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HomeRecensione in Home | Cordelia | dicembre 2021 

 | Cordelia | dicembre 2021 

RECENSIONI  BREVI MA INTENSE. Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Ogni mese apriremo una nuova pagina di Cordelia per recensire il maggior numero possibile di spettacoli. Scorrete fino alla fine per trovare tutte le opere recensite finora.

ATTO DI PASSIONE

Abbandonato il tribalismo della giungla contemporanea di Atto di adorazione, Dante Antonelli prosegue la ricerca performativa a partire dalle pagine erotiche di Yukio Mishima con Atto di passione, visto allo Spazio Rossellini. Come a voler estrapolare in un quadro scenico autonomo una delle storie del primo Atto, viviamo l’afflato che lega una scrittrice quarantenne (Valentina Beotti) a un ragazzo di vent’anni (Claudio Larena) nella casa di lei al mare, forse su un’isola. La consacrazione di lui per lei si infrange contro la membrana respingente dell’autrice che ancora ricorda la donna amata in passato e che, fino in fondo, non riesce a lasciarsi andare. Il vuoto della scena si riempie dei colori suonati da Mario Russo, sfumature percussive e pennellate di fiati, e le luci (Francesco Tasselli) creano delle rifrazioni acquatiche sullo sfondo bianco, a ricordare la familiarità di Mishima con l’elemento marino. La posa delicata di Beotti si accende nelle sue fragili ritrosie, Larena, ancora un po’ acerbo negli eccessi emotivi, possiede però una sensibilità ruvida che dosa con consapevolezza. I caratteri attoriali si esaltano in dialoghi la cui densità tende però – come già osservato nella presentazione del primo studio – ad avvolgersi su se stessa facendo soffrire un po’ di ridondanza quello stupore violento che tanto commuove e agita nei movimenti iniziali di questo Atto di passione. (Lucia Medri)
Visto a Spazio Rossellini, Roma Crediti: di Dante Antonelli; con Valentina Beotti, Claudio Larena; Musica Mario Russo

PARLAMI TERRA

Tutto il palco è un cassettone; sopra vi dorme una figura femminile; la musica sono i suoi sbadigli, i cassetti pezzi di mondo in cui trovare sabbia, acqua, scarpette; fuori c’è una ricchezza di suoni che spinge ad alzarsi. Inizia così Parlami terra, spettacolo per giovani generazioni ideato e diretto da Federica Migliotti con Chiara De Bonis che dà forma a una Gaia alla scoperta di una riappropriazione fantastica – in termini rodariani – del proprio senso di convivenza con la natura, come evidenzia la citazione del titolo, evocazione della Medea pasoliniana e della visione di un naturale lontano e agognato. Si tratta di un’operazione che, pur avendo a cuore la questione della cura per il pianeta parte dalla creazione poetica prima ancora che civica. Nella sua astrazione, nella quasi totale mancanza di parole pronunciate, nell’azione che è movimento danzato (recuperando pure forme di danza indiana, affascinante ma forse ostica), gioco di oggetti che appaiono dal nulla quasi fosse teatro nero, lo spettacolo non risulta incomprensibile alla platea numerosa di bambini nella replica al Palladium di Roma, (inserita nel ciclo di incontri Audience Revolution condotti da alcune studentesse di Roma Tre, coordinati da Antonio Audino). Curiosa platea degli aspetti tecnici, di quello che chiamano “film” (che ci sia bisogno di un’educazione alla visione teatrale per le giovani generazioni?), e però già attenta a leggere e dare interpretazione ai segni in scena, come il velo che “sembra il vento a danzare con lei”, o anche “il suo diventare sposa”, quasi fosse una inconsapevole Proserpina. (Viviana Raciti)
Visto a Teatro Palladium, Roma Crediti: di Federica Migliotti, con Chiara De Bonis, coreografie Damiano Ottavio Bigi, suono Valerio Camporini Faggioni, animatore oggetti di scena Anton De Guglielmo, costumi Anna Coluccia, disegno luci Raffaella Vitiello, produzione Compagnia TeatroViola – Cranpi. Foto Piero Tauro

KASPAR

Quella di Kaspar Hauser è una storia, forse un po’ leggenda. Ma ha molto a che vedere con la realtà. La vicenda del suo ritrovamento in una cattività che poi egli dovrà misurare alla civiltà della propria epoca, nell’Ottocento, nella rielaborazione di Peter Handke (1967) si espone a un pensiero sull’adattamento degli uomini alla società, attraverso l’articolazione consapevole del linguaggio, in relazione al senso che esso produce nel proprio tempo. È una situazione esemplare, priva o quasi di riferimenti naturalistici, quella ideata dalla Compagnia Barletti/Waas, in tedesco con sopratitoli italiani. Kaspar (Lea Barletti) è allo stato selvaggio, non conosce ancora, dunque l’esempio della voce che lo imbecca (Werner Waas) è per lui non solo un meccanismo di imitazione espressiva, ma più in grande la ricerca di un contatto con ciò che a tale meccanismo preesiste. La scena concede pochi elementi visivi, Kaspar è un novello Pinocchio e la scrittura di Handke, più che raccontarne la storia, ci scava dentro attraverso sillogismi filosofici, giochi di parole ed esercizi logici, raffigura attraverso “la Voce” (che poi si fa presenza) i dettami del vivere in ordine, i comandamenti del Dio-Società. Il testo, definito già nel sottotitolo “una tortura di parole”, è – complice la penna di Handke e una regia che interamente la rispetta – come una valanga e non sempre appare necessario, ripete concetti contorti e gira attorno a sé stesso, come se la medesima società non avesse chiaro, pur essendone creatrice, i molti punti dell’ordine, finendo per confondere le molte unicità, come Kaspar, nella falsa e difforme identità collettiva. (Simone Nebbia)
Visto a Teatro Palladium, Roma Crediti: Di Peter Handke; Con Lea Barletti e Werner Waas; regia/produzione Barletti/Waas

