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Teatrosofia #108. L’enigma apparente del finale del Simposio

Teatrosofia #108. Quale interpretazione dare all’enigma che è il finale del Simposio di Platone? Un’indagine

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Narciso, 1594-1596, Olio su tela, 110 x 92 cm, Roma, Palazzo Barberini

 

 

 

 

 

 

 

 

I dialoghi di Platone sono perlopiù concordi nel negare che il teatro sia un’arte mimetica di natura razionale. L’Apologia di Socrate, lo Ione con il suo famoso paragone del rapsodo con la calamita, il Fedro e il libro III della Repubblica sostengono, da un alto, che i tragici, i comici, i rapsodi e gli attori non sanno nulla di ciò di cui parlano, persino quando dicono qualcosa di bello e giusto, né compongono o recitano un componimento poetico per una tecnica razionale e consapevole. Se essa esistesse, infatti, l’individuo conoscerebbe l’intero ambito della creazione poetica, o eccellerebbe in tutti i generi della poesia, il che invece è contro l’evidenza empirica. I tragici bravissimi non sanno comporre commedie mediocri, i rapsodi recitano benissimo Omero ma sono pessimi nel mettere in scena Euripide che gli attori drammatici invece sanno rappresentare egregiamente, e viceversa. Dall’altro lato, questi dialoghi sostengono che i poeti e gli interpreti teatrali fanno quel che fanno in virtù di un’ispirazione divina. Essi non hanno alcun controllo sulle loro creazioni o recitazioni: sono il tramite di una divinità sapiente che li riempie, per un attimo privilegiato, di conoscenza.

Tale quadro unitario sembra però scontrarsi con il finale del Simposio di Platone, che è considerato essere un “enigma”. Tutta l’atmosfera è in effetti rarefatta, onirica quasi. Impastato di sonno e stordito dalla luce dell’alba, il personaggio di Aristodemo dice di aver orecchiato un ragionamento di Socrate che costringe il tragico Agatone e il comico Aristofane a convenire che chi ha l’arte mimetica sa comporre sia la tragedia che la commedia: esattamente quello che è negato nei dialoghi sopra citati. L’enigma consiste, dunque, nella domanda seguente: perché Platone chiude il Simposio con questo discorso orecchiato solo a metà? Gli studiosi hanno dato disparati tentativi di soluzione, ma mi pare che tre siano quelli più promettenti.

Si può anzitutto supporre che il Simposio parli dell’imitazione in generale, mentre questi altri dialoghi delle sue specializzazioni. Platone direbbe, in sostanza, che chi è imitatore o un poeta di teatro può comporre sia tragedia e commedia, o recitare versi omerici e i testi drammatici, ma deve scegliere in cosa eccellere e su cosa concentrarsi per tutta la vita. Ogni drammaturgo e attore sa fare in potenza tutto, però può tradurre in atto ai massimi livelli solo una delle tante branche mimetiche, seguendo la propria ispirazione.

Una seconda soluzione consiste nell’ipotizzare che il finale del Simposio alluda a uno speciale genere di imitazione: la scrittura del dialogo filosofico, che si avvale di mezzi sia comici che tragici per indurre il lettore a sposare una certa tesi. I dialoghi di Platone sarebbero perciò giochi pieni di serietà, che a volte presentano anzi una sintesi dolce-amara di riso e tragedia. Ne è un caso lampante il racconto della morte di Socrate del Fedone, dove al commovente atteggiamento del filosofo, che va incontro alla fine senza paura accettando l’idea che l’anima sia immortale, fanno da contrasto le domande ingenue e ridicole del discepolo Critone. Il Simposio sarebbe così incommensurabile agli altri dialoghi, perché teorizza l’unica forma di scrittura poetica che procede per arte e consente di unire gli opposti della tragedia/commedia, appunto il dialogo platonico. A questa pur ingegnosa soluzione del dialogo osta, però, l’assenza di qualunque appiglio testuale interno. La sintesi di Aristodemo della conversazione tra Socrate, Agatone, Aristofane sottolinea anzi con evidenza che il focus è sull’arte del tragediografo e del commediografo. Sarebbe allora molto forzato vedere un riferimento al dialogo platonico.

