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HomeArticoliSenza laboratori, la crisi dei piccoli teatri. A Caserta il Civico 14

Senza laboratori, la crisi dei piccoli teatri. A Caserta il Civico 14

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Intervista a Teatro Civico 14 con due esponenti della direzione collettiva, Napoleone Zavatto e Roberto Solofria.

Teatro Civico 14 è anche uno spazio polifunzionale. Oltre al cartellone e alla sala per gli spettacoli, include postazioni di coworking e aule per la formazione e i laboratori. Nato nel 2009 in un locale di cinquanta posti nel centro storico di Caserta, dal 2016 si trasferisce all’interno dello Spazio X con l’intento di ampliare il proprio potenziale e la propria gittata d’azione come centro di offerta culturale sul territorio. Secondo l’espressione “direzione collettiva” è gestito da Mutamenti, cooperativa di sei persone (Roberto Solofria, Ilaria Delli Paoli, Rosario Lerro, Antonio Buonocore, Luigi Imperato, Napoleone Zavatto) con profili specifici e competenze diverse. Abbiamo provato a capire con Napoleone Zavatto e Roberto Solofria quali conseguenze ha avuto e avrà il blocco dei mesi scorsi o quali prospettive si aprono con la ripartenza per una simile realtà.

In che momento, rispetto al vostro percorso artistico e come spazio, è arrivato il fermo?

N. Z.: Questo era l’anno di conferma delle nostre attività. Ci siamo trasferiti nel 2016 in un nuovo spazio, più grande. Dopo il primo anno, un anno zero, dopo i successivi due di rielaborazione, questo avrebbe dovuto essere quello di consolidamento della nostra crescita. Oltre al passaggio da quaranta a ottanta posti, abbiamo un coworking, un’aula di formazione e un’altra per la gestione della didattica sia frontale che del corpo. Non essendo solo un teatro, quest’anno avrebbe dovuto esplodere anche tutto il resto e al massimo della volontà di espressione ci siamo trovati a chiudere. Non l’abbiamo presa bene e abbiamo deciso di non fare attività durante il lockdown. Soprattutto nella prima fase, in cui tutti provavano a inventarsi qualcosa, ci siamo limitati a un’attività di servizio via social alla nostra comunità di riferimento. È stata una reazione di pancia: immaginarci di essere utili per la comunità più che per il teatro stesso, perché lo spettacolo ci piace farlo dal vivo.

La didattica e i vostri percorsi laboratoriali a che punto sono?

R. S.: Abbiamo sei laboratori e ottanta allievi: i bambini delle scuole elementari, i ragazzi delle scuole medie e superiori divisi in “base” e “avanzato”, e poi tre corsi di adulti, la maggior parte dei quali sino ai trent’anni. Il fermo della didattica è stato quello più traumatico. Il laboratorio è la nostra principale fonte di sussistenza, interromperlo significa bloccare gli introiti più alti che abbiamo. La stagione è importante, ci consente di rientrare nel FUS, nella legge regionale, ma gli stipendi li paghiamo con i laboratori. Senza smettere di seguire i gruppi, abbiamo restituito le rette di marzo, aprile, maggio e giugno offrendo tre opzioni. Tra chiedere il rimborso, donare la propria quota o “congelarla” le scelte si sono equiparate. Stiamo approntando un podcast con i ragazzi dell’intermedio e preparando dei monologhi con quelli del primo anno, mentre con gli allievi del corso avanzato mettiamo in video Novecento di Baricco. Sono però palliativi, non attività laboratoriale vera e propria, non sappiamo nemmeno se l’anno prossimo perderemo molte persone. Avremmo potuto riaprire i laboratori il 15 giugno, ma rimandiamo a ottobre per capire come. Non sapere se le restrizioni e le condizioni saranno quelle odierne rende difficile anche immaginare spese o adeguamenti. Oggi dovremmo riaprire con sei o otto persone: per un corso da venti o ventiquattro significherebbe fare tre turni, impegnando e pagando il docente tre volte, senza però poter aumentare la retta agli iscritti. Una situazione davvero complicata in cui si trovano molti altri spazi. Aspettiamo e procediamo per ipotesi, come per la stagione teatrale. Tutto un forse, un avvicendarsi di voci, di prospettive che allo stato attuale delle cose restano tali.