CAINI

Anche un banale tavolo da cucina può diventare sia pala d’altare che mensa eucaristica; un oggetto sacro attorno a cui si muovono come divinità malevoli una madre, A, (Giulia Pica) e i suoi tre figli, gli ottusi B e C (Alessandro Gioia, Antonio Stoccuto) e la disobbediente Y (Alice Conti). La loro è una famiglia di miserabili mostri, serrati in un attaccamento morboso alimentato da minacce e sottintesi. Nel tentativo di liberarsi da quella che sembra la morsa di un patto da clan, Y presenta ai suoi il nuovo fidanzato: X (Fiorenzo Madonna) è un artista concettuale alla ricerca di immagini pure e vere, orfano e borghese. La casa è un ambiente spoglio e ambiguo dove la sola luce crea, e cela, gli spazi delle verità, allo stesso modo dei rimbalzi di sguardi obliqui che raccontano ciò che rabbiosi silenzi omettono; lì esplode l’antagonismo che vorrebbe essere anche scontro di classe: due realtà cittadine, due modi distinti di esprimersi, la bellezza e l’orrore, l’individualismo e il tribale. Al di là del perimetro falsamente accogliente della tavola, al buio e illuminati da lunghi ceri, i componenti della famiglia si irrigidiscono in pose debolmente dissacranti e lontane dall’iconoclastia sovversiva. Dall’impatto X elabora una visione artistica talmente limpida e onesta da rivelare involontariamente la realtà terribile e criminale dei suoi interlocutori, e per questo subisce il martirio. In questo Caini di Mario De Masi, eccede tra il didascalico e il manicheo l’immagine dell’arte che sacrifica sé stessa nel tentativo fallimentare di migliorare l’esistente. Fosse così semplice. (Valentina V. Mancini)
Visto a Ridotto del Mercadante, Napoli – Crediti: Drammaturgia e regia Mario De Masi; Con Alice Conti, Alessandro Gioia, Giulia Pica, Fiorenzo Madonna, Antonio Stoccuto; Elementi di scena Marino Amodio; Costumi Anna Verde; Disegno luci Desideria Angeloni; Disegno sonoro Alessandro Francese; Compagnia I Pesci; Foto: Marco Ghidelli

OTHER OTHERNESS

Il progetto ELP | altre memorie con il quale Paola Bianchi ha vinto nel 2020 il Premio Rete Critica trova una parziale – rispetto alla totalità – incorporazione in Other Otherness creazione danzata dalla giovane Barbara Carulli, andata in scena durante Teatri di Vetro. Nello spazio buio, le luci di Rodighiero fendono la penombra in tagli obliqui, tra i quali si muove la nuvola ramata del tutù indossato da Carulli, unica veste oltre il copripetto color carne. La fisicità esile ma vigorosa della danzatrice, che già possiede nonostante la giovane età una propria caratura interpretativa, meccanicamente sedimenta le sequenze delle posture collettive trasmesse via audio da Bianchi. Vi è un incontro di frequenze, sonore (musiche originali di Fabrizio Modonese Palumbo) e corporee, sintetizzate in una sequenza di movimenti “alternati”, allo stesso tempo sghembi e armonici, contorti e distesi, rigidi e scomposti, impressionabili nella memoria individuale come una successione di fotografie, a ricordare tutte le immagini, storiche, fissate nella memoria di coloro che – nelle prime fasi di ricerca di ELP – erano stati chiamati a partecipare alla raccolta dell’«archivio di corpi». Quell’”altra alterità” del titolo diventa diapositiva del dialogo che ha legato entrambe nel processo, costruito attraverso la trasmissione di archivi di posture da parte della coreografa all’interprete e concentrato sulla «dichiarazione di esistenza» del corpo e non sull’imitazione di un insegnamento. (Lucia Medri)
Visto a Teatro India, Roma Crediti: Concept e coreografia Paola Bianchi; creato e danzato da Barbara Carulli; musiche originali Fabrizio Modonese Palumbo; disegno luci Paolo Pollo Rodighiero 

JUMP!

Jump! è parte di una ricerca pluriennale della compagnia Opera Bianco sulla figura del clown, in un recupero, tipico del loro modus operandi, che parte “dalla tradizione della maschera occidentale per portarla però in un linguaggio visivo e immaginifico contemporaneo”, sostiene Vincenzo Schino.  Ci si nutre di archetipi ma reinnestati in una dimensione liberata, pronta a ricevere niente altro che quattro “corpi in disordine” – come li definisce Marta Bichisao, nel loro essere atipici, giovani e vissuti. Lo spettacolo, visto al Festival Teatri di Vetro 2021, è costruito da un’indagine sulla forma della “caduta” da un punto di vista ritmico-coreico e nella sperimentazione della gravità – della reazione del corpo al cambiamento nel suo farsi presente in ogni momento –, nella ricerca teatrologica e cinematografica  – dagli studi sull’Augusto ai molti quadri che sono renactment di scene tratte da slapstick-comedy di Keaton e Chaplin –  ma anche come partenza di una metafora del mondo. Si chiedono, ben prima del Covid, “come continuare a camminare mentre tutto sta crollando?”. Per i due artisti è proprio la paradossalità del clown che permette l’impossibile stare in piedi, per cui, la caduta vista al contrario, ha la forma di un salto. Difficile coglierlo forse alla prima visione, ma di queste tradizioni rimangono tracce: orecchie rosse al posto del naso, gli abiti bianchi e neri e però ammodernati o sbottonati; il borotalco, l’entrare e uscire costantemente dalla scena, tentennare, cadere, imitarsi, rialzarsi, ripetere, sostare, sospesi in aria, attratti dal basso o spinti in direzione contraria, su. (Viviana Raciti)
Visto a Teatri di Vetro, Roma. Crediti: Concept, coreografia e regia Marta Bichisao e Vincenzo Schino, Samuel Nicola Fuscà, C.L. Grugher, Luca Piomponi, Simone Scibilia, Suono Dario Salvagnini, Produzione: PinDoc / OPERA BIANCO, Coproduzione: Fondazione Royaumont (Parigi). Foto Marco Boschetti

