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Novecento… in venticinque anni. Intervista a Eugenio Allegri

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Dal debutto ad Asti nel 1994, alle repliche romane di questi giorni (fino al 18 aprile al Teatro Eliseo) Novecento, il monologo scritto da Alessandro Baricco e interpretato da Eugenio Allegri per la regia di Gabriele Vacis, segna un percorso lungo e importante. 

La storia del «più grande pianista jazz del mondo» che porta il nome di un secolo e che passa tutta la sua vita sul transatlantico Virginian senza mai voler scendere sulla terraferma, ha ispirato anche Giuseppe Tornatore che, nel 1998, dal monologo ha tratto La leggenda del pianista sull’oceano. Per celebrare questi 25 anni, guardando al passato (ma anche, e soprattutto, al presente), abbiamo intervistato Eugenio Allegri, che di Novecento è il volto e la voce teatrali. Abbiamo parlato di classici, di funzione civile del teatro, di relazione con il suono e di cosa significhi «essere un attore».

Che cosa è un classico?

Un classico, per quanto mi riguarda, è qualcosa di immortale. Ma forse questa risposta è troppo banale. Se lo riferiamo a un testo è facilmente identificabile, lo è di meno se pensiamo a uno spettacolo. Io credo che sia quell’opera nella quale il linguaggio con cui viene costruita rimane un linguaggio capace di parlare alle persone continuamente, comprensibile sempre. Me ne sto rendendo conto, nel “piccolo” del classico che è Novecento, perché qualcuno lo chiama anche tale. È impressionante se lo pensi riferito a Goldoni, o agli antichi… però quando leggo Plauto io scopro che mi parla come se qualcuno mi stesse parlando oggi. Anche in Novecento il linguaggio che affiora, a distanza di 25 anni, è ancora moderno: chi viene a vederlo per la prima volta mi dice che ha la sensazione di trovarsi di fronte a uno spettacolo nato oggi. Il classico è una cosa su cui non si deposita la polvere.

Parlami di Novecento nel tempo. Accoglienza, aneddoti, luoghi dove ha assunto un significato particolare.

Novecento continua a essere legato alla pioggia: dall’alluvione di Asti nel 1994, nei giorni del debutto, alle piogge romane di questi giorni. Ricordo una replica all’aperto, a Venezia a Campo Santo Stefano: alle spalle degli spettatori vedevo arrivare un temporale impressionante, ho fatto in tempo a finire, a prendere qualche applauso e poi il finimondo. È stato come se la tempesta dello spettacolo vivesse di fronte a noi. Ricordo che le prime due repliche astigiane le ho fatte entrambe con il microfono rotto, accorgendomene solo alla fine. Nel corso della prima tournée, al Teatro di Porta Romana a Milano, avevamo tantissimo pubblico, era l’apice del successo di Baricco. Però gli spettatori scoprivano la storia solo lì. Poi, all’inizio della seconda settimana di repliche, Baricco ha presentato Novecento alla Feltrinelli a Milano e si è avvertito uno scarto: la gente iniziava a venire con il libro. Anche se quasi tutti continuano a invertire (e io ogni volta mi stupisco), il testo è uscito cinque mesi dopo il debutto dello spettacolo. In quel momento si è definito un rapporto lampante tra il testo, finalmente scritto, e il linguaggio del teatro che, nel frattempo, lo aveva fatto proprio, masticato, in parte anche provocatoriamente distrutto e ricostruito. Gabriele Vacis e io non abbiamo fatto lo spettacolo nel pieno rispetto della struttura letteraria che ci ha consegnato Baricco. Un appuntamento importante è recente, risale al 30 agosto scorso. Pur non essendo mai stato in Inghilterra, presentivo che lì Novecento avrebbe funzionato, come è andato bene a Zagabria e in Germania e, invece, passato quasi inosservato a Parigi e a Vienna. Abbiamo fatto una sola replica, a Londra, ed è stata incredibile. In platea, inglesi e italiani insieme hanno concesso a Novecento un’attenzione straordinaria, che forse c’entra con la “deriva” anglosassone-americana nello spettacolo. Chissà perché, ma la immaginavo esattamente così come è andata.