N. Z.: C’era in programma un laboratorio con Massimiliano Civica e vi abbiamo dovuto rinunciare, nonostante la sua disponibilità a condurlo in condizioni altre. É difficile assumersi la responsabilità di decidere, l’incognita lascia perplessi, c’è un rischio e oggi non sappiamo se sia nostro o se invece dovremmo affidarci all’autocoscienza di chi partecipa. In più abbiamo una serie di regole per igienizzazione e distanziamento che comportano ulteriori difficoltà nell’immaginare come svolgere un’attività dal lunedì alla domenica (dal lunedì al venerdì uffici e formazione e nel fine settimana gli spettacoli). I costi di gestione diventano insostenibili per uno spazio di cento posti che può accogliere ottanta o novanta persone in una giornata: sanificare ogni volta per far entrare il pubblico, senza contare gli addetti al controllo e al rispetto delle norme. Con Luigi Imperato, uno dei soci, abbiamo fatto un unico esperimento di laboratorio a distanza, solo per gli ex allievi. Anche docenti come Roberto hanno partecipato per studiare questo modo di approcciare la didattica. Il mondo sta cambiando e siamo coscienti di avere bisogno di formarci per poi presentarci a un pubblico.

La percezione del rapporto con il territorio e la comunità sembrano diversi ora e in che modo? Cosa avete perso o guadagnato in questo tempo?

R. S.: Siamo sempre in contatto con i ragazzi dei laboratori, sappiamo che ci sono, c’è uno scambio, un’attesa di riprendere. Con il pubblico quasi per nulla, eccetto gli abbonati. Non sappiamo cosa succederà nel momento in cui riapriremo.

N. Z.: Dalla newsletter, quando abbiamo comunicato la sospensione delle attività, abbiamo ricevuto reazioni di rammarico o dispiacere, una ventina di persone su una media platea mensile di almeno duecento o duecentocinquanta. Una proporzione che spaventa presa come dato reale. Ma non lo è, molti in questo momento stanno vivendo delle difficoltà, ci rendiamo conto di essere necessari sul territorio, tuttavia restiamo un teatro.

Il rapporto con le amministrazioni locali: quali equilibri, aiuti o difficoltà state incontrando con le istituzioni in questo momento rispetto alla vostra dimensione di spazio teatrale e polivalente?

R. S.: Abbiamo la fortuna di essere in una “fascia protetta”. Siamo all’interno del FUS come organismo di programmazione e della Legge n.6 della Regione Campania come esercizio e come compagnia; in più abbiamo vinto il bando Residenze per artisti nei territori (afferente alla stessa legge, ma finanziato a parte) con il progetto Casa & Puteca. In qualche modo, almeno sulla carta, sembra si arriverà a una percentuale del finanziamento senza dover dimostrare tutta l’attività che avrebbe dovuto svolgersi, bensì solo l’importo del contributo. La Regione Campania si sta equiparando al Ministero perciò forse si orienterà verso un’anticipazione del trenta per cento, più bassa dell’ipotetico ottanta ministeriale. Ci ha certamente aiutati la possibilità di entrare in cassa integrazione da aprile. Presunta, perché l’INPS ha rifiutato la prima richiesta e abbiamo dovuto ripresentare la domanda per cui attendiamo una risposta. La società si è fatta carico della sua parte di busta paga: abbiamo quattro lavoratori a tempo indeterminato che hanno percepito solo il nostro venti percento per aprile e maggio, ma che nei fatti ancora aspettano la cassa integrazione. Poi c’è il bonus Fondo Perduto derivante dalla differenza tra i fatturati mensili del 2019 e del 2020, un’altra piccola boccata d’ossigeno. Avremmo potuto accedere a un bonus per il fitto, però abbiamo dei santi come proprietari che ci hanno concesso una riduzione straordinaria all’inizio di questo periodo.