C’ERA UNA VOLTA IN UMBRIA

Accade nella Valle Umbra Sud, recitano le note di regia, e già pare di sconfinare nel mito, quello a cui con curiosità ha dato risalto l’attore Silvio Impegnoso dedicandosi per anni, e per il suo territorio, a una scrupolosa ricerca di storia orale. C’era una volta in Umbria, presentato all’Angelo Mai, è una scrittura agile e onesta, con qualche lieve punta didascalica, sintesi di un metodo, diremmo antropologico, di raccolta delle testimonianze attorno al Dottor Cavadenti, folignate “anarchico a tempo indeterminato e con un incredibile talento per gli affari”. Come un detective – l’impermeabile e gli occhiali coi quali si presenta al pubblico potrebbero anche risultare superflui – Impegnoso ci racconta con ironia e spontaneità, senza definizioni di forma e/o tono, la storia di Cavadenti e di altri poliedrici personaggi, con aneddoti relativi alla passione per la cultura giapponese e la fondazione del primo centro culturale, al contrabbando di jeans e quadri, al gioco d’azzardo…Ogni frammento sembra comporre il quadro (mappa pittorica di Federica Terracina) che Impegnoso costruisce, foglio per foglio, durante la narrazione e che sul finale sarà levato in alto alle sue spalle. C’era una volta in Umbria è il canto di un “aedo coi Ray-ban” i cui confini tra verità storica e finzione leggendaria si fanno labili nella percezione degli ascoltatori divertiti e al contempo affascinati proprio dalla libertà con la quale possono accogliere la verità inventata delle vicende del Dottor Cavadenti. (Lucia Medri)
Visto a Angelo Mai, Roma – Crediti: di e con Silvio Impegnoso; Mappa pittorica di Federica Terracina; Luci e scenotecnica: David Rinaldin

DIPTYCH – THE MISSING DOOR & THE LOST ROOM

Diptych è un intricato groviglio ansimante, un’illusione perfetta. L’irrequieta congiunzione tra i sussulti del racconto gotico, l’iperrealismo e la visionarietà della pittura fiamminga, le dinamiche spavalde del cinema surrealista. È l’azione ossessiva del fissare, quando ogni senso di pudore crolla senza il minimo rimorso.
Completamente esposti sono gli ambienti di due camere, dove i corpi straordinari di Peeping Tom sono gettati e costretti a reagire a eventi che non è dato conoscere del tutto, se non attraverso l’intuizione del senso del movimento: movimenti irregolari eppure naturali come incontrollabili spasmi notturni, che hanno i ritmi sconnessi e assillanti dei pensieri. Viene mostrata, a suon di gemiti e singhiozzi, l’intimità ambigua dei rapporti: la simbiosi di due innamorati, il disagio di una separazione, l’insofferenza nei confronti del partner, la paura della solitudine. L’incubo è nell’impossibilità di uscire da quelle stanze e di dover ritornare costantemente in sé stessi, alimentare le proprie azioni e ripeterle (un orrore è, ad esempio, dover ripercorrere i gesti che hanno condotto a una morte violenta). La ragione di ogni movimento è da cercare nello spazio vuoto dietro le porte, tantissime porte, sigillate o spalancate per un capriccio del caso; oltre quelle porte, dubbi e figure mostruose. L’incubo è però diluito dalla presenza sfuggente di uomini e donne che osservano, morbosi come noi, da dietro il vetro di una finestra o da un armadio o da uno spiraglio tra le coperte; allora anche l’angoscia diventa uno dei tanti spasmi del piacere. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Bellini, Napoli – Crediti: Concept e regia Gabriela Carrizo, Franck Chartier; Interpreti Konan Dayot, Fons Dhossche, Lauren Langlois, Panos Malactos, Alejandro Moya, Fanny Sage, Eliana Stragapede, Wan-Lun Yu; Produzione Peeping Tom; Foto: Federica Capo

 L’ECCEZIONE E LA REGOLA 

Ancora oggi il capitalismo risolve l’equazione della propria fortuna nella spasmodica necessità di lottare contro il tempo. Time is money è un motto attribuito a Benjamin Franklin e dunque ben più vecchio della gig economy e dei rider in bicicletta. Bertolt Brecht ci ha scritto uno dei suoi migliori drammi didattici, nel 1930, L’eccezione e la regola, dissotterrato da Walter Pagliaro (omaggiando anche il 100° anniversario dalla nascita di Giorgio Strehler che lo mise in scena nel ‘62) e affidato al talento e al mestiere di sei attrici splendide: Micaela Esdra, Martina Carpi, Rita Abela, Silvia Siravo, Giada Lorusso, Valeria Cimaglia. È andato in scena al Teatro Basilica, spazio tornato nel radar del pubblico grazie alla gestione di un giovane gruppo di artisti e tecnici. Tre i personaggi principali: un uomo d’affari, una guida e il portatore. Siamo in un tempo altro, i costumi di Annalisa Di Piero (spolverini verde smeraldo, giacche di pelle lise dal tempo e dal vento del deserto, pantaloni di tela grezza, cappelli da operaio) e la scena vuota contribuiscono alla dimensione post storica. Vecchie valige sono unite come in una lunga catena con cui misurare le fatiche del portatore; sono in viaggio questi personaggi senza volto, girano come in un grande cerchio, ricordano i manichini di Kantor e i suoi viaggiatori che abitavano alcuni disegni e quadri. Il viaggio finisce con l’uccisione del portatore, e con un processo, impreziosito dall’ironia e dai tempi di Carpi. Non c’è giustizia, perché la giustizia cammina a braccetto con i padroni. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Basilica, Roma – Crediti: di Bertolt Brecht, traduzione Laura Pandolfi, regia Walter Pagliaro, scene Gianni Carluccio, costumi Annalisa Di Piero, musiche Germano Mazzocche, con Micaela Esdra, Marna Carpi, Rita Abela, Silvia Siravo, Giada Lorusso, Valeria Cimaglia.  Foto M. Simoncelli

 L’OMBRA LUNGA DEL NANO 

L’ultimo lavoro di Les Moustaches è un apologo sulla vita di coppia: dopo l’exploit di La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza Alberto Fumagalli e Ludovia D’Auria (i due registi) approdano a un interno domestico nel quale mettere sotto la lente d’ingrandimento la relazione a due; sempre di famiglia si tratta, ma non quella di origine come nel caso di Ciccio. Neve vive con suo marito Olo (i due nomi fanno pensare a cosa rimane dal racconto di Biancaneve e dei suoi nani, i suffissi), lo spettacolo ci mostra un prologo, in cui la coppia è felice e sposata da poco, e poi il dramma della dissoluzione dell’amore. In scena, al centro del palco del Teatro Due, un letto matrimoniale, unico e simbolico pezzo di arredamento. I due non si sopportano più: lei prima trovava il suo piccolo uomo affascinante ora sogna un compagno alto; le favole son fatte anche per vedere cosa accade nel momento in cui i sogni rischiano di realizzarsi: ecco allora che una sera tornando dal lavoro l’ombra del nano viene proiettata da una luce bassa e si allunga creando l’immagine di un uomo altissimo, «chiamami gigante» dice lui. Il marito in questo modo, fingendosi amante, comprenderà l’infelicità della giovane moglie ma anche l’impossibilità di ricucire il matrimonio. Sono bravi Ludovica D’Auria e Claudio Gaetani, molto, ma al testo e alla sua messa in opera manca un giro di vite, mancano quei guizzi che lo rendano avvincente oltre le singole battute e le buone intenzioni dell’idea. Come nel precedente lavoro si segnala l’uso poetico ed originale della lingua. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Due, Roma – Crediti: di Alberto Fumagalli, con la voce di Maria Paiato, con Ludovica D’Auria e Claudio Gaetani, regia Ludovica D’Auria e Alberto Fumagalli, co-produzione Società per Attori e Accademia Perduta/Romagna Teatri. Foto F.. Bondi