Come si è relazionato con altri tuoi lavori, con la tua evoluzione come attore? Ti capita ancora di riscoprire il testo?

foto di Andrea Macchia

Lo spettacolo cambia inevitabilmente insieme a me. I due tecnici che lavorano con me da anni ieri sera alla fine mi guardavano come se fossi un marziano, perché avevano assistito a uno spettacolo che non avevano mai visto. In questa settimana non c’è mai stata una replica che assomigliasse all’altra. Ma non perché io approfitti di questo spettacolo, e di questa possibilità di presenza sul palcoscenico, per mostrare al pubblico lati di me che interessano solo me, in maniera impropria. È evidente che Novecento si porta dentro un mistero, che mi offre terreno perché io possa continuare a lavorare sulle parole, sulla presenza, sull’uso dello spazio, delle traiettorie, sulla rievocazione dello scarto del tempo: dare corpo al linguaggio del teatro. Non è detto che tutti gli spettacoli debbano essere misurati su questo ma se sei da solo in scena non puoi esimerti dall’esprimere tutte le possibilità, ulteriori rispetto a quelle del teatro di narrazione. In Novecento c’è un grande lavoro di interpretazione,  ma soprattutto di rappresentazione: devi tendere a far vedere al pubblico quello che la scenografia non ha. La «scenografia libera», come direbbe Peter Brook, ti offre la possibilità di creare una forma di rappresentazione che si delinea attraverso l’uso dello spazio. Io entro dentro personaggi che hanno una o due battute: li abito, li abbandono, li metto in relazione, sono tutti convergenti verso Novecento ma, nel loro convergere, hanno un proprio spazio di percorso. C’è anche un lavoro di narrazione, naturalmente: l’io narrante, il trombettista amico di Novecento, indica tempi, cronologia, ambienti, personaggi. È una dimensione narrativa un po’ brechtiana. E poi, sì, l’evocazione serve a rendere chiari i passaggi in una dimensione di tempo non lineare: il pubblico deve avere chiara la scansione per potermi seguire, altrimenti sembra tutto molto folle.

Ho sempre “usato” Novecento perché il teatro, per come lo intendo io, potesse delinearsi nelle sue, e nelle mie, massime possibilità, non mi sono mai fermato. Qualcuno confonde questo alzare il coefficiente della difficoltà con la generosità: io non so se sono un attore generoso, sono un attore che continua a cercare sempre di più dentro il teatro e per fare questo, ovviamente, non mi posso risparmiare. Si è parlato di Novecento come di uno spettacolo confortante: a volte, secondo me, si presenta invece come una vera e propria provocazione. I primi dieci minuti il pubblico può non capire cosa sta succedendo. Il mio compito è stare sulla scena con consapevolezza, ascoltando me stesso: bilanciando il lavoro con il pubblico e  quello interiore. Lo ho capito da subito che il mio dovere, a fronte dell’emozione di chi guarda, era quello di essere pienamente presente.

Credo che, nello spettacolo, ci sia un’ironia che io percepisco molto bene, un certo carattere torinese. È una delle cose che lo  protegge da un sentimentalismo che potrebbe degenerare, diventando enfasi e quasi “piaggeria” nei confronti del personaggio. Anche il mio incedere senza rispettare la dizione, cercando una lingua che non esiste, non è un esercizio di stile: è una dinamica cercata e ragionata, e serve anche questa a proteggere da una lettura troppo semplice, a mettere in discussione una certezza.

In un’intervista hai dichiarato: «Stare dentro questo mondo non ha intermittenza […] Decidere di essere attore è diverso dal fare l’attore». Si lega quello che dicevi prima: una qualità attoriale che non è prettamente la generosità, ma una forma di intensità, di radicamento dentro quello che sta facendo.