N. Z.: A livello nazionale abbiamo un buon riscontro, accolto da noi con immensa gioia. Roberto ogni mattina si prende la briga di studiare l’aspetto amministrativo per poi declinarlo nella nostra attività. Non si tratta solo di un teatro, è anche una piccola azienda che ha bisogno della sua identità amministrativa. Per una struttura che quest’anno ha festeggiato i suoi dieci anni è veramente tanto: una realtà artistica, ma anche una realtà imprenditoriale di dieci anni. La fortuna di poter avere oggi qualche aiuto dipende da questo lavoro.

Nonostante le sospensioni, le ipotesi e le tante, ancora troppe, proiezioni, nonostante le variabili che ne derivano, quali iniziative o prospettive di collaborazione con altre realtà avete in campo?

R. S.: Il Teatro Pubblico Campano ha finanziato un progetto per sei compagnie di teatro ragazzi iscritte all’Artec, che insieme costruiscono un cartellone per altrettanti comuni della regione. Stiamo collaborando con La Mansarda, I Teatrini, La Baracca dei Buffoni, Eidos e Magazzini di Fine Millennio. Con La Mansarda stiamo pensando pure a qualcosa in settembre a Caserta Vecchia. Siamo stati presi soprattutto dal debutto di Rua Catalana al Napoli Teatro Festival. Tre testi catalani di autori diversi, tradotti da Enrico Ianniello per tre spettacoli: il nostro – una nuova produzione su testo di Pau Mirò con quattro attori per la mia regia –, uno di Casa del Contemporaneo e uno del Teatro Nuovo Sanità. Camminerà da solo come progetto speciale della Regione Campania se lo approveranno e comunque verrà portato in vari teatri. Sicuramente al Bellini, dove quest’anno curiamo da ottobre a dicembre la programmazione del Piccolo Bellini in collaborazione col Nuovo Sanità. I Fratelli Russo ci hanno affidato la direzione artistica per tre mesi, per aiutarci chiedendoci di spostare le attività lì. La prima cosa è stata pensarvi anche Rua Catalana, che vorremmo portare al Ghirelli e al Civico 14 o al Comunale di Caserta qualora il Teatro Pubblico Campano ci sostenesse, così da concedergli una platea di duecentocinquanta posti contro i quindici cui le norme odierne riducono la nostra. A meno che a novembre non sia tutto diverso.

N.Z.: È rinata una collaborazione con la Reggia di Caserta per curare le tracce delle audioguide del parco avendo in compagnia anche un musicista particolare, uno sperimentatore del suono come Paky Di Maio.  In qualche modo questa situazione è diventata una possibilità di relazioni, ci ha permesso di chiederci come avremmo potuto organizzarci e andare oltre, direttamente al livello successivo di crescita, con un salto. L’investimento fatto sulla qualità e la professionalità sembra stia tornando, bisogna vedere cosa succederà con il pubblico.

Si è parlato molto del bisogno di teatro come organismo sociale e unitario, per, e all’interno della comunità teatrale stessa. Oggi si lavora o si osserva per capire come questo bisogno si stia traducendo in una ripartenza che, per diverse occasioni, realtà o identità artistiche, segna scoperte o perdite, inizi o fini, scelte o esclusioni.