 I GIGANTI DELLA MONTAGNA – VOCE SOLA 

Che altro deve fare chi fa teatro se non interrogare il proprio tempo di domande urgenti da mettere in scena perché siano discusse? È un atto semplice in un meccanismo complesso, di tecnica, di spirito, d’amore. Lo compiono gli attori quando si fanno tramite della domanda, lo compie oggi un’attrice, Valentina Banci, che cerca in sé stessa la voce, sola, con cui Pirandello ha scritto e non finito I giganti della montagna. È sola anche in scena, ma i personaggi dell’opera, ultima e postuma, abitano ognuno una parte di lei, attraverso gli abiti o un raro trucco, qualche oggetto appena utile, qualche cambio di registro che permette trasformazioni invece sensibili. La storia si segue con facilità pur nel verso poetico dell’ultimo Pirandello, reso evocativo da una metafora ampia sulla necessità dell’arte, tradita dal tempo che la colloca ai margini: un gruppo di attori recita un’unica opera, la Favola del Figlio Cambiato, come una missione, perché oltre loro non esisterà più; insieme agli scalognati, delusi dalla realtà (ultimi spettatori di un teatro morente), andranno con fare misericordioso dai Giganti, potenti signori sordi al richiamo dell’arte, per rappresentarla ancora una volta. Ma l’opera, quella di Pirandello, non finisce. E allora come può non dialogare con questo nostro di tempo? Lo sa Valentina Banci, se ne accorge. E costruisce una chiusura accorata con altre parole, rischia interpretando i versi che Pirandello dal suo letto di morte mai scrisse, perché come una magia possano costituire, qui e ora nel nostro tempo barbarico, una nuova apertura, una nuova possibilità all’arte. (Simone Nebbia)
Visto a Teatro Basilica, Roma Crediti: di e con Valentina Banci; Scene: Lorenzo Banci; Testo: Luigi Pirandello; Ph:Luca Del Pia

 FESTIVAL DELL’ARTE SPACCATA 

Roma e, è diventata una città durissima per i giovani artisti, per quelli emergenti che non abbiano nessun aiuto o semplice relazione con grandi festival e teatri. E proprio la permeabilità di queste istituzioni è un tema centrale e non sempre risolto, quelle che più hanno a cuore il futuro affidano a progetti e bandi sul territorio proprio la possibilità di intercettare il nuovo. Allora, incontrare una nuova rassegna nella periferia residenziale di Torre Spaccata, messa in piedi da giovani (ideata e organizzata dalla compagnia Macedonia Teatro) e aperta appunto alla selezione di artisti altrettanto giovani è un buon segno di questi tempi; inoltre questo Festival dell’Arte Spaccata ha trovato casa in un luogo d’altri tempi. È nell’ex mercato di Torre Spaccata che si sono alternati tentativi, piccole fioriture, esperimenti, non solo teatro, anche musica e arti visive; ne abbiamo visti alcuni, in scena, in una  serata di fine novembre: Eco, la suggestiva ricerca drammaturgica e sonora di Elliot Teatro, da Orlando di Virginia Woolf; la stand-up comedy a tema sociale di Collettivo Est con Disperato Eretico Show – interessante lo sguardo che intreccia due estremità, la figura del rider e quella dell’attore, tra ironia e invettiva politica; e poi Sono una bomba di Nicolò Ayroldi, che sulle tracce della narrazione e del cunto racconta la storia di Peppino Impastato. Va detto che di questi lavori abbiamo visto dei flash, pochi minuti, sono ancora in fase di lavorazione, alcuni sono veri e propri tentativi; ma è anche di questi tentativi e luoghi che ha bisogno la città teatrale per fuggire all’asfissia. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Ex Mercato di Torre Spaccata, Roma – Crediti: Artisti Vari

 APOCALISSE TASCABILE 

Carrello della spesa. Vuoto. Che poi lo puoi riempire con mille prodotti, ma non è detto che dentro poi, davvero, ci sia qualcosa. Deve essere passato per la testa un simile pensiero a Niccolò Fettarappa Sandri che, in scena con Lorenzo Guerrieri, firma Apocalisse Tascabile, vincitore di importanti premi tra cui In-Box 2021. Siamo appena prima della fine del mondo, o appena dopo, poco importa. Perché all’annuncio dell’Apocalisse sembra che tutto, del mondo, sia già finito. Nelle espressioni turbate, scavate dei due attori, nella bolgia di gesti e nel turbine di parole affastellate, la drammaturgia di Fettarappa Sandri, “profeta della fine”, declama una inadeguatezza al mondo contemporaneo, allo stesso tempo ne critica i caratteri più spigolosi, creando come una nuvola di vespe roboante fatta di claim pubblicitari frammentati in un informe collage, un vortice ritmato di critica al consumismo, alla religione, all’immobilismo dell’uomo nei confronti di una società in decadenza. La grande energia degli attori non conosce cali, si carica dall’inizio alla fine senza alcuna modulazione, segno di una spinta forte e necessaria, ma in contrario anche di un entusiasmo ancora non veicolato da un dosaggio delle proprie qualità artistiche; tutto è profondamente urlato, gli ottimi spunti – tra i quali scorgere alcuni evidenti buoni maestri come Rezza, Cosentino, Timpano – se da un lato esprimono l’assoluto talento, dall’altro espongono lo spettatore a una sovrabbondanza di materiali ancora caotici. Verrà il tempo che il caos si poserà, saranno questi artisti da seguire assiduamente. (Simone Nebbia)
Visto a Carrozzerie Not, Roma Crediti: Regia: Niccolò Fettarappa Sandri, Lorenzo Guerrieri Drammaturgia: Niccolò Fettarappa Sandri Attori: Niccolò Fettarappa Sandri Lorenzo Guerrieri

