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Milo Rau, Everywoman. Al confine della vita

Recensione. Milo Rau con Everywoman indaga la morte come confine dell’umano e, forse, dell’essere al mondo. Con Ursina Lardi. Al Piccolo Teatro Strehler di Milano. 

foto Armin Smailovic

È magnifico guardarsi intorno, appena fuori o dentro il foyer del Piccolo Teatro Strehler a Milano: c’è uno spettacolo di punta, torna Milo Rau con questo Everywoman che si preannuncia intenso, emotivamente carico di aspettative; si fa la fila lì fuori, ci si riconosce dietro le mascherine, qualcuno l’abbassa per mostrarsi del tutto mentre sorride a chi non vede da un bel po’, qualcuno si avvicina esitante, poi l’abbraccio se lo concede, come un piccolo salto nel buio che è stato, in questo anno e mezzo di dolore. La sala al pieno della capienza concede di nuovo di avere dei vicini con cui parlare, prima dello spettacolo, oppure ai quali fare appena quel gesto con cui si dice, in silenzio, a chi sta nello stesso posto per lo stesso identico motivo di fare esperienza della bellezza, dell’emozione, del pensiero: Buona visione.

foto Armin Smailovic

La scena si dilata in orizzontale, pochi gli elementi sul palco: due enormi massi posti sul fondale, di fianco a una catasta di scatoloni e ad un pianoforte a coda che ospita alcuni oggetti di un interno casalingo, con quadretti di foto di famiglia; al centro, nel mezzo del palco, un vecchio mangianastri. C’è una donna (Ursina Lardi che con Rau firma l’ideazione dello spettacolo) che inizia a maneggiare lo stereo, inserisce una cassetta, spinge un tasto, inizia a parlare in italiano, come se il tasto di avvio fosse l’innesco delle sue parole; racconta la storia di suo nonno, storia di quando bambina vide la morte in diretta di un cavallo da corsa e che si perde in un passato già in apparenza esemplare. Alle sue spalle, sopra i grandi massi che, si scopre, riproducono le pietre delle Alpi Svizzere da cui la donna proviene, in alto c’è uno schermo e riproduce in orizzontale una grande tavola imbandita che via via si va a comporre di convitati, appaiono a piccoli gruppi per completare la preparazione, poi siedono tutti insieme, lasciando un posto vuoto. Quel posto sarà di Helga Bedau, una donna la cui storia passa, di nuovo, tra le parole di Ursina Lardi: fu durante il primo lockdown, una lettera inviata all’attrice da questa donna anziana, letta sul palco (da questo momento in poi lo spettacolo sarà in tedesco con sovratitoli italiani), apre un varco nella vicenda di Helga che da giovane recitò, una sola volta, una piccola parte muta in un Romeo e Giulietta, ma che la riempì di gioia; adesso la vita le si rivolge con durezza: una diagnosi di cancro al pancreas, poco le resta da vivere, chiede allora di realizzare un desiderio, tra gli ultimi, quello di recitare, sul palco, una volta ancora.

Quando Helga raggiunge il suo posto a tavola, nel mezzo dei commensali che quasi non se ne accorgono, l’attrice Lardi inizia a comporre un dialogo con l’altra donna, indaga il suo passato, dà conto della sua storia andando a scandagliare i punti salienti della vita che ha vissuto; Helga sembra lamentarsi, poi pur contrariata partecipa, si lascia prendere dal condividere qualche memoria, la storia del suo matrimonio e della sua maternità legata a un altro uomo (anche se non sembra coerente in alcuni punti), quella del suo legame con la Grecia e quel figlio visto partire a 12 anni e con cui vorrebbe passare l’ultimo periodo che le resta, infine la storia del suo desiderio di recitare: lei vorrebbe farlo, come promesso, interpretando un personaggio di Jedermann, Ognuno, commedia morale allegorica di Hugo Von Hoffmannstahl ispirata alle rappresentazioni morali del XV secolo e alla quale lo stesso Rau fa riferimento; e invece, pur senza rendersene conto, le tocca recitare sé stessa, la parte interessante, quella che presto non ci sarà più.

