tenne il G8 di Genova è una di quelle profonde ferite che continuano imperterrite a sanguinare, anche dopo vent’anni. A prendersi l’onere di portarlo sul palco del Campo Teatrale è la compagnia Usine Baug, nata nel 2018 dall’incontro artistico di Claudia Russo, Ermanno Pingitore e Stefano Rocco. Attori famelici che, con un linguaggio immediato, riescono con disinvoltura a catturare l’attenzione del pubblico, coinvolgendolo nel racconto di un evento collettivo, eppure così tragicamente personale. Ai frammenti della vicenda del signor Canepa, la cui casa viene invasa dai topi (esseri simili a noi), si alternano i brulichii di voci e testimonianze di quella cruenta repressione militare che ha travolto un’intera generazione di attivisti. Attraverso una rievocazione serrata dei fatti, nelle parole concitate di due attori, si susseguono giornate piene di scontri e aggressioni che non trovano ragioni, che non trovano freni. 
Lo spettacolo, vincitore del Premio Scenario Periferie nel 2021, nella scenografia di un appartamento messo a soqquadro e nell’indistinta nebbia dello spray disinfestante, rievoca in parallelo due narrazioni, una reale e una fittizia, nel tentativo di porre un nuovo sguardo sui residui di una memoria fatta a brandelli. L’efficace ricostruzione riesce, così, a soffermarsi sulla linea sottile che separa il buono dal cattivo, la difesa dall’attacco, la vittima dal colpevole. (Andrea Gardenghi)
Visto al Campo Teatrale, Milano; Crediti:  regia e drammaturgia Usine Baug, con Claudia Russo, Ermanno Pingitore, Stefano Rocco, luci Emanuele Cavalcanti

 SÀRTORI NON DEVE MORIRE  #ROMA 

While My Guitar Gently Weeps – tra i migliori brani composti da George Harrison e ora pizzicato dalla malinconica chitarra di Marco Zordan – accoglie il pubblico nel Teatro Trastevere per Sàrtori non deve morire, scritto e diretto da Raffaele Balzano. Prima dell’inizio di una nuova opportunità lavorativa, Marcello Sàrtori (Geremia Longobardo), regista acclamato e Premio Ubu, viene rapito, legato a una sedia e imbavagliato. Sul fondo, si alternano i curricula fotocopiati e le foto, sempre la stessa, di Gianni Talamone (Balzano), il rapitore. «Gira, il mondo gira nello spazio senza fine» risuona il pezzo di Jimmy Fontana mentre “si consuma” l’elegante provino di Talamone, il quale costringe Sàrtori ad ascoltarlo, dopo le tante mail inviate e mai risposte; «con la gioia e col dolore della gente come me» si rincorrono le risate del pubblico e la tensione scorre come sottotesto racchiusa emblematicamente nel tic nevrotico con il quale Talamone blocca la penna sulla scrivania sempre nello stesso posto. Come nel romanzo di Stephen King, citato nel titolo, questa trascinante pièce, che fatica giusto un po’ all’inizio a decollare, architetta con scaltrezza e con un fine gusto per i dialoghi ben giocati dalle tre maschere attoriali, non solo la storia di un sequestro ma soprattutto quella di un triello, attorno al quale girano le vite di Sàrtori, Talamone e del suo fido “assistente” (Zordan) che hanno tra loro un conto in sospeso dal quale dipende questa sventurata collaborazione. (Lucia Medri)
Visto a Teatro Trastevere di Roma di Roma; Crediti: Scritto e diretto da Raffaele Balzano

 IO SONO FUOCO E ARIA   #MILANO 

I grandissimi, resi deboli dal peso delle responsabilità, per amore diventano meschini; le relazioni si complicano quando gli affari di Stato si curano attorno a un tavolo su cui non manca mai il vino, o su un letto morbido. Gli scontri si fanno maggiormente feroci quando una donna da sola, nonostante le mollezze dell’innamoramento o forse proprio per quelle, prova a tenere sotto scacco uomini potenti. Tutto brucia, ma Antonio (Antonio Marfella) e Cleopatra (Alessandra D’Elia) amoreggiano felici e si vezzeggiano tra moine e torsioni; delle pesanti tende rosse li riparano dal mondo. Fuori sfilano uomini di Stato e di Guerra: c’è chi veste rigide divise come il giovane Pompeo (Paolo Aguzzi) o il tormentato Enobarbo (Luciano Dell’Aglio), e chi è in completo scuro come Cesare Augusto (Gennaro Maresca); ognuno di loro muove astuzie per piegare gli altri, ma il centro del mondo è in Alessandria d’Egitto dove l’aria si alleggerisce in un’atmosfera tra la commedia e la farsa. La bellissima governatrice, una dea tra gli uomini, e il vigoroso triumviro, nel tentativo di esprimersi nel pieno spessore dei loro personaggi, si mortificano in molesti e plateali tic; si finisce per ridere dei litigi tra i due innamorati, e con curiosità morbosa si aspetta di catturare un altro ardente bacio dato per fare pace. La guerra si riduce a un monotono intermezzo, decisamente meno avvincente di un ridicolo battibecco. Passano sotto silenzio le grandezze terribili della tragedia di un amore inopportuno destinato a sacrificarsi in nome della gloria altrui. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Stabile d’innovazione Galleria Toledo, Napoli Crediti: Da Antonio e Cleopatra di William Shakespeare Drammaturgia e regia Laura Angiulli; Con Paolo Aguzzi, Federica Aiello, Alessandra D’Elia, Luciano Dell’Aglio, Gennaro Maresca, Antonio Marfella, Andrea Palladino; Foto di Anna Camerlingo