 ARTURO 

La luce di una stella è la traccia di un passato, talmente forte che supera spazio e tempo, è testimonianza labile di cui si è persa qualcosa mentre qualcos’altro rimane, è durevole al punto di influenzare la nostra vita, fosse la rotta di una nave, il sogno di qualcuno, stimolo per andare avanti, per alzare lo sguardo quando il resto è buio, è forza creatrice. Arturo, tra le più luminose nel nostro emisfero, è lo stimolo e il titolo dello spettacolo di Nardinocchi / Matcovitch, vincitore ex aequo di Scenario Infanzia 2020. Arturo diventa in scena metafora di un viaggio a ritroso nelle memorie dei due performer nel rapporto coi rispettivi padri. Che ora non ci sono più, ma che continuano a esserci nei loro gesti, in una narrazione per quadri che indaga, assieme agli spettatori (anche loro stimolati nella reviviscenza): Ciò che resta, E se, Prima di noi, Noi e loro, Tracce, Domande sospese, Quel giorno, Non ti ho mai detto che. Questioni affrontate con un distacco analitico in grado di spostare l’incandescenza del dramma personale in un momento condiviso che si sedimenta nel tempo, in una scena abitata da puzzle della memoria da scrivere ogni volta, abitata da parole, dai corpi e da voci posate, piccate, trattenute, gioiose. Che si tratti di eco o di pura reinvenzione a chi guarda non deve importare. È chiaro l’intento, come svelato è il meccanismo teatrale, cornice quasi brechtiana in cui spiegarci, chiedere, ipotizzare, comprendere, perdonare. (Viviana Raciti)
Visto a Carrozzerie Not, Roma Crediti: di e con: Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich, scene: Fiammetta Mandich, assistenza e cura: Anna Ida Cortese

 COME TUTTE LE RAGAZZE LIBERE

Bosnia, 2014: sette tredicenni tornarono da una gita scolastica in stato di gravidanza. Ne vennero aspre polemiche, ma anche un testo teatrale di Tanja Sljivar in scena per la regia di Paola Rota: Come tutte le ragazze libere. Appaiono uno dopo l’altro, con le attrici, i monologhi legati assieme per restituire non la cronaca, bassa e forse voyeuristica, ma l’entità del gesto, la motivazione allo stesso tempo intima e, sullo sfondo, sociale. Il linguaggio del testo – tra le attrici emergono Silvia Gallerano e Irene Petris – intreccia passaggi della storia con teorie di eugenetica e infanticidio che le ragazze portano come un peso sulla loro scelta, sulla loro pancia; l’equilibrio del testo, in virtù di questo scarto tra ingenuità e competenza, non sempre pare coerente con l’evoluzione dello spettacolo. La valida intuizione di Sljivar e Rota – che firma il progetto con Simonetta Solder – è rintracciare nelle parole delle ragazze ciò che mancava alla loro vita adolescente perché fosse necessario evocare in grembo un simbolo della libertà su cui ribatte il titolo, quella di decidere, autodeterminarsi anche in un ambito socialmente, biologicamente appannaggio degli adulti. “Vediamo tutto davanti a noi, solo i nostri corpi non vediamo”, dirà una di loro, i gesti bambini come farsi le trecce, posare a un cambio d’abito o ad un selfie per i social, lasciano il posto alla fatica di un ingombro percepito presto come inatteso, prematuro. Ma una presenza, adolescente, si aggira sul palco delle attrici, non parla, osserva che forma possano prendere, il futuro e la libertà. (Simone Nebbia)
Visto a Teatro Torlonia, Roma Crediti: Regia: Paola Rota Drammaturgia: Tanja Sljivar Attrici: Silvia Gallerano, Liliana Massari, Irene Petris, Simonetta Solder, Sofia Celentani, Sara Mafodda, Martina Massaro, Sylvia Milton, Amina Dabo Ph: Circa

 L’ORESTE 

Oreste è rinchiuso in un Ospedale giudiziario, a Imola, ma la riscrittura di Francesco Niccolini si apre quando finalmente arriva una notizia: Oreste è libero, le leggi sono cambiate e così ora può uscire. Nessuno può trattenere più Oreste, il viso grande si commuove con poco. Claudio Casadio presta il corpo a un figlio dei tempi, il suo Oreste è un puro. Sul piccolo palco del Teatro Due di Roma, un letto, qualche armadietto, una scrivania e poco altro, il resto della scena lo fanno i disegni di Andrea Bruno, inquietanti illustrazioni in cui si agitano i sogni e gli incubi, ma nelle quali precipita anche la realtà che si muove attorno a Oreste, quell’Italia fine anni ‘70. Del personaggio tragico sofocleo rimane soprattutto il viaggio da compiere, questo ritornare che nel caso dell’allestimento di Giuseppe Marini è un ritornare al vuoto. Da chi può ritornare Oreste dopo tanti anni di internamento psichiatrico? Anche solo prendere un caffè al bar è una pericolosa novità. Claudio Casadio colora con la sincerità e l’immediatezza del romagnolo un’interpretazione di intelligenza e cuore. D’altronde Niccolini non gli lascia scampo nel nero finale (non sorprendente). Questo spettacolo (di certo anche alcuni dei precedenti e successivi) dimostrano che finalmente qualcosa sta accadendo al teatro di vicolo dei due macelli: lo storico spazio, rimasto chiuso per molto tempo, vede ora – grazie alla rassegna Expo Teatro organizzata da Società per attori – nuovo pubblico e titoli di un certo interesse. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Due (Rassegna Expo Teatro), Roma Crediti: Scritto per Claudio Casadio da Francesco Niccolini – con Claudio Casadio – regia di Giuseppe Marini – produzione Accademia Perduta/Romagna Teatri e Società per Attori

