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HomeMedia partnershipFlavio Cortellazzi. Il teatro in equilibrio tra grazie e disgrazie

Flavio Cortellazzi. Il teatro in equilibrio tra grazie e disgrazie

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Nell’ambito del Progetto Incroci, tra inclusione sociale, sensibilizzazione e ricerca, l’intervista a Flavio Cortellazzi, direttore artistico di Teatro Magro e curatore di uno dei progetti. Contenuto in media partnership.

Il progetto Incroci, il cui capofila è Teatro Magro di Mantova, in partenariato con Asinitas Onlus di Roma e Progetto Amunì-Babel di Palermo, grazie al sostegno di Fondazione Alta Mane Italia, intende attivare linee di inclusione sociale, sensibilizzazione e ricerca attraverso le arti performative. Da marzo a ottobre le attività riguarderanno tre progetti laboratoriali (condotti da Flavio Cortellazzi, Fabiana Iacozzilli e Giuseppe Provinzano), l’incontro tra i diversi gruppi in fase creativa e durante le presentazioni al pubblico, l’ideazione di tre giorni di riflessione con la Migra.Art Lab.Conferance che si terrà presso il Teatro Biblioteca Quarticciolo. Teatro e Critica, media partner del progetto Incroci, accompagnerà le realtà coinvolte in una serie di approfondimenti e interviste durante tutto il processo di ricerca, attraversando le pratiche creative degli artisti e dei gruppi coinvolti, gli incontri di scambio, le presentazioni, gli interventi.
L’intervista a Flavio Cortellazzi, fondatore e direttore artistico  e alla guida del gruppo di Teatro Magro.

Flavio Cortellazzi. Foto di Giuseppe Gradella

Flavio, hai fondato Teatro Magro più di 30 anni fa, quali sono state le tappe più importanti di questo percorso?

Nel 1988 abbiamo creato l’Associazione, si trattava di un gruppo che faceva teatro in modo non professionistico, solo nel ’99 assieme ad altre sei persone abbiamo aperto una cooperativa, quel momento ha rappresentato uno scatto importante. Anche prima era fatto molto seriamente, ma alcuni componenti erano molto giovani, solo nel tempo hanno deciso che il teatro poteva essere il loro lavoro.  È stata una decisione importante!

Un’altra tappa riguarda “Scena Prima”, in Lombardia; durante l’edizione d’esordio fummo scelti tra più di 150 compagnie assieme ad altre 5 e andammo al CRT di via Dini a fare il nostro testo Fai un salto fanne un altro fai una giravolta, falla; facciamo una settimana di repliche e Sisto Dalla Palma si propone di produrre lui il prossimo spettacolo di Teatro Magro. Io rispondo negativamente e ce ne torniamo a Mantova. Perché ho detto quel no? Perché non siamo mai stati una compagnia di giro, ma eravamo un gruppo teatrale e sia allora che adesso lavoravamo principalmente sul territorio, volevamo essere un’entità che metteva delle radici molto profonde là dove abitava. Essere prodotti da un teatro milanese significava disgregarsi. Difatti al posto nostro Dalla Palma produsse un’altra compagnia che dopo tre anni si sciolse dando vita ad altre formazioni. Noi siamo rimasti uniti; adesso che sono passati più di vent’anni, coloro che hanno costituito la cooperativa prendono anche delle strade autonome ma poi ritornano sempre a Teatro Magro, ogni produzione passa da qua.

Altra caratteristica fondamentale è il grande ricambio generazionale, perché ragazzi che hanno fatto i laboratori permanenti da almeno 5/6 anni sono diventati soci della cooperativa e lavorano con noi stabilmente.

 

Foto Teatro Magro

Il vostro è un esempio virtuoso di una realtà che non rinuncia alla propria identità artistica ma che allo stesso non si dimentica della parte organizzativa…

Noi abbiamo avuto sempre un approccio almeno al 50% “aziendale”, noi pensiamo che per pagare i dieci stipendi bisogna far quadrare i conti, viaggiare, lavorare, quindi di ogni lavoro facciamo il preventivo e il consuntivo, stimiamo le ore che servono, se andiamo in eccesso le compensiamo… Per noi è fondamentale far quadrare bilanci, calendari, attività. Insomma, ci diamo delle regole molto ferree altrimenti non saremmo in piedi da 20 anni in una città come Mantova, che comunque non è in grado di offrire quanto potrebbe un centro come Milano.