La terza soluzione insiste sulla dimensione drammatica del dialogo, rilevata già da Erodico di Babilonia, Plutarco, Macrobio. Forse Aristodemo non espone la conclusione del ragionamento di Socrate sulla poesia nella sua interezza, ma riferisce un ragionamento troncato. In dialogo con un Aristofane e un Agatone assonnati, che fanno fatica a seguire con precisione il discorso, il filosofo fa in tempo solo a indurre ai suoi interlocutori ad accettare che, se esiste un’arte drammatica, allora questa deve permettere al suo possessore di saper scrivere tanto le tragedie, quanto le commedie. Non fa invece in tempo a passare alla seconda parte del ragionamento, come invece riesce a fare negli altri dialoghi, ossia alla dimostrazione che questa tecnica non esiste e che sia Aristofane che Agatone eccellono nel loro ambito espressivo in virtù dell’ispirazione. I due interlocutori si addormentano infatti prima che si possa fare questo scarto dialogico. Il limite di tale soluzione è che essa spoglia il finale del Simposio della sua enigmaticità e di una valenza filosofica forte.

Nessuna delle tre proposte esegetiche ha più ragione di imporsi sulle altre. Detto ciò, propenderei più per la terza lettura, perché si adatta meglio a mettere in risalto la lode del personaggio di Socrate del Simposio, iniziato col discorso di Alcibiade. Quest’ultimo sottolinea la capacità del filosofo di dedicarsi all’attività del pensiero e dell’indagine a ogni costo, di portare a termine un ragionamento che è stato iniziato a dispetto delle circostanze più avverse: freddo, sonno, fame, pericolo e guerra. Il finale del Simposio non fa che esaltare ancora una volta tale unicum di Socrate: il suo eros fortissimo per la conoscenza. Pur avendo bevuto molto ed essendo assonnato, egli è il solo animato dal bisogno erotico di conoscere l’essenza dell’arte drammatica, seguito da Agatone, che si addormenta per secondo, e da Aristofane, che cade nel sonno per primo.

Se questa interpretazione è corretta, ne seguirà che il dialogo ha insieme qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto all’Apologia di Socrate, allo Ione, al Fedro e al libro III della Repubblica. A livello dottrinale, il Simposio è per così dire una conversazione “monca”. Chi leggesse solo finale del testo riceverebbe un’immagine distorta della concezione platonica dell’arte drammatica, che invece gli altri dialoghi spiegano nel dettaglio. Sul piano formale e drammatico, invece, il Simposio è una sottile messa in scena del comportamento dell’uomo esemplare che è Socrate – il vero filosofo che nemmeno il sonno riesce ad arrestare nella sua indomita ricerca della conoscenza.

Enrico Piergiacomi

——————————

Ebbene, o cittadini ateniesi, – a voi devo pur dire la verità, – questo fu, ve lo giuro, il risultato del mio esame: coloro che avevano fama di maggior sapienza, proprio questi, seguitando io la mia ricerca secondo la parola del dio, mi apparvero, quasi tutti, in maggior difetto; e altri, che avevano nome di gente da poco, migliori di quelli e più saggi. Ma voglio finire di raccontarvi le mie peregrinazioni e le fatiche che sostenni per persuadermi che era davvero inconfutabile la parola dell’oracolo. Dopo gli uomini politici andai dai poeti, sì da quelli che scrivono tragedie e ditirambi come dagli altri; persuaso che davanti a costoro avrei potuto cogliere sul fatto la ignoranza mia e la loro superiorità. Prendevo in mano le loro poesie, quelle che mi parevano le meglio fatte, e ai poeti stessi domandavo che cosa volevano dire; perché così avrei imparato anch’io da loro qualche cosa. O cittadini, io ho vergogna a dirvi la verità. E bisogna pure che ve la dica. Insomma, tutte quante, si può dire, le altre persone che erano presenti, ragionavano meglio esse che non i poeti su quegli argomenti che i poeti stessi avevano poetato. E così anche dei poeti in breve conobbi questo, che non già per alcuna sapienza poetavano, ma per non so che naturale disposizione e ispirazione, come gl’indovini e i vaticinatori; i quali infatti dicono molte cose e belle, ma non sanno niente di ciò che dicono: presso a poco lo stesso, lo vidi chiarissimamente, è quello che accade anche dei poeti. E insieme capii anche questo, che i poeti, per ciò solo che facevano poesia, credevano essere i più sapienti degli uomini anche nelle altre cose in cui non erano affatto. Allora io mi allontanai anche da loro, convinto che ero da più di loro per la stessa ragione per cui ero da più degli uomini politici (Platone, Apologia di Socrate, passo 22a1-c8; trad. Giannantoni)