 LA LEGGENDA DEL GRANDE INQUISITORE

Ci sono pagine appese in una gabbia di corde intrecciate, come intrappolate nella struttura a rettangolo che delimita in orizzontale il palco dal proscenio; ed è davvero questa la sensazione che si ha di fronte alle pagine de I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, da cui La Compagnia del Sole trae il classico dialogo Il grande inquisitore. Aleksej (Tony Marzolla), il più piccolo, si trova in un momento di grande trasformazione spirituale, cresce al fianco di un maestro di fede che lo sta formando da monaco; Ivan (Flavio Albanese), il maggiore, lo incalza sul rapporto tra uomo e Dio, sulla natura fideistica della religione, naturalmente avversa, egli crede, all’esercizio della filosofia. Seduti a un tavolo di trattoria, i due fratelli che si ritrovano anche a margine di vicende familiari scandalose e, presto, tragiche, si conoscono forse per la prima volta – dichiarano, in realtà, che sarà l’ultima prima di separarsi per sempre –, scambiano visioni del mondo: incalza Ivan con la sua voglia di vivere, l’amore per l’intelligenza, l’amore, in fondo, per l’amore, quello vero; Aleksej è affascinato dal fratello, o meglio ne è turbato, frasi come: “l’evidenza del male, se ammettiamo l’esistenza di Dio, esplicita l’evidenza del demonio” lo costringono a riflessioni inaccettabili per un monaco. La regia critica di Marinella Anaclerio – che già diresse I Karamazov nel 2010 – scava nelle parole e responsabilizza gli attori, ne scolpisce due statue per mezzo di concetti profondi che definiscono, tra fede e ragione, tra disciplina e libertà, l’intera condizione umana. (Simone Nebbia)
Visto a Teatro Tordinona, Roma Crediti: Regia: Marinella Anaclerio Tratto da: I fratelli Karamazov di F. Dostoevskij Attori: Flavio Albanese, Tony Marzolla Scene: Francesco Arrivo. Compagnia del Sole Ph: Giacinto Mongelli

 DESTINAZIONE NON UMANA 

Destinazione non umana. Quella che si assegna a certi cavalli non più abili alle corse, inabili a servire il meccanismo dell’industria alimentare, condannati – sì – ad arrivare alla fine delle loro esistenze in spazi angusti, coperti di polvere con, dalla loro, soltanto i ricordi sbiaditi, pieni della polvere che ricopre i loro volti, tra box che sanno di casse mortuarie e catene appese al soffitto che presagiscono una certa inevitabile conclusione. Lo spettacolo presentato allo Spazio Rossellini, scritto e diretto da Valentina Esposito e prodotto dalla compagnia FACT, arriva alla conclusione di Destini incrociati, una rassegna dedicata al teatro in carcere organizzata dall’Università degli Studi Roma Tre e il Ministero di Giustizia. In scena gli ex detenuti danno vita a una serie di quadri tra le istantanee di un passato che vive della gloria dell’incoscienza di alcuni, del cinismo spietato di altri e il presente immobile, pieno di vuoti incolmabili. Scrittura e interpretazione procedono bene nella compagine maschile degli ex detenuti, nelle lingue sporche di un parlato dialettale, masticato, stratificato di vite, in quell’immobilità che si fa metafora di una condizione civile dimenticata. Meno funziona quando si sposta sul tentativo di astrazione che vuole universalizzare ma che si dimentica (nelle parole così come nella tensione recitativa) della carnalità che è sostrato di base dell’intera operazione. Ma rimane il pensiero, appeso alle catene: cosa succede a quei corpi che, una volta scontata la pena, devono fare i conti con quanto resta? (Viviana Raciti)
Visto a Spazio Rossellini, Roma – Crediti. Compagnia: Fort Apache Cinema Teatro Scritto e diretto da: Valentina Esposito con: F. Albanese, A. Bernardini, M Cateni, C. Cavalieri, C. Cavorso, V. Centi, M. De Rossi, M. Di Stefano, E. Grossi, G. Indolfi, M. Fantilli, G. Maroncelli, P. Piccinin, G. Porcacchia, F. Rizzuto, E. Timmi

 ON STAGE FESTIVAL 2021 

Di che pasta è fatto il teatro nord americano? Quello indipendente e low budget di cosa parla, cosa racconta? Lo organizzano un team di professionisti e professioniste (KIT Italia, The International Theatre, Kairos Italy Theater) che da anni ormai fanno da ponte con gli Stati Uniti e attraverso On Stage festival propongono campionature eterogenee di una teatralità a stelle e strisce in scena all’Off Off theatre di Roma. Nello spazio di Silvano Spada a via Giulia abbiamo avuto la possibilità di assistere a diverse possibilità drammaturgiche, tra quelle viste due si sono distinte per tematiche e fluidità della messinscena: In Their Footsteps e Do my Mouth. La prima è una scrittura scenica intessuta su storie vere di infermiere e donne civili che sono state in Vietnam; storie sconcertanti, abbandonate nella memoria, poco conosciute rispetto alla letteratura soprattutto cinematografica e maschile presente sul tema. L’autrice e regista Ashley Adelman le ha raccolte in giro per gli Stati Uniti confezionando uno spettacolo forse non innovativo dal punto di vista dei linguaggi (tutto accade con il sapiente uso di qualche cubo di legno), ma importante per l’impegno civile. Il secondo è invece un formidabile dispositivo teatrale e autobiografico in cui l’autore e interprete Davis Freeman utilizza il linguaggio della Stand Up Comedy per mettere in scena la propria vita: essere padre, perdere un amico importantissimo, fare i conti con la propria stirpe, con le radici razziste e sporche di sangue. Freeman ormai vive da anni a Bruxelles e si inserisce bene nel trend europeo del teatro di “realtà e autofinzione”. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Off Off Theatre, Roma – Crediti  In Their Footsteps:  Infinite Variety Productions; Scritto e diretto da Ashley Adelman; Con Janessa Floyd, Kate Szekely, Chrystal Bethell, Kristen Hasty, Kelly Teaford; Do My Mouth: Di e con Davis Freeman e con Kaya Freeman; Video grafica Sam Vanoverschelde;  Text: Davis & Kaya Freeman, Jane Armitage, Masaro Emoto, Will Eno & Lynne Mctaggert.

