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Ditegli sempre di sì, per una farsa, per Eduardo

Recensione. Ditegli sempre di sì, di Eduardo De Filippo, è andato in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli lo scorso dicembre con La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo e la regia di Roberto Andò. In tournée nel 2022 e 2023. A novembre 2022 anche al teatro Ambra Jovinelli di Roma.

Foto Lia Pasqualino

La follia è un limen il cui attraversamento appartiene a ciascuno di noi. «Sei matta», «Sei pazzo», «Sono impazziti»: tutte espressioni che usiamo quotidianamente, scherzando, per iperbole, come rafforzativi dialettici, in momenti di rabbia, di noia, di difficoltà e in così tante altre circostanze che la frequenza rende inutile specificare. Se si provasse a porre la questione su un piano concettuale più profondo dovremmo parimenti constatare che la follia è un crinale imprescindibile per la scienza, la sociologia e sostanzialmente qualunque campo di quello che si definisce universo culturale. Anche senza nemmeno lambire la figura di Artaud, il teatro non fa eccezione, anzi è una delle elette zone di confine, troppo facile dirlo, da Shakespeare a Büchner, da Eschilo a Pirandello, e pure da Scarpetta a Eduardo De Filippo.

Ditegli sempre di sì è una delle prime opere eduardiane: due atti, scritti nella seconda metà degli anni Venti e andati in scena in principio quando ancora il drammaturgo napoletano lavorava nella compagnia del fratellastro Vincenzo Scarpetta, che saranno consegnati per iscritto alla Cantata dei giorni pari in due versioni, una del 1932 presente nell’edizione  Einaudi del 1962 e una, con la suddivisione in scene, datata 1927 per l’edizione del 1971, rivista dall’autore e rimasta poi definitiva. La commedia rientra tra quelle registrate per la Rai nel ciclo degli anni Sessanta. Nel prologo Eduardo la presenta dicendo: «Eccomi a voi. Non c’è filosofia nella farsa che recito stasera, ma un personaggio della vita vera, un tal dei tali affetto da follia. Non c’è tesi specifica, né un fatto, ma cosa pensa e come vive un matto. Allora è un dramma, mi direte voi, io vi rispondo “è una tragedia nera, ma non è nostra”. E la tragedia vera diventa farsa se non tocca noi. Ditene male del lavoro mio, ma la pazzia non l’ho inventata io. Divertitevi dunque, riflettendo che ognuno può trovarselo davanti un vero matto e accade a tutti quanti di commuoversi e ridere piangendo. Riderebbe persino un missionario a contatto ad un folle. Su il sipario».

Foto Lia Pasqualino

Una farsa, dunque, per definizione stessa dell’autore che nella composizione conserva eppure ricalibra dall’interno il canone mutuato ed ereditato dalla prassi tradizionale e da quella paterna. Già apparsa (quale escamotage per una eventuale gravidanza adulterina) nella precedente Uomo e galantuomo, qui la pazzia diviene tema centrale e deflagrante che lascia, a uno sguardo attento, una considerazione su come la sua antonomasia cammini di pari passo all’ordinarietà e la sua marginalità sia dipendente dal bisogno di nasconderla finché possibile. Una serie di situazioni implacabilmente comiche ove non solo si dichiara nell’inclinazione performativa e creativa il contraltare più o meno legittimo e legittimato della follia, ma dove soprattutto si trova in ciò che viene detto e nell’interpretazione fin troppo letterale uno degli elementi centrali per l’innesco dell’azione scenica, quasi a lasciar presagire quanto il linguaggio, la parola e la sua contrapposizione al silenzio, la comunicazione e la sua assenza siano destinati a diventare uno dei nuclei dell’intera drammaturgia eduardiana.

Foto Lia Pasqualino

Nel 1982 durante la Biennale Teatro la commedia andrà in scena con La Compagnia di Teatro Luca De Filippo e la regia dello stesso Eduardo, lasciando alla cronaca la ri-scoperta di quella che Davico Bonino sulle pagine de La Stampa chiama “una singolare modernità”. Operazione ripetuta nuovamente nella stagione 1997-98 con Gabriele Imparato, Fulvia Carotenuto e Mario Porfito diretti Luca. Dopo una circuitazione iniziata lo scorso novembre e che si protrarrà fino al prossimo giugno, in un ideale passaggio di testimoni, a portare sul palcoscenico partenopeo del Teatro San Ferdinando Ditegli sempre di sì è stata di nuovo La compagnia di Teatro di Luca De Filippo, oggi diretta da Carolina Rosi (per anni compagna di arte e di vita di Luca), con la regia di Roberto Andò e Gianfelice Imparato nel ruolo del protagonista. La messinscena continua quell’inclinazione alla riproposizione fedele dell’opera paterna, che di recente ha lasciato in alcuni insinuare il dubbio di un approccio troppo “protezionista” giocato sulla differenza tra i lemmi repertorio e reperto, nutrito da qualche polemica su diritti e concessioni a volte più sterile, altre meno. Approccio in ogni caso determinato a continuare ad affermare la cardinalità dello specifico patrimonio teatrale. Della vicenda, quindi, nulla si perde: Michele Murri dopo un anno impronunciabile in manicomio viene ricondotto dal medico a casa, dalla sorella Teresa Lo Giudice che nel frattempo ha affittato la sua stanza al giovane e scapestrato o “stravagante” Luigi Strada, ex studente di medicina, aspirante attore, aspirante scrittore, aspirante poeta e all’occorrenza chissà che altro. Insieme e intorno a loro si muovono la cameriera Checchina, il padrone di casa Don Giovanni Altamura, la figlia Evelina, la famiglia Gallucci e pochi altri personaggi, coefficienti di un concatenarsi di equivoci incardinati sulla disfunzione del ragionamento ad ogni costo, sull’ossessione per cui «C’è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare?».