Non è un’arte da parte tua parlare bene di Omero, come dicevo poco fa, ma una forza divina è quel-la che ti muove, come nella pietra che Euripide chiamò Magnete, i più invece Eraclea. E infatti que-sta pietra non solo attrae gli anelli, essi stessi di ferro, ma infonde anche una forza in essi, tale che a loro volta possano esercitare lo stesso potere della pietra: attrarre altri anelli. E cosi talvolta si forma una catena davvero lunga di anelli di ferro, che dipendono gli uni dagli altri; ma è da quella pietra che dipende per ognuno la forza. Nello stesso modo, anche la Musa rende, essa stessa, ispirati; poi, tramite questi ispirati, si forma una catena di altri presi da entusiasmo. Infatti tutti i poeti epici, quel-li bravi, non per arte, ma perché ispirati e posseduti recitano tutti quei bei poemi, e lo stesso i poeti melici, quelli bravi: come coloro che partecipano ai riti coribantici non danzano quando sono in senno, cosi anche i poeti melici non compongono, in senno, i loro bei canti, ma non appena muovo-no un passo seguendo l’armonia e il ritmo sono presi da furore bacchico e posseduti. Come le Bac-canti attingono miele e latte dai fiumi quando sono possedute, ma non quando sono in senno, così fa anche l’anima dei poeti melici, come essi stessi dicono. Infatti i poeti ci dicono proprio che, dopo aver attinto i loro canti da fonti che fanno colare miele, in certi giardini e valli boscose delle Muse, a noi li portano come le api, anch’essi a volo. E dicono la verità. Cosa leggera, infatti, è il poeta e alata e sacra, e incapace di poetare prima di essere ispirato e fuori di senno, la mente non più in lui. Fintanto che ne mantenga il possesso, a ogni uomo è impossibile comporre versi e dare oracoli. Poi-ché, dunque, non per arte poetano e dicono molte belle cose sui loro argomenti, come fai tu su Omero, ma per sorte divina, ognuno è capace di comporre bene solo ciò a cui la Musa lo spinge –chi ditirambi, chi encomi, chi iporchemi, chi poemi epici, chi giambi – mentre negli altri ciascuno di loro è mediocre. Non per arte, infatti, dicono queste cose, ma per una forza divina, poi-ché, se sapessero parlare bene per arte di una cosa, saprebbero parlare bene anche di tutte le altre. Per questa ragione il dio, togliendo loro la mente, li usa come servitori, come coloro che danno gli oracoli e i profeti, quelli divini: perché noi ascoltatori possiamo sapere che non sono costoro a dire cose di così alto valore, privi come sono della mente, ma è il dio stesso che parla e tramite loro esprime parole per noi (Platone, Ione, passo 533d1-534d4; trad. Cappuccino)

V’è una terza forma di esaltazione e delirio, di cui sono autrici le Muse. Questa, quando occupa un’anima tenera e pura, la sollecita e la rapisce nei canti e in ogni altra forma di poesia, e celebrando le infinite opere del passato, educa i posteri. Ma chi giunga alle soglie della poesia senza il delirio delle Muse, convinto che la sola tecnica lo renda poeta, sarà un poeta incompiuto e la poesia del savio sarà offuscata da quella dei poeti in delirio (Platone, Fedro, passo 245a1-8; trad. Giannantoni)

Tanto meno dunque potrà dedicarsi ad un’occupazione degna di nota e al tempo stesso imitare molte cose con abilità mimetica, se è vero che uno stesso poeta non è capace di praticare bene i due tipi di imitazione che sembrano esser vicini tra loro, cioè di comporre insieme tragedie e commedie. Non le chiamavi poco fa entrambe imitazioni?”. “Io sì: e dici il vero, una stessa persona non ne è capace”. “E neppure di fare insieme il rapsodo e l’attore”. “Vero”. “Ma vedi, neanche gli stessi attori recitano sia commedie sia tragedie; eppure si tratta sempre di imitazioni, o no?”. “Imitazioni”. “E mi pare, Adimanto, che la natura dell’uomo sia frazionata in spiccioli ancora più piccoli di questi, sì che è incapace di imitare bene molte cose o di fare quelle cose stesse che le imitazioni appunto copiano”. “Verissimo” egli disse. “Se dunque vogliamo salvaguardare la premessa del discorso, che i nostri difensori, esentati da ogni altro servizio, debbano essere rigorosi artefici della libertà della città senza dedicarsi ad alcun’altra occupazione che non conduca ad essa, allora niente altro dovrebbero fare né imitare (Repubblica, libro III, passo 394e8-395b6; trad. Vegetti)