 LA DIFFICILISSIMA STORIA DI CICCIO SPERANZA

Chi può dire di conoscere il peso, la consistenza di una farfalla? Ciò che sta dentro, l’anima, talvolta non corrisponde a ciò che resta fuori, il corpo, qualunque ne sia la forma. Ed è questo concetto che la giovane compagnia Les Moustaches, con la regia di Ludovica D’Auria e Alberto Fumagalli, porta nel recente e premiato La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza. Ciccio è un ragazzo che vive in campagna, in una famiglia dedita all’agricoltura come unica ragione di vita, ma anche come limite imposto dal contesto arcaico in cui tutti sono abituati a vivere, definendo ogni volta la città, tutte le sue tumultuose isterie, come un luogo malvagio e nemico. Eppure, pur nella bellezza del paesaggio, nel ricordo di una madre morta troppo presto, Ciccio (Francesco Giordano) è diverso dal padre (Giacomo Bottoni) e dal fratello (Antonio Orlando): vuole ballare, dare all’anima la possibilità di raggiungere il corpo e, con esso, volare nello spazio infinito dell’immaginazione. C’è un senso perentorio di libertà o, meglio, di liberazione, già nel testo dello stesso Fumagalli – tra il Billy Elliot di Stephen Daldry e qualche sketch comico di Maccio Capatonda –, evocato attraverso una regia attenta ma ancora poco coraggiosa e varia nelle scelte; anche la ricerca linguistica, un patois scomposto di latino veneto e spagnolo, ha certo tratti originali ma sembra parziale, non ancora portata in profondità. E pure, tuttavia, Les Moustaches merita ampiamente la possibilità di sperimentare ancora, cercando un linguaggio, come Ciccio, non rinunciando ai propri sogni. (Simone Nebbia)
Visto a Teatro Due, Roma Crediti: Regia: Ludovica D’Auria, Alberto Fumagalli Drammaturgia: Alberto Fumagalli Attori: Francesco Giordano, Giacomo Bottoni, Antonio Orlando Compagnia: Les Moustaches Ph: Simona Albani

 HOME, I’M DARLING 

Judy (Valentina Valsania) e Johnny (Roberto Turchetta) sono moglie e marito, lei casalinga in abito lungo con pattern floreale e gonna larga, prepara la colazione a lui prima che vada in ufficio. Stufa di una carriera brillante nella finanza, Judy sceglie di rinunciare al ruolo di donna manager per rinchiudersi in un mondo irreale costruito con la complicità del marito, come fossero Grace Kelley e James Stewart e ballassero sulle note di Little Richard. Home I’m darling della drammaturga e sceneggiatrice Laura Wade, tradotto da Andrea Peghinelli per la compagnia pupilunari è andato in scena le scorse settimane al Teatro Tor Bella Monaca con la regia di Luchino Giordana e Ester Tatangelo. A emergere del testo originale sono gli aspetti più controversi ma determinanti nella ridefinizione politica dei ruoli delle persone all’interno della società attuale. Attraverso la patina glamour da cinema classico e da commedia noir a tratti, ogni battuta interroga quella precedente in una polisemia dialettica, i personaggi a tutto tondo generano empatia per la loro complessità e rigorosa interpretazione attoriale (Laura Nardi, Luchino Giordana, Elena Callegari e Roberta Mattei), la prosa agile non rinuncia alla gravità della riflessione inserita nella costruzione di quadri scenici essenziali ed efficaci. L’espediente narrativo è accattivante, reso in scena dalla compagnia attraverso un’attenta disamina delle relazioni tra uomini, donne e famiglie priva di stereotipi e pregiudizi. (Lucia Medri)
Visto a Teatro Tor Bella Monaca, Roma Crediti: di Laura Wade; regia Luchino Giordana e Ester Tatangelo; compagnia pupilunari / produzione Hermit Crab; traduzione Andrea Peghinelli; con Valentina Valsania (Judy); Roberto Turchetta (Johnny); Laura Nardi (Fran); Luchino Giordana (Marcus); Elena Callegari (Sylvia); Roberta Mattei (Alex)

 GLI ALTRI – Indagine sui nuovissimi mostri 

Fin da quando mi capitò di incontrarli al Monk di Roma, dove portarono uno spettacolo sgangherato, ancora ingenuo ma immediato e potente, come La rivoluzione è facile se sai con chi farla, ho spesso trovato nel teatro di Kepler 452, qualcosa di anti-teatrale. Gli spettacoli di Enrico Baraldi, Nicola Borghesi, Paola Aiello sono oggetti non ben identificati, mai pacificati dal punto di vista del linguaggio e dei temi. Anche in Gli altri, visto nel ridotto del Verdi di Padova, nel contesto di Rete Critica (dunque mentre la compagnia portava il peso anche della creazione del nuovo lavoro sul Capitale), c’è questa necessita di utilizzare il teatro come una camera iperbarica in cui far entrare frammenti di realtà per farli esplodere. In scena solo Borghesi, che qui scrive la drammaturgia con Riccardo Tabilio: l’oggetto del racconto è, come sempre proteiforme: c’è un uomo reale, in carne ed ossa, conosciuto sui social, è protagonista di un evento detestabile; ma c’è anche il posizionamento etico e politico rispetto a questa storia, quello di Borghesi/Tabilio e il nostro: ci viene chiesto di guardare, scrollare, di farci un’opinione o di giudicare? Nicola Borghesi è se stesso, non ha le risposte, come sempre accade a Kepler nel racconto ci finisce anche “il raccontare”; una standup comedy metateatrale pericolosamente sfuggente: chi sono gli altri? È più difficile pronunciare Io oppure Noi? Davvero possiamo parlarci con loro, con gli altri? Oppure è tutta una recita? (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Verdi, Padova (Finale Rete Critica 2021) – Crediti: regia Nicola Borghesi; drammaturgia Riccardo Tabilio;  ideazione tecnica Andrea Bovaia; coordinamento Michela Buscema; con Nicola Borghesi

 GERICO INNOCENZA ROSA

Ci sono storie la cui radice affonda in tempi più remoti del tempo del racconto, accade quando il risvolto sociale lievita lentamente, in lotta tra la componente più tradizionale, quando non arcaica, e quella spinta alla trasformazione sempre in anticipo sul cambiamento collettivo. È questa la sensazione che avvolge Gerico Innocenza Rosa, monologo di Valeria Solarino scritto e diretto da Luana Rondinelli. Una struttura prospettica, di fianco a un controfondale e un’esile struttura di legno, scende dal fondo verso il palco, dove sedersi a evocare una casa in campagna, con quelle tovaglie consunte; fiori secchi attorno, riarsi dalla campagna assolata. La donna – convincente la prova di Solarino – racconta la storia di una transizione negata, sofferta; parla in dialetto siciliano, mentre un abito nero la stringe. Una valigia sola in scena, un viaggio che si suppone già avvenuto, ma vi si narra del tempo in cui il viaggio, si presume, sia iniziato. E non si tratta di un viaggio fisico, ma del percorso che il giovane Vincenzo intraprende – un po’ come la Princesa di De Andrè – perché sia accettata la sua volontà di essere, finalmente, Innocenza Rosa. Tra una madre che non comprende la scelta e una nonna che, al contrario, accoglie il nipote pur mettendolo in guardia sulla percezione che ne avrà la comunità di paese, si avverte la sensazione di una vicenda certo sensibile ma senza particolare originalità, prevedibile e già più volte ascoltata. Rondinelli è drammaturga di talento, molto apprezzata in Taddrarite, ma in questo testo la sua scrittura appare più opaca, meno ricca di idee. (Simone Nebbia)
Visto a Teatro Ambra Jovinelli, Roma Crediti: Testo e Regia: Luana Rondinelli Attrice: Valeria Solarino Ph: Serena Gallorini