 IL BAMBOLO  #ROMA 

Foto Lucia Menegazzo
“Monologo per una donna e un bambolo gonfiabile”: è così che la drammaturga Irene Petra Zani presenta Il bambolo (spettacolo di riapertura del Teatro Argot Studio dopo le chiusure di questi mesi pandemici), che affronta un tema delicato in maniera non scontata o descrittiva, i disturbi dell’alimentazione. Patologie (con statistiche terrificanti sia in base all’aumento di casi che nell’abbassamento della soglia dell’età) che non minano solo la percezione che altri hanno di sé ma che può diventare risposta a traumi di natura psicologica riguardanti la gestione del corpo, la costruzione dell’identità e gli affetti manchevoli. I due amanti sono di fronte al mare, lì sempre resteranno, in un dialogo a una voce dove la donna restituisce le sfumature della relazione con la sua ossessione scavando sempre più a fondo. Inizialmente, in questa figura muta e immutabile la giovane riversa il suo bisogno di comprensione e riconoscimento, trae forza nella sua battaglia “dei no” nella costruzione di una fortezza sentimentale. Ma il bambolo, più che l’amante perfetto o la società sorda, rappresenta la malattia, accogliente e soffocante. Giampiero Judica costruisce una regia che vive dell’interpretazione superba e minuziosa di Linda Caridi e sceglie un ambiente “zuccherino”, quasi una nuvola di zucchero filato dai toni pastello di luci e  costumi che si fa metafora della condizione di falsa protezione nella quale vive chi è affetto da tali patologie. Quattro quadri per raccontare una storia apparentemente immobile, dove il cambiamento è una conquista lenta, dolorosa e, infine, meravigliosamente liberatoria. (Viviana Raciti)
Visto a Teatro Argot Studio, Roma | Crediti: di Irene Petra Zani, con Linda Caridi, regia Giampiero Judica, scene e costumi Lucia Menegazzo, luci Giacomo Marettelli Priorelli, produzione Infinito Produzioni e Argot Produzioni.

 ALDST. Al limite dello sputtanamento totale   #MILANO 

Alice (Viola Marietti) rispondeva sempre di voler fare la rockstar ma oggi, della propria vita, non sa ancora che fare. Sul palco trascina sé stessa, e noi con lei, all’interno di uno spaccato di vita di una ventenne la cui infelicità diviene una condizione che la precede. Lo fa con una spontanea naturalezza, mascherando la complessità del suo malessere con fresche battute di spirito: è così che la recita diviene realtà e la realtà si tramuta in recita. In scena vediamo i nostri pranzi di Natale, le discordie con le sorelle, il vittimismo di una madre, la nostalgia di un padre. Vediamo i complessi di inferiorità di una giovane che ancora non ha trovato il proprio posto nel mondo, le serate alcoliche e i pentimenti del giorno dopo, i tentativi di commiserazione con il “dottore” e le sigarette che si consumano per una vita vissuta solo a metà. La compagnia Tristeza Ensemble porta così al Teatro Fontana ALDST, uno spettacolo che accompagna al dramma esistenziale quello di un’intera generazione; la scenografia essenziale di una sedia, un appendiabiti e di lucine colorate, è il luogo in cui un inarrestabile flusso di coscienza prende corpo, insieme a tutte quelle parole che sembrano chiedere urgentemente una via di fuga dalla prigionia di un tempo presente immanente. Allora forse pensiamo che l’unica cosa da fare, sia quella di scherzarci su, lasciando che quella morsa che stringe un giovane cuore si allenti un po’, magari con una risata, quella che condividiamo con chi, come noi, è a teatro. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Fontana, Milano; Crediti: Di e con Viola Marietti, Regia Matteo Gatta, Viola Marietti, Dramaturg/Supervisione artistica Gabriele Gerets Albanese, Compagnia Tristeza Ensemble