Foto Lia Pasqualino

Quando il velluto rosso del sipario si alza, il sottofondo musicale incornicia un primo quadro di posa dei personaggi in un ambiente in cui il “realismo” è ridotto all’essenziale del tavolo e del divano e lo sguardo arpiona la memoria, per riportarla alla nota epocale indicativa dei grandi termosifoni in ghisa nelle case del primo secolo scorso. Una dimensione lineare con tre porte regolari al fondo, due quinte laterali e un balcone più che accennato sulla sinistra si inscrive nella scala cromatica dal beige al verde, dal panna al legno, restituendo l’impressione che più che di realismo si sia di fronte a una cosciente citazione di realtà, quasi una mise en abyme. La cesura del buio segna l’inizio dell’azione, con la conservazione del ritmo drammatico che connatura e abbisogna al testo. Imparato resta sufficientemente credibile nel rendere i passaggi tra le evanescenze e le intemperanze di un “tal dei tali affetto da follia” dall’inizio alla fine, mentre la Teresa di Carolina Rosi converte «i suoi gesti a scatti, gli occhi troppo lucidi e troppo irrequieti» che «fanno capire che qualche rotella le manca» (così in didascalia) in una sorta di prono e avvilito incanto che pare antitetico a certe esacerbazioni di accento nevrotico del Luigi Strada di Edoardo Sorgente. La temperatura interpretativa generale beneficia dell’arguzia di non tentare nemmeno la replica eduardiana come impressa ai fotogrammi e ai ricordi, tuttavia sembra virare verso una caratterizzazione, seppure volontaria, ai limiti tra la caricatura e il grottesco, la cui necessità sfugge alla visione di chi scrive, che resta a fruire senza eccessiva partecipazione, quantunque ne registri l’efficacia nell’ilarità del resto della platea.

Sulla linea di una semplificazione vigente per secoli e forse ancora avvalorabile nonostante le speculazioni, gli approfondimenti, le sfumature e le fascinazioni più o meno tecniche, è pazzo chi non è lucido, chi è disconnesso dalla realtà, è pazzo colui il quale si colloca al polo opposto di ciò che è “normale”, è pazzo chi non ragiona. Tuttavia gli adepti della logica e quanti sono votati alla razionalizzazione, per difesa, per inclinazione naturale, per abitudine o per talento, sanno bene come la maggior parte delle cose più umane, autentiche e sensatamente insensate che possono accadergli rischino di scivolare fino a scomparire, fino a perdersi nei meccanismi delle sinapsi, come le verità rischino di disintegrarsi sulle barriere dei pensieri giusti e di quelli adatti, consequenziali. È davvero matto chi abdica al raziocinio o chi non lo fa mai, chi non può, chi ragiona sempre, troppo?

Marianna Masselli

Teatro San Ferdinando, Napoli – Dicembre 2021

Date tournée in calendario 2023

11 gennaio NOVI LIGURE Teatro Marenco
12 gennaio SAVIGLIANO Teatro Milanollo
13 gennaio NICHELINO Teatro Superga
26 gennaio FASANO Teatro Kennedy
27 gennaio BRINDISI Teatro Verdi
28 e 29 gennaio FOGGIA Teatro Giordano
31 gennaio CITTANOVA Teatro Gentile
8 febbraio SPOLETO Teatro Nuovo
9 febbraio FROSINONE Teatro Nestor
11 e 12 febbraio PISTOIA Teatro Manzoni

DITEGLI SEMPRE DI SI

di Eduardo De Filippo
regia Roberto Andò
con Carolina Rosi, Gianfelice Imparato, Edoardo Sorgente, Massimo De Matteo, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Nicola Di Pinto, Paola Fulciniti, Viola Forestiero, Vincenzo D’Amato, Gianni Canavacciuolo, Boris De Paola
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Francesca Livia Sartori
produzione Elledieffe – La Compagnia di Teatro Luca De Filippo, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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