In una città piccola devi stare attento a non esporti troppo.  Sicuramente Festivaletteratura [importante manifestazione culturale mantovana dal 1997, ndr] è stata fondamentale per noi, ancora adesso catalizza una grande attenzione. Abbiamo fatto 8 edizioni su 22; alla prima volta abbiamo avuto un grande exploit di conoscenze nonostante fossimo in azione da tanti anni in zona, tuttavia l’anno dopo ci dissero “basta” perché avevano già dato troppa attenzione a Teatro Magro. Lavoriamo molto in provincia e all’estero, soprattutto per via del settore aziendale che coltiviamo da parecchi anni. Facciamo performance per il lancio di un nuovo prodotto di aziende come Sartoria Armani, Pianegonda Gioielli, Tre… si tratta di qualcosa che è nata per caso, ma adesso ci spostiamo dappertutto.

Foto Teatro Magro

Noi non facciamo animazione teatrale o public speaking; la formazione aziendale cerchiamo di centellinarla perché sono già in tantissimi a farla, abbiamo delle imprese affezionate che ce la chiedono, ma cerco di rifuggire questo ambito. Ci tengo a dire che il nostro modo di fare “performance for business” è senza compromessi: è il mio progetto che deve essere condiviso dalle aziende, altrimenti ognuno per la sua via, io continuo a fare teatro e loro a lanciare nuovi prodotti. Ciò mi dà la garanzia che questo non sia un lavoro “solo per i soldi”, ma artisticamente valido. C’è un grandissimo dispendio di energie, anche perché ogni volta viene creato un progetto ad hoc, ci spostiamo molto sia in Italia che all’estero e dunque i nostri performer devono sapere almeno tre o quattro lingue, ci capita di andare nelle fiere a Londra, Francoforte, Parigi, Dubai, Hong Kong, le performance non sono mica sempre in italiano.

Giriamo meno sulle repliche degli spettacoli: non accettiamo gli scambi, non sono mai entrato in quella logica su cui si basa tanta produzione italiana, anche perché non mi piace che a girare siano sempre gli stessi nomi; se uno spettacolo mi piace lo compro, ma non pretendo che l’altro si senta obbligato a prendermi, mi sembra una logica insopportabile. Sì, abbiamo fatto diverse tappe a Kilowatt, Opera Prima Rovigo, Volterra, al Piccolo di Milano, adesso andremo a Santarcangelo, ma non all’interno delle stagioni… forse non spendiamo troppo nel venderci ma non è il nostro focus.

Invece, un altro aspetto sul quale ci spendiamo molto è quello sociale.

Foto Teatro Magro

Ci racconteresti allora la diversità di approccio nei diversi contesti creativi all’interno dei quali porti avanti i tuoi progetti legati alla socialità, al disagio, al business?

Se l’aziendale avesse una piccolissima percentuale di sociale e viceversa andrebbe tutto molto meglio! Noi all’interno del nostro lavoro cerchiamo sempre di metterlo in pratica; per esempio, nelle performance aziendali ho sempre portato un ballerino non udente ma che era talmente bravo che l’azienda non poteva far altro che accettare. Sono due mondi che dovrebbero parlarsi maggiormente, nel rispetto l’uno e dell’altro e viceversa.

Ho lavorato a Bucarest per 12 anni nella formazione teatrale dei ragazzi di Miloud Oukili [artista circense e pedagogo honoris causa che dal 1992 lavora per l’associazione Handicap International in Romania occupandosi di arti e disagio, ndr], anche se loro facevano circo. Sono riuscito negli anni a far sì che loro vendessero performance alle aziende rumene; dalla strada, quindi con un profilo contrattualistico poco allettante, sono riusciti a interfacciarsi con diverse grandi multinazionali;  per me questo è stato un grandissimo risultato.

Come lavoro sul sociale? È molto strano: il mio rapporto con gli attori di solito è “poco amichevole”, nel senso che credo l’amicizia non faccia molto bene al mondo teatrale, mentre nel campo sociale non vi puoi prescindere. Per esempio, nel caso di Incroci, io ho parlato e parlo tantissimo con i ragazzi, con gli attori parlo poco, parto dall’ignoranza; in questo caso no, non voglio che ci siano fraintendimenti, voglio che ci sia una grandissima chiarezza, che ci sia uno scambio intellettuale e quindi mi trovo in una posizione opposta da quella solita. Sono due partenze differenti.

Teatro Magro. Foto Lucia Medri

A che punto sei con il progetto Incroci, quali peculiarità presenta il tuo lavoro?