R. S.: Ovviamente abbiamo partecipato alla miriade di piattaforme istituite. A un certo punto però, pur rimanendo nel sistema e continuando a seguire, ci è parso che molte cose si siano ribaltate su se stesse. Penso alla manifestazione di giorni fa a Roma e noto come questioni che esistono da tempo immemore sembra si debbano risolvere adesso, tutte insieme. Il Covid può essere un incentivo, seppure molti problemi sono interni, da sempre, fra noi, fra gli organizzatori, fra questi e gli attori, fra gli attori e i tecnici… Nessun festival ha mai incluso “tutti” e nessun teatro ha mai inserito “tutti” in programmazione. In qualche modo è sempre stato così. Si è arrivati a chiedere un contributo di sussistenza sostenendo che trenta giornate sarebbero state troppe per un lavoratore dello spettacolo, col bonus ministeriale di seicento euro a chi ne aveva cinque: ipoteticamente anche un dilettante che l’anno scorso ha fatto sei repliche in una compagnia amatoriale dovrà prendere un reddito di seicento euro. Diventa abbastanza problematico e si rischia di sfiorare l’assurdità, capisci?! Forse si è un po’ esagerato, a maggior ragione se rivedo tutte le sigle che, tranne alcune, io che faccio questo lavoro da trent’anni, non conoscevo, alcune nate per l’occasione, altre mai sentite prima sebbene magari esistessero da anni e non si fossero poste il problema lavorativo, del comparto. C’è stato il rischio dell’autoreferenzialità , la questione di un “teatro fatto per noi”, a cui io però non credo perché non penso abbia senso. È vero, le nostre attività sono fatte per pochi spettatori e abbiamo bisogno di aiuti, però bisogna stare attenti a non trarre più danni che effettivi benefici da questa situazione.

N. Z.: Rispetto all’idea di “rete”, a noi che facciamo parte di C. Re. S. Co., è risultato paradossale il proliferare di una serie di copia e incolla di quanto già esisteva e che fa anche un lavoro sensato. Capisco che magari le piccole realtà non aderiscano all’Agis, ma ci sono soggetti e sigle impegnati da più di dieci anni in una lotta ministeriale e territoriale. Alcuni sembrano essersi informati solo adesso, o solo adesso essersi posti il problema di avere uno spazio pulito e igienizzato, essersi resi conto solo ora che senza una storicità amministrativa è difficile chiedere contributi. Spesso il grande assente nei dibattiti teatrali è stato proprio il pubblico. In un momento storico in cui ogni giorno il telegiornale fa un elenco dei morti e si parla di guerra contro un virus, ci ritroviamo in un mondo in cui il teatro è fondamentale perché per noi il lavoro è la ragione per alzarsi la mattina e non dormire la notte. Ma possiamo porci una domanda sul nostro lavoro e non chiederci nulla del pubblico, l’unica cosa davvero necessaria per poterlo fare?! Quando torneremo a fare attività non potremo fare finta che non sia accaduto, evitare la riflessione su quanto succede oggi. Questo vuol dire riflette sulla paura della morte, sulla paura dell’altro? Beh, sono macro-temi che il teatro affronta da tremila anni, perciò l’artista non deve porsi il problema di come andare in scena, bensì di cosa portare in scena.

Quali sono le domande che vi siete fatti o vi fate in modo più ricorrente?

N. Z.: Alla presentazione della stagione del Bellini, non avere accanto Roberto o Ilaria (Delli Paoli n.d.r.) per un problema tecnico mi ha fatto sentire solo nonostante ci fossero persone a cui sono affezionato. Mancavano gli “amici giornalisti”, ho visto le sedie vuote, il teatro senza pubblico, senza le maschere che riconosco e saluto all’entrata. Affrontare questo nel mio caso si traduce nella ricerca di relazione dei corpi. Chi, come me, è abituato ad una sala con ottanta persone che respirano insieme a uno spettacolo, è abituato a un corpo di ottanta persone. Una cosa meravigliosa, che implica tanti sacrifici e rispetto alla quale le uniche domande restano “quando?” e “come lavorare per?”. Ciò che ha caratterizzato il Civico 14 negli ultimi anni credo sia la “cura”: per l’artista, per come viene accolto, e per il pubblico da trovarsi, “coccolarsi” prima, durante o dopo lo spettacolo, nell’incontro. Posso provare a farlo anche solo per quindici persone, forse non tutto tornerà uguale a prima. Però continuerò a chiedermi quando avremo di nuovo modo di crescere e alzare l’asticella fino a quel regime, quando potremo tornare in relazione senza far finta di non poterci toccare, senza far finta di non poterci dare un bacio, senza far finta che si debba stare in scena separati, a teatro, una delle cose più promiscue al mondo. Il “come se” è bello in palcoscenico, meno nella vita vera.

Marianna Masselli

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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