Raccontava quindi Aristodemo che Erisimmaco, Fedro e alcuni altri se ne andarono via e lui invece fu preso dal sonno e dormì davvero molto, perché le notti erano lunghe, e si svegliò quando era quasi giorno e i galli cantavano. Disse che, appena si tirò su, vide che tutti gli altri dormivano o se n’erano andati e solo Agatone, Aristofane e Socrate erano ancora svegli e bevevano da una grande coppa passandola verso destra. Socrate dialogava con loro. E per il resto Aristodemo raccontò di non ricordarsi dei loro discorsi – infatti non li aveva seguiti dall’inizio e poi cascava dal sonno – ma la conclusione, disse, era questa: Socrate li costringeva a convenire che è dello stesso uomo l’essere capace di creare commedia e tragedia e chi è tragediografo per arte è anche commediografo. Loro due, costretti a convenire su questi argomenti e incapaci di seguire con precisione, cascavano dal sonno, e per primo si addormentò Aristofane e, quando ormai era giorno, Agatone. Socrate invece, dopo averli fatti addormentare, raccontava Aristodemo che si alzò e se ne andò e lui lo seguì, come al solito. Disse che andò al Liceo e, dopo essersi lavato, come altre volte trascorse il resto della giornata, finché verso sera tornò a casa a riposare (Platone, Simposio, passo 223b6-d12; trad. Nucci)

Ebbe appena finito che Critone gli chiese: «Hai da darci qualche disposizione, Socrate, sui tuoi ragazzi o cosa possiamo fare per te, che ti sia maggiormente gradita?». «Non ho nulla di nuovo da dirvi,» rispose, «se non quello che vi ho sempre detto: abbiate cura di voi stessi e così farete cosa gradita a me e a voi, anche se ora non mi dovete promettere nulla; se, invece, vi lascerete andare, se non sarete disposti a seguire, per così dire, le tracce di quanto s’è detto, non solo ora ma anche per il passato, se pure adesso venite a farmi molte e solenni promesse, non concluderete un bel niente». «Ce la metteremo tutta a far come tu dici,» assicurò. «Ma per i tuoi funerali, che dobbiam fare?». «Ma fate come volete, sempre che riusciate ad afferrarmi e che io non vi sfugga». Sorrise serenamente e volgendo gli occhi verso di noi, soggiunse: «Non mi riesce, amici, di persuadere Critone che il vero Socrate sono proprio io, questo che, ora, vi sta parlando, che sta mettendo in buon ordine, per benino, i suo pensieri; invece, egli crede che io sia già un altro, quello che tra poco vedrà cadavere e perciò mi chiede cosa fare per i miei funerali. E tutto il lungo discorso che vi ho fatto, che cioè, dopo che ho bevuto il veleno, io non me ne starò più con voi ma me ne andrò, via di qui, verso la felicità dei beati, mi pare proprio che per lui sia stato inutile, fatto solo per consolare voi e, a un tempo, un po’ anche me stesso. Fatevi voi, ora, garanti di me verso Critone, ma del contrario di ciò che in mio nome egli garantì ai giudici, che cioè non sarei fuggito; voi, invece, assicurategli che io non rimarrò qui dopo morto ma che me ne partirò, così che Critone potrà sopportare più facilmente la cosa e non dolersi troppo per me vedendo bruciare o seppellire il mio corpo, come se stessi soffrendo chissà quali atroci tormenti e non dire, magari, durante i funerali che è il suo Socrate che egli espone, che sta portando via e che va a seppellire. Devi, infatti, sapere, mio caro Critone, che parlare in modo scorretto, non solo è brutto di per sé ma danneggia anche le anime. Suvvia, non avere, di queste preoccupazioni, quindi e di’, piuttosto, che è solo il mio corpo che seppellisci e perciò fa come credi, come meglio vuole l’usanza» (Platone, Fedone, passo 115b1-116a1; trad. Giannantoni)