 INFERNO DI ROBERTO CASTELLO 

Sulla scena del Teatro India, si apre lo sfondo animato (consulenza 3D di Enrico Nencini) del primo quadro di Inferno, presentato a Romaeuropa Festival come ultimo lavoro del coreografo Roberto Castello, fondatore di ALDES. L’incedere puntuto ma morbido di Ilenia Romano, curvo nel suo delinearsi, si staglia nella sconfinata solitudine di un deserto blu, sul quale campeggiano, distanti tra loro, arboscelli sottili e volanti frigoriferi rossi intervallati dal botto dei fuochi d’artificio che esplodono sulla sinistra. Dalla stanchezza delle ciabatte e delle vestaglie di una fauna umana insofferente e apatica, si passa poi all’elitarismo concettuale di pseudo artisti che vagano per le sale di un museo (beffardo l’inciso di commento dell’a parte recitato da Alessandra Moretti) e ancora la frenesia festante che si velocizza nel ritmo esotico per poi brillare alla fine nella nostalgia di un varietà confezionato con piume e lustrini. Febbrile, attraente e scherzoso, l’oltremondo è un sorriso nervoso stampato a forza sul volto di Martina Auddino, Erica Bravini, Jacopo Buccino, Riccardo De Simone, Giselda Ranieri e Ilenia Romano, la loro pulizia dei movimenti, l’equilibrata accentazione espressiva, l’irriverenza della postura, e la smorfia grottesca, rendono l’ora di spettacolo, un irresistibile calembour danzato. L’Inferno di ALDES è senza dubbio la costrizione imperitura all’apparenza, ad essere sempre “al più”, portando chi guarda e chi è guardato a implorare un liberatorio “basta!”. (Lucia Medri)
Visto a Teatro India, Roma Crediti: coreografia, regia, progetto video Roberto Castello; in collaborazione con Alessandra Moretti; danza Martina Auddino, Erica Bravini, Jacopo Buccino, Riccardo De Simone, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri, Ilenia Romano Ph: Donato Aquaro

 THREE KINGS 

Three Kings, il gioco dei tre re, è un giochino, uno di quei trucchi tramandati di padre in figlio, per passare il tempo e per avere qualcosa da tramandare appunto: lo sa bene Francesco Bonomo che da solo in scena racconta (e dirige) questa storia scritta da Stephen Beresford. Siamo al Teatro Belli per Trend – passano gli anni ma la rassegna di Di Giammarco continua ad essere un punto di riferimento per chi ha voglia di ascoltare testi inglesi inediti; reading mise an space o spettacoli pronti. Allestimenti in cui spesse volte spicca proprio il dato sonoro, come nel lavoro di Francesco Bonomo, che con abilità e giusti nervi entra nei pub britannici per farci immaginare il protagonista alle prese con un padre assente eppure in grado di monopolizzarne i sentimenti, i bisogni affettivi. Bonomo è circondato da tavoli di alluminio, sembrano quelli che si vedono nelle cucine professionali: qualche bicchiere di whisky, ma soprattutto microfoni, monete e altri oggetti con cui creare una sorta di tappeto sonoro in cui l’impasto vocale è un intreccio di ricordi, una memoria densa e dolorosa. Quel padre, come spesso accade in questi casi poi morirà, senza scontare colpe o chiedendo scusa. A rimanere sono i piccoli fatti, buchi nello stomaco di un ragazzino, incidenti di percorso in un’umanità in crescita; come quella volta in cui dopo tanto tempo il giovane riesce a sentire il genitore al telefono e questo gli racconta in tutta contentezza che sta per avere un figlio, quel figlio maschio che ha sempre voluto. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Belli, Roma Crediti: Stephen Beresford diretto e interpretato da Francesco Bonomo; sonorizzazione Emiliano Duncan Barbieri; disegno luci Pietro Sperduti; traduzione Natalia di Giammarco; produzione Sardegna Teatro

 WOYZECK! 

Cosa ci attrae, oggi, del Woyzeck? L’opera di Georg Büchner del 1836, non terminata per la morte dell’autore, richiama l’attenzione di molti registi e drammaturghi attratti forse dal desiderio di completare il “mistero Woyzeck”, la cui incompletezza ne veicola il fascino. Anche Letizia Russo, tra le migliori in Italia, ha compiuto l’impresa, per una versione dell’opera – Woyzeck! – diretta da Carmelo Alù e interpretata da Marco Quaglia. Nella penombra di un palco che comprime il fiato, Woyzeck è l’interlocutore dei propri stessi pensieri, ha ucciso la propria donna, ma nell’omicidio ha come disperso la propria identità; parla e ascolta sé stesso parlare, confonde pronomi ed azioni, incarna da un lato il colpevole e dall’altro la vittima, del proprio stesso gesto. La regia di Alù, che sceglie una struttura di pochi elementi, ingabbia le parole del protagonista – e un po’ l’intero spettacolo – in un circolo vizioso che nidifica la pena nella colpa, come ovvio, provando a definire anche l’impossibile opposto di una colpa messa in luce dalla pena. Quale redenzione per Woyzeck? Forse l’acqua che appare nel liquido e nello specchio? Alù dirige un bravo attore come Marco Quaglia in una recitazione che non sembra tuttavia funzionale, così formale e tenuta a freno da una briglia troppo serrata. È un testo dal linguaggio aspro, poetico e sinistro, quello immaginato da Letizia Russo, che conserva del Woyzeck la profondità, il rapporto con l’alterità dell’assoluto: Woyzeck non può uscire dalla propria prigione, l’incastro perfetto della sua colpevolezza. (Simone Nebbia)
Visto a Teatro Quarticciolo, Roma Crediti: Regia: Carmelo Alù; Con: Marco Quaglia; Dammaturgia: Letizia Russo dal testo di Georg Büchner; Ph: Stefano Patti
 

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