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Il teatro del Nulla di Bob Wilson e Lucinda Childs

Recensione. Al Teatro Goldoni di Venezia, per la stagione teatrale dello Stabile del Veneto, torna in scena dopo più di 40 anni un capolavoro di Bob Wilson e Lucinda Childs, I was sitting on my patio, la cui vitale perfezione formale è rimasta praticamente intatta.

Foto Lucie Jansch

Nella dissennata, fuori controllo disseminazione di eventi e programmazioni parallele ai (e per i) padiglioni della Biennale Architettura ormai chiusa a Venezia, spesso banalizzanti e quasi mai critici, i termini ‘performance’ e ‘body’ e ‘post-human landscape’ erano davvero ovunque. Anche per riempire programmi e menù di rinfreschi in saloni e pergolati, salotti e palazzi con o senza giardini o patio e balconcini, promossi da curatori e curatrici con formazioni di studio improbabili (perché magari un attimo prima ancora funzionari o manager), onnivori (perché a digiuno), quindi cannibali di ogni tema che risuona ‘diversità’ ‘disabilità’ ‘precarietà’ da riciclare in qualsiasi dibattito. Numericamente poi maggiori dei performer che l’azione la fanno (chissà quanto pagati…). Tra «tutto-questo-Tutto» performativo è stato salutare aver ritrovato, al Teatro Goldoni, «il Nulla alla Bob Wilson» e Lucinda Childs. L’avido vampirismo del curatore contemporaneo (male di stagione?) si stempera così con un teatro che mette in scena l’estrema sua sparizione. È un lavoro del 1977, e sembra fatto ancora per domani. Ha ragione Gayatri Spivak: oggi la vera lotta di classe è per l’accesso all’istruzione. Studiate, non riciclate: storia delle forme, non parole d’ordine.

Foto Lucie Jansch

L’INCREDULITÀ DEL DEBUTTO

I was sitting on my patio this guy appeared I thought I was hallucinating: nel chilometrico titolo (che è l’incipit nonché refrain dell’opera) si dispiega già la forza formale, l’investimento temporale di questa performance verbale nella forma del duo. È un doppio monologo, ripetuto consecutivamente da due voci e corpi diversi, che non agiscono a specchio ma come nel rovescio del proprio andamento. Entrambi straordinari: Christopher Nell, in un impeccabile bianco e nero pieno di angoli e tagli e geometrie, e Julie Shanahan, in abito lungo ma a piedi nudi, invece più febbrile e frontale, ma anche più spedita.

Foto Lucie Jansch

Un telefono al centro, una scaffalatura che arriverà come se ne andrà all’improvviso, un piccolo schermo che va e viene con immagini di pinguini e anatre, mentre tutto attorno resta vuoto, il mobilio ridotto all’osso e tre pannelli illuminati sul retro. Al debutto, le critiche si sprecarono sulla difficile richiesta di attenzione («irritating, hypnotic, non-linear explorations into human behavior») e l’inevitabile noia che tale difficoltà comportava per lo spettatore più sprovveduto. Così un infastidito (e faceto) Clive Barnes recensiva il debutto su «The New York Times», il 23 maggio 1977: «Dobbiamo sospendere – se vogliamo sospendere – se possiamo sospendere – se la sospensione nella maggior parte dei casi è possibile – o addirittura praticabile – presumendo che la sospensione sia desiderabile – dobbiamo sospendere la nostra incredulità. In altre parole, la nostra incredulità deve essere completamente sospesa». Verrebbe da dire: prenda fiato Mr. Barnes.

Foto Lucie Jansch

UN TEATRO IN DISSOLVENZA

Questa resistenza allo scorrere del tempo lineare attraverso una scena bloccata, che metteva in forma nuovi codici e nuove logiche della visione era, al suo debutto, scambiata come una distrazione sempre in perdita, mentre invece era smaterializzazione, dissolvenza, «il Nulla alla Wilson» di cui scrisse benissimo Arbasino. Ancora oggi in questo «doppio monologo senza dramma», le diverse storie che si sovrappongono in modo istantaneo e in ritorni e ripetizioni e associazioni nel testo (scritto e ideato da Wilson), letteralmente galleggiano sulla scena in un flusso altamente frammentato, con aspetti metafinzionali (ossia secondo un comporre consapevole dei propri artifici) e svariati rimandi intertestuali (da Gertrude Stein a John Barth), non senza generose dosi di humor nero. E ogni ripresa, come effetto di un ritornello che replica il desiderio in tutta la sua dinamica, crea alla fine una grande intimità con il rispettivo interprete. Proprio come se (dopo oltre 40 anni) non contasse davvero la fedeltà alla copia. La performance del presente altro allora non è che la negoziazione della misura di una nuova trasparenza possibile. Del teatro oggi, dei corpi oggi. In questa città, Venezia, così aggredita dalle merci e dai mercanti che tale la ritengono e la riducono, teatri, università, gallerie indipendenti, centri sociali sono, con i rispettivi mezzi, l’unico argine di libertà al caos senza immaginazione di questo assedio.

Stefano Tomassini

Novembre 2021, Teatro Goldoni di Venezia

I was sitting on my patio this guy appeared I thought I was hallucinating

testo, ideazione e regia: Robert Wilson
co-regia: Lucinda Childs
con: Christopher Nell, Julie Shanahan
aiuto regia: Charles Chemin
costumi: Carlos Soto
collaboratrice alla scenografia: Annick Lavallée-Benny
collaboratore al disegno luci: Marcello Lumaca
sound designer: Nick Sagar
make up design: Manuela Halligan, Véronique Pfluger
assistente costumista: Emeric Le Bourhis
assistente scenografia: Chloé Bellemère
assistente collaboratore alla regia: Agathe Vidal
musiche: Johann Sebastian Bach, Franz Schubert, Jean-Baptiste Lully, Michael Galasso
produzione film (1977): Gretta Wing Miller
costume realizzati da: FBG2211
scene realizzate da: Atelier Espace et compagnie, Vénissieux
parrucca: Noï Karunayadhaj
con il supporto di: Dance Reflections by

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Stefano Tomassini
Stefano Tomassini
Insegna studi di danza e coreografici presso l’Università Iuav di Venezia. Nel 2008-2009 è stato Fulbright-Schuman Research Scholar (NYC); nel 2010 Scholar-in-Residence presso l’Archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (Lee, Mass.) e nel 2011, Associate Research Scholar presso l’Italian Academy for Advanced Studies in America, Columbia University (NYC). Dal 2021 è membro onorario dell’Associazione Danzare Cecchetti ANCEC Italia. Nel 2018 ha pubblicato la monografia Tempo fermo. Danza e performance alla prova dell’impossibile (Scalpendi) e, più di recente, con lo stesso editore, Tempo perso. Danza e coreografia dello stare fermi.

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