Teatro in video 53° appuntamento. Mentre nelle sale americane è uscita la nuova versione cinematografica del celebre musical, diretta da Tom Hooper, proponiamo un mash up di due canzoni interpretate dal cast originale di Broadway.
«Cats? Ugh. Cats. Parla di gatti. Gatti che cantano, vi farà impazzire». Nella scena seconda di Angels in America. Si avvicina il millennio, Tony Kushner affida al personaggio di Roy Cohn il compito di liquidare, nello spazio di una battuta, il più grande fenomeno della Broadway dei primi anni Ottanta: e chiunque, seppur immune dal suo cinismo, può forse accettare come corretta questa ironica sintesi. Nei due atti che la compongono, nei suoi quasi centosessanta minuti di durata, la creazione di Andrew Lloyd Webber non racconta alcunché; privo di uno sviluppo drammaturgico, con i suoi eventuali subplot o le sue possibili torsioni, Cats appare fin dal debutto – a Londra nel 1981, a New York l’anno seguente – come un concept musical, l’erede di una tradizione minore che ha tra i suoi antenati Rodgers e Hammerstein, Hair, Bob Fosse. Un’esilissima vicenda, quasi un canovaccio, è infatti soltanto lo strumento per un susseguirsi dilatato di assoli canori e di sprazzi corali, di brevi performance coreografiche e ingegnose soluzioni registiche, volte a restituire un’atmosfera e un’idea più che una reale vicenda. Eppure, a fronte di una tale debolezza narrativa, lo spettacolo costituisce ancora oggi una pietra miliare, al contempo l’inesausta matrice di un genere dal gigantesco successo commerciale – quello dei blockbuster musical – e la scaturigine di una canzone destinata all’immortalità: sui palcoscenici di tutto il mondo così come nell’Heaviside Layer, il paradiso dei gatti.
È là che sperano di ascendere i Jellicle Cats, membri di una tribù di gatti urbana e postmoderna, riunitasi in una notte di luna per affidare al patriarca del gruppo il compito di scegliere chi potrà lasciare la comunità e le sue quotidiane traversie, così da rinascere a nuova vita. Per Grizabella – la glamour cat ormai vecchia ed emarginata – l’abbandonare le proprie spoglie ammaccate e graffiate, l’affidare al vento i propri rimpianti, diviene tuttavia l’occasione di interpretare l’uscita di scena più agognata, quella concessa soltanto ai grandissimi o ai fortunati: tra sguardi estatici e applausi commossi, mentre il sipario, lentamente, cala. Memory – qui cantata da un’eccezionale Betty Buckley durante la cerimonia di consegna dei premi Tony del 1983 – nacque, come tutta l’opera, dal genio di Thomas Stearns Eliot: Lloyd Webber adattò in musica l’elegia Rapsodia su una notte di vento e la celebra raccolta Il libro dei gatti tuttofare. Proprio quel divertissement del 1939, con cui il futuro premio Nobel indagava le vite e le psicologie di uno strampalato gruppo di felini, ebbe origine dalle rime poste a conclusione delle lettere inviate ai figliocci: doni poetici e intimi, fantasticherie che il cantore della Terra desolata consegnò, ancora cinquantenne, a giovani e giovanissimi lettori. Ma tra giochi linguistici e vertiginosi nonsense, tra liste di bizzarri nomi e feroci imprese, ciò che sembra celarsi è un’agrodolce considerazione sul tempo, sulle ferite da esso inferto, sulle possibilità di una riconciliazione. Così, mentre sorge il dubbio che «un Gatto non sia affatto differente / né da voi né da me né da altra gente», il lettore e lo spettatore possono forse interrogarsi sul luogo e l’istante nei quali la nostalgia non farà più alcun male. Oltre le quinte e i fondali, look, a new day has begun.
Alessandro Iachino