 ALMOST, MAINE   #ROMA 

Una città inventata, nel freddo al confine tra Canada e USA, appena degna di un nome compiuto, o meglio, “quasi”: Almost, Maine, testo fortunato del 2002 scritto dall’attore e drammaturgo John Cariani, trasporta l’incompiutezza dell’avverbio nella dimensione amorosa, mostrata in una carrellata di dialoghi-incontro tra coppie anomale, incomplete, ancora in cerca di una precisa definizione. Due fidanzati che per star vicini ribaltano i concetti di prossimità e lontananza, sconosciuti che si scoprono attratti sotto un cielo boreale, ex che fanno fatica a lasciare andare l’altro, cuori materialmente spezzati e altri incerti su quale strada prendere… Tagliata su modello delle sit-com televisive, la commedia leggera diretta da Massimiliano Bruno (molto vicino al mondo cinetelevisivo) non va molto oltre la risoluzione di questi brevi episodi, tant’è che sul palco del Teatro Golden si trovano pochi elementi, modulabili, a rendere un muro, una panchina, un tavolo da bar, lasciando alla recitazione il compito trainante. Sara Baccarini, Lara Balbo, Matteo Milani Kabir Tavani in scena alternano i ruoli dei vari amanti, rimanendo sulla superficie di toni naturalistici che però troppo spesso rimangono nell’alveo della macchietta più che di un personaggio a tutto tondo. Sicuramente, il rodaggio dello spettacolo gioverà all’operazione, confidando in un ritmo più incisivo oltre che una stratificazione degli immaginari abbozzati, così da poter aderire a quel modello da serie tv, per poter costituire, per una sera, una valida alternativa. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Golden, Roma | Crediti: di John Cariani, traduzione e adattamento Jacopo Costantini, regia di Massimiliano Bruno, con Sara Baccarini, Lara Balbo, Matteo Milani Kabir Tavani

 SPECIALE TORNERÀ UN ALTRO INVERNO    #ROMA 

Da quando Maura Teofili e Francesco Montagna qualche anno fa hanno preso in gestione una vecchia carrozzeria a qualche centinaio di metri dalla stazione Trastevere, l’intento è stato spesso quello di incunearsi nella crisi del sistema inventando nuovi modi per mettersi in contatto con il territorio circostante e con la zona pulsante della creatività teatrale. “Odio l’estate” è appunto uno di questi strumenti (ma si pensi anche alla formazione continua o a un altro progetto dedicato alle fasce ancora più giovani, “Allez Enfants”): il concorso seleziona due progetti spettacolari in via di creazione ai quali viene data la possibilità di utilizzare gli spazi e il sostegno di Carrozzerie Not, compreso un piccolo budget di produzione.  La selezione dei talenti, l’utilizzo di modelli in linea con principi di trasparenza e uno sguardo ampio che possa includere e dare una possibilità di ingresso al maggior numero di autrici e autori possibili è una tensione imprescindibile, difficile da tenere in equilibrio in un sistema come il nostro dove le possibilità sono esigue. Diventa dunque una buona pratica da imitare questa idea di Montagna e Teofili di ripescare artisti provenienti dalle ultime edizioni di Odio l’estate e dar loro lo spazio di tre serate con apertura pubblica. La rassegna Tornerà un altro inverno potrebbe sembrare qualcosa di molto semplice e per nulla rivoluzionario ma è in realtà un primo correttivo proprio a quelle modalità di selezione come i bandi di concorso che per forza di cose scontano una evidente parzialità.
Tre serate in cui  è stato possibile assistere a cinque creazioni in fase di lavorazione (una, quella di Thomas Valerio,  è stata annullata per le solite positività Covid e verrà ripresa il 19 febbraio): esempi in cui tracciare passioni narrative e teatrali molto diverse. C’è però qualcosa che accomuna molti: tre delle proposte sono dedicate all’amore visto attraverso storie che raccontano di relazioni finite o in crisi. I linguaggi sono eterogenei anche per efficacia: Francesca Zerilli e Marco De Bella con Marco se ne è andato e non è Francesca è un tentativo ancora in nuce, la scrittura è delicata e leggera ma dovrà essere sostenuta nella drammaturgia e nell’interpretazione. In End-to-end di Andrea Dante Benazzo e Laura Accardo la suggestiva idea è quella di utilizzare il biografismo come dispositivo; la relazione è finita ma ossessivamente rimane nella vita del giovane, nelle chat WhatsApp che diventano drammaturgia. Sarebbe interessante un cortocircuito drammaturgico, un colpo di coda narrativo che riuscisse a superare la superficie del divertimento. Ippoterapia di Giulia Pietrozzini (in scena Chantal Gori e Giulio Maroncelli) è una pièce sullo svelamento attraverso il dialogo: classica e divertente, la crisi della coppia arriva lentamente, quasi dal nulla, da piccole incomprensioni; è un bel corpo a corpo, anche attoriale. Due lavori però escono dallo schema della coppia in crisi: O.O.O.O. (ove odo oso oltre) di Maria Federica Bianchi è una scrittura in monologo sulla figura della nonna dell’autrice e attrice: il lavoro potrà avere un futuro se Bianchi riuscirà a curare la messinscena, il lavoro fisico e la vocalità. Fuori da ogni schema è Top e Spritz di Tommaso Lombardo, monologo lunare che nei primi minuti si maschera da banale pezzo di cabaret sulle differenze tra Roma Nord e Roma Sud e poi invece diventa attraversamento generazionale di una rinascita, storia comica con squarci poetici surreali. Il personaggio di quest’ultimo monologo se la prende con una montagna perché non sa con chi litigare. Bisogna costruire spazi e vallate per i nuovi artisti, mettersi attorno ad ascoltarli come è accaduto a Carrozzerie Not, per non trovarli soli, ad urlare contro le montagne. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Carrozzerie Not, Roma. Crediti

 

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