In questo caso Platone voleva introdurre un elemento comico e buttarla nel ridicolo – allo stesso modo fa il verso alla simmetria delle frasi, e alle antitesi di Agatone, e mette in scena Alcibiade che confessa il suo desiderio di essere sessualmente passivo (Erodico di Babilonia, Contro gli adulatori di Socrate, fr. 3 Düring = Ateneo, I sofisti a banchetto, libro V, § 12; trad. Canfora)

E Platone? Inserisce nel suo Simposio il discorso di Aristofane sull’amore, come una scena di commedia e, verso la fine, spalancata la porta che dà all’esterno, fa entrare – spettacolo tra i più bizzarri – Alcibiade ubriaco e incoronato, che canta e danza come in una processione bacchica; poi la schermaglia con Socrate a proposito di Agatone e l’elogio di Socrate. O Grazie mie care, è forse sacrilego dire che, se in quel simposio fosse giunto Apollo in persona con la lira accordata, i presenti avrebbero pregato il dio di attendere che il discorso si sviluppasse fino alla sua conclusione? Ebbene, – continuò – se quei famosi personaggi, che possedevano tale fascino nella conversazione, nondimeno si interrompevano con questi intermezzi e animavano i simposi con divertimenti del genere, noi, che ci ritroviamo insieme a politici e uomini d’affari, e, quando così capita, insieme a molti privati cittadini e a persone ancora più rozze, dovremmo bandire un così piacevole intrattenimento dai simposi o andarcene via, come se fuggissimo all’avvicinarsi di Sirene? (Plutarco, Quaestioni conviviali, libro VII, passo 710C6-D10; trad. Lelli)

Questo nostro banchetto riunisce in sé la pudica semplicità dei tempi eroici e la raffinatezza squisita della nostra età: vi si riscontra sobrietà nel lusso e parsimonia nella ricercatezza; non esiterei a paragonarlo, anzi a preferirlo, al banchetto di Agatone, nonostante la splendida eloquenza di Platone. Il nostro anfitrione non è certo inferiore a Socrate per la sua condotta nella vita privata., e nella vita pubblica è utile allo stato più di quel filosofo; voi altri tutti qui presenti siete troppo insigni nella ricerca delle virtù perché vi si ritenga paragonabili ai poeti comici e ad Alcibiade, che dimostrò fortezza solo nel crimine, e agli altri partecipanti di quel banchetto (Macrobio, Saturnali, libro II, cap. 1, §§ 2-3; trad. Marinone)

Aveva preso a meditare su qualcosa e si era fermato in piedi fin dall’alba nello stesso posto a riflettere, e siccome la cosa non gli riusciva, non lasciava perdere e rimaneva fermo in piedi a indagare. Era ormai mezzogiorno e gli uomini se ne accorgevano e meravigliati si dicevano l’un l’altro che Socrate fin dall’alba era fermo in piedi a pensare. Alla fine alcuni Ioni, quando fu sera, dopo aver cenato (e infatti in quel periodo era estate), portati fuori i loro giacigli, si misero a riposare al fresco e intanto lo sorvegliavano, per vedere se sarebbe rimasto in piedi anche di notte. E lui restò lì fermo in piedi finché arrivò l’alba e sorse il sole. Allora se ne andò via, dopo aver rivolto la sua preghiera al sole (Platone, Simposio 220c3-d5; trad. Nucci)

[Si riportano di seguito le traduzioni e le raccolte usate:

  • Carlotta Capuccino, Filosofi e rapsodi: testo, traduzione e commento dello Ione platonico, Bologna, CLUEB, 2005;

  • Emanuele Lelli (a cura di), Plutarco: Tutti i moralia, Milano, Bompiani, 2017;

  • Gabriele Giannantoni (a cura di), Platone: Opere, 2 voll., Roma-Bari, Laterza, 1974;:

  • Ingemar During (ed.), Herodicus the Cratetean, New York-London, Garland, 1987;

  • Luciano Canfora (a cura di), I deipnosofisti: i dotti a banchetto, 4 voll., Roma, Salerno, 2001;

  • Nino Marinone (a cura di), Ambrogio Teodosio Macrobio, I Saturnali, Torino, UTET, 1987;

  • Mario Vegetti (a cura di), Platone. La Repubblica: Vol. 2, Napoli, Bibliopolis, 1998;

  • Matteo Nucci (a cura di), Platone. Simposio, Torino, Einaudi, 2009]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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