foto Armin Smailovic

Questo voyeurismo, questa brama di indagare il privato, cerca di esprimere da un lato una critica alla pratica tutta teatrale di saccheggiare le biografie della gente comune, piuttosto diffusa a largo raggio nell’arte di rappresentazione, dall’altro proprio questa spettacolarizzazione dello spazio privato appare una forzatura, come dice la stessa Bedau in un punto del testo, mostrando forse per la prima volta come questo approccio molto in voga nel contemporaneo sia alle strette di un ribaltamento poco problematizzato, non ancora previsto, forse auspicato.

Anche sul piano linguistico il lavoro di Rau e Lardi – attraverso questo dialogo teso in costante ricerca di relazione “dal vero” ma imposto dall’accuratezza registica – affronta il confine oltre il quale la realtà cede il passo alla finzione, accoglie ibridazioni che creano spaesamento, si degrada fino al punto di lasciare spazio perché vi entri un modo di rappresentarla, assecondando un concetto da porre in esame, come in questo caso la morte annunciata e comune a tutti, non a caso definiti mortali; è proprio su questo confine che se ne gioca la credibilità, lasciando intendere come alla fine di uno spettacolo, allo stesso modo che alla fine della vita, non resti che qualche immagine impressa negli occhi. E nulla più.

foto Armin Smailovic

Lardi e Rau, in un dispositivo non molto lontano da quello usato da Rimini Protokoll per Nachlass, compongono un testo di matrice filosofica – assieme alla collaborazione per la drammaturgia di Carmen Hornbostel e Christian Tschirner – che mette sotto indagine la morte come un “non esserci più”, dando cioè risalto al rapporto tra l’essere e non, livellato nella vita di quell’ognuno che è nel titolo e nell’opera di ispirazione. Al netto di una deriva concettosa che fa perdere in alcuni punti il filo del discorso, la componente morale dello spettacolo è piuttosto netta, non usa espedienti e va dritta al punto, come nella poetica di Milo Rau, pur non trattandosi in assoluto del miglior lavoro del regista svizzero, per chi ne abbia avuto esperienza. Ma c’è un momento assolutamente poetico, quello in cui Ursina Lardi descrive La caduta di Icaro di Pieter Bruegel il Vecchio, opera pittorica (1558) in cui il coraggioso Icaro, uomo tra gli uomini, in una tranquilla soleggiata giornata immersa nel paesaggio tra la collina e il mare, è caduto nell’acqua e non si vede più, mentre attorno ogni uomo continua la sua attività ed ignora che poco prima, l’uomo che cercava di arrivare al sole, ha compiuto l’ultima sua impresa oltre il confine dell’umanità. “Tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia”. Torna in mente questo Leopardi da La sera del dì di festa che ci confida parole decisive, a dire che gli esseri umani potranno mettere in scena la propria morte durante la vita, suonando Bach al pianoforte con la finestra aperta in un giorno di pioggia, ma la morte, che non conosce differenze né poesia, che disconosce la consolazione del considerarla fine della vita, segue un ordine che nulla di umano può scalfire.

Simone Nebbia

Ottobre 2021, Milano, Piccolo Teatro Strehler

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EVERYWOMAN
di Milo Rau e Ursina Lardi
regia Milo Rau
scene e costumi Anton Lukas
video Moritz von Dungern
suono Jens Baudisch
drammaturgia Carmen Hornbostel, Christian Tschirner
ricerca Carmen Hornbostel
luci Erich Schneider
con Ursina Lardi, Helga Bedau (in video)
produzione Schaubühne, Berlino in coproduzione con Festival di Salisburgo

Durata 80′ senza intervallo

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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