foto di Andrea Macchia

Io non sono nato attore, ho deciso di esserlo. Nel giro di pochi anni, ho fatto subito “incontri con uomini straordinari” – Dario Fo, Leo de Berardinis, Jacques Lecoq, Carlo Boso che mi ha “iniziato” alla Commedia dell’Arte –  e ho capito che, in una scelta come quella, o ci si stava veramente dentro, oppure era tutto inutile. In qualche modo, questa vita me la sono dovuto conquistare: non avevo un passato che la rendesse naturale, venivo da una strada, da una storia diversa, la mia famiglia ha “capito” insieme a me quello che stava succedendo. Quando ti rendi conto che la cosa con cui ti stai misurando è così profonda, così capace di intervenire nell’indagine sull’esistenza degli uomini, devi fare una scelta radicale: devi scegliere di vivere e guardare il mondo con quegli strumenti lì, quelli che ti dà il teatro. Sono gli strumenti della conoscenza, dell’esperienza, dell’indagine costante, della messa a confronto e della messa alla prova, per verificare di continuo l’entità di ciò di cui parli. Il teatro non si affronta da un punto di vista solo teorico, come fosse una scienza più o meno perfetta: è un modo di essere di fronte alle cose del mondo. Sono stato giornalista politico e consigliere comunale, cantavo, suonavo la chitarra, giocavo a calcio: potevo fare tante cose e vedere il mondo da tante latitudini diverse. Quando ho percepito la possibilità di farlo attraverso il teatro, ho fatto convergere tutte le sensibilità e le esperienze dentro questo linguaggio. Per cui, ecco, essere attore è diverso dal farlo, perché farlo è qualcosa di momentaneo. Esserlo è esserlo sempre, anche quando scendi per strada, prendi la metro. Questo non vuol dire che entro teatralmente in ufficio postale ma che non mi sfugge nulla di quello che mi accade intorno, arricchisco continuamente il mio bagaglio e cerco di fissarlo dentro di me. Io giro per strada guardando in faccia la gente, e la gente gira lo sguardo. Tutti guardiamo il tramonto e l’alba, ma non è solo quello.

Parlaci del rapporto tra la lingua di Novecento e la colonna sonora. Mi riferisco alla maniera di portare la parola ma anche alla drammaturgia stessa, a come interagisce e confligge con il suono.

Foto di Andrea Macchia

C’è questa forte idea di interazione, condivisa anche da Gabriele Vacis. D’altra parte Baricco vanta studi di musicologia, io da ragazzino cantavo, quindi il rapporto con la musica c’è, e la voce è uno strumento musicale straordinario. Ho iniziato a sperimentare profondamente le possibilità della voce con de Berardinis: nel suo insegnamento il lavoro sulla partitura vocale era fondamentale, anche se si trattava solo di uno dei linguaggi, una miriade di linguaggi, che lui sintetizzava e inquadrava in modo fulminante. In Novecento si tratta di entrare in rapporto con il suono: quando proponi una “cosa organica” devi anche respirarci dentro e la tua andatura musicale estende questo rapporto anche al pubblico, altera la sua respirazione. Inoltre lavorare in una partitura di rapporto tra il suono della voce, la parola e la colonna sonora obbliga tecnicamente a stare in dei tempi: da un lato costringe il testo ma dall’altro esalta i concetti, i contenuti, i passaggi, rendendoli molto evidenti. Quindi la musica è, di fatto, intervenuta anche sul piano dell’interpretazione: spesso dover stare dentro un ritmo mi fa dire le battute in un certo modo, mi dà delle strade per identificare il personaggio, i personaggi che nascono e muoiono continuamente. La musica ha aiutato a dare tempi, pause, sguardi.

Hai definito la Commedia dell’Arte una «gioiosa festa civile». Dimmi qualcosa rispetto alla possibilità di svolgere una funzione “civile” attraverso il teatro, e se la tua idea di poterlo fare è cambiata nel tempo.

Una delle ragioni che mi hanno fatto scegliere il teatro è la dimensione “civile” che è contenuta nella sua stessa natura. Qualcuno parlando di Commedia dell’Arte l’ha definita “arte democratica”, perché c’è un rapporto leale con le persone. Già soltanto il piano d’ascolto tra pubblico e attori è miracoloso perché fatto di rispetto, si esce da una dimensione semplicemente interpersonale e si entra in una dimensione che possiamo definire “metafisica”, che mette in relazione le persone in quanto entità e in quanto comunità. Le comunità, nelle varie definizioni, si confrontano. Poi il teatro assume una valenza precisamente civile perché sceglie determinati contenuti, parla degli eventi. Però credo abbia una funzione civile e politica in ogni caso. Ho scoperto che, attraverso la Commedia dell’Arte, noi possiamo reinventare l’attualità, non darla per scontata, neppure quella che registriamo. Non la subiamo e basta, possiamo riscoprirne le fonti, ogni volta che indaghiamo sul perché succede una cosa invece che un’altra. Per questo è importante la provocazione, perché può spezzare il nesso di relazione parola/esperienza, già depositato nella memoria dello spettatore. Se il teatro cancella, o mette in crisi, quella memoria e ti lascia un nuovo presente, sta svolgendo una funzione culturale e politica, artistica e civile. Per me questa cosa è assolutamente il mio lavoro, sono un attore.

Ilaria Rossini

Teatro Eliseo, Roma – fino al 18 aprile 2019 NOVECENTO di Alessandro Baricco con Eugenio Allegri regia Gabriele Vacis

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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