Abbiamo il debutto il 19 e il 20 giugno, dunque siamo assolutamente a compimento, abbiamo ancora quattro incontri e le prove generali, ma lo spettacolo c’è tutto, ora è tutto un lavoro di cesello, va solo ottimizzato rispetto ai tempi, un aspetto che curo molto. Lo spettacolo è nato su stimolazioni che io lanciavo ogni volta e, dalle discussioni che ne nascevano, venivano fuori i temi di improvvisazioni che poi portavano dei frutti, ovvero testi che a volte erano anche solo registrati, solo poi riportati come battute. A volte i  temi sono partiti anche da provocazioni, questioni come  “credere che la natura sia un test”, o “che per essere diversi basti essere in due”, oppure chiedevo loro di definire quale fosse “l’indice di povertà”, una domanda scomoda perché non lo sa nessuno, e proprio per questo venivano fuori delle questioni molto interessanti.

Chiaramente sono partito dal mio argomento che era “il futuro”, e sono partito da una serie tv, Visitors, del 1984; l’ho fatta vedere loro (anche i ragazzi che sono con me da tanto tempo ne avevano solo sentito parlare) e da lì sono nati tanti spunti. Djallo, uno dei ragazzi in scena, si è domandato se quanto aveva visto non fosse accaduto sul serio! Per me anche quello stimolo era molto interessante, ci sono dei riferimenti ma non abbiamo voluto assolutamente scimmiottare la serie tv, abbiamo scelto di interrogarci su nostre idee.

Foto Teatro Magro

Rispetto al gruppo dei ragazzi, che sono da una parte migranti appartenenti al territorio e dall’altra dei giovani attori che lavorano con voi da parecchio tempo, come si sono relazionati i ragazzi tra di loro? Come si sono incontrate le diverse pratiche?

Io ho tre gruppi permanenti che si chiamano “Carni scelte” di cui il più avanzato del venerdì sera fornisce i nostri performer che adesso sono anche nostri soci perché sono con noi da 7/8 anni. Ho scelto tra loro quei ragazzi che secondo me sarebbero stati i più idonei a questo lavoro. Hanno accettato tutti. È stato interessante per loro riuscire ad annullarsi in scena per non prevaricare chi aveva meno esperienza e a non far emergere le tecniche acquisite. Ne è emersa l’esigenza di dare più spazio a tutti quegli elementi che all’interno di un processo professionale possono essere accantonati, come il rapportarsi con l’altro in primis come persona, e successivamente come attore.

Mentre per i ragazzi richiedenti asilo è stato molto  trainante la presenza degli altri, vedere e affidarsi a chi improvvisa e si butta senza timore li ha portati a fare lo stesso; certo, anche in loro c’era un grande entusiasmo ma non era focalizzato. Non era scontato portare avanti una produzione in 4 mesi per chi non ha mai fatto teatro, onestamente avevo paura dei tempi ma lavorando in questa maniera il processo si è ottimizzato. Adesso sono diventati molto amici, fanno cose insieme, in altri progetti questo atteggiamento non esiste. L’entità del progetto Incroci ha fatto sì che questa condivisione avvenisse anche con i gruppi di Palermo e Roma.

Foto Teatro Magro

Se tu dovessi individuare dei tuoi maestri, a chi penseresti?

Secondo me, e non solo nell’ambito del sociale, penso che ciascuno di noi sia un equilibrio di grazie e disgrazie. Il mondo non è altro che una successione di meraviglie e orrori e il teatro questa cosa la evidenzia, la mette in risalto e la tiene sotto controllo.

Non è una domanda che mi convince molto. Per me il teatro è la forma artistica più completa però attinge anche dalle altre arti; se dovessi farti dei nomi ti direi prima di tutto Rembrandt, del cinema Andrej Tarkovskij, Bela Tarr, tra gli scrittori Carver, Pessoa, nel campo della musica i Coil, gli Einstürzende Neubauten… per il teatro penso a Kantor e Nekrosius, mi piace molto quel clima.

Anche la mia formazione in parte risponde a quella mia percezione, per esempio io non ho finito la Paolo Grassi, ho spaziato tanto, ho lavorato tanto, però non credo nelle scuole; non mi interessa come una scuola ti plasma, la mia è una visione panottica dell’arte, magari è più interessante fare un corso intensivo sulle arti visive ma poi metterlo a frutto nel lavoro teatrale. Spesso non parto dai testi bensì da immagini, da musiche, dal cinema, è naturale che i miei maestri vengano da lì.

Redazione

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