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William Forsythe. I geniali colori di una tranquilla serata di danza

Abbiamo visto la prima italiana di A Quiet Evening of Dance, ultima creazione di William Forsythe. Una drammaturgia complessa tra movimento, musica, colori. Recensione.

foto di Bill Cooper

Come vogliamo definirla? Una serata di balletto e hip hop in guanti e calzini colorati? Il concerto coreutico, per sette formidabili danzatori, su musiche non dal vivo – quelle di Morton Feldman e Jean Philippe Rameau – teoricamente inavvicinabili? O l’ennesimo, e quanto benvenuto, chef d’oeuvre di un coreografo-sperimentatore che non ha mai smesso di indagare la “cosa-balletto”, dimostrando che non è il linguaggio a contare bensì l’uso che se ne fa, e che danza e coreografia sono arti così separate da rendergli possibile, tra tante installazioni create per un pubblico di non danzatori, persino l’invenzione dei famosi “oggetti coreografici”?
Le possibilità possono essere tante; tuttavia, seguendo il diktat di un coreografo come William Forsythe – che più di qualunque altro ha prestato e presta attenzione ai titoli delle proprie creazioni per dirimere il pensiero dello spettatore – chiameremo A Quiet Evening of Dance semplicemente “Una tranquilla serata di danza”, aspettandoci la materializzazione del suo titolo ma con quella dose di arguzia e ironia ammirata al Teatro Grande di Brescia e in replica, il 13 febbraio, al Valli di Reggio Emilia in occasione del 30° anniversario del William Forsythe – Reggio Emilia Dance Festival.
Creata per il Sadlers’ Wells nell’ottobre 2018, e vincitrice del “Fedora-Van Cleef & Arpels Prize for Ballet” nello stesso anno, l’ultima creazione di Forsythe (o penultima, visto che il coreografo è già alle prese con un nuovo impegno per il Boston Ballet) è composta, nella prima parte, di duetti, assoli, terzetti (Prologue, Catalogue, Epilogue e Dialogue / Duo 2015) e nella seconda – Seventeen / Twenty One – pure ma con un insieme finale.

foto di Bill Cooper

Nel breve Prologue, una coppia in nero ma con lunghi guanti bianchi (Parvaneh Scharafali e Ander Zabala) intreccia un passo a due dinoccolato, quasi un corteggiamento su di un dolce cinguettio. Quel suono di natura ci ricorda che il coreografo, per quasi mezzo secolo di stanza in Germania – prima a Francoforte (1984-2004) poi a Hellerau, nei pressi di Dresda (2005-2015) – è tornato a vivere nella sua America, ovvero nell’idillico Vermont. La coppia cattura un’attenzione “da mimo” che si concentra sugli espressivi disegni delle braccia, inanellate le une dentro le altre, lanciate nel vuoto, accostate, distaccate e poi alla ricerca delle mani su cui posare il suo dialogo gentile.
Catalogue, aggiornamento di un’omonima coreografia del 2016, sembra mettere in fila alcune delle oltre cento lezioni di Improvisation Technologies; A Tool for the Analytical Dance Eye, realizzate dal coreografo nel 1996 in forma interattiva, al computer, per divulgare le dinamiche del proprio linguaggio.
E infatti Jill Johnson e Christopher Roman, coppia provetta e matura, agisce su silenzio e sur place. Mostra con sistematicità quanto possa essere necessario il piegarsi e dispiegarsi delle giunture del corpo (spalle, gomiti, polsi), che cosa siano i punti di pressione, i contrappunti, gli equilibri, i perni sui cui può poggiare il movimento. Con il battito delle mani, nell’ultima parte della “lezione”, i due danzatori si toccano il proprio viso, poi le orecchie e infine tendono le braccia per riunirsi a distanza, mano contro mano. In questo preciso momento parte Nature Piece n.1 di Morton Feldman. Il pezzo, del 1950, è importante, tipico del primo periodo del compositore, quando ancora adottava uno stile aforistico, influenzato da John Cage e da Anton Webern, anche se la struttura è piuttosto rapsodica.

foto di Bill Cooper

Siamo giunti a Epilogue e qui pare davvero che in tutti i duetti e assoli Forsythe abbia voluto sfruttare gli arpeggi veloci, non seriali, di Feldman, il suo lirismo costruito in modo libero per sciogliere nello spazio le precedenti “lezioni” meccaniche.
Ander Zabala (in guanti ancora bianchi ma calzini azzurri) restituisce anche posizioni tipiche del balletto non alla Forsythe e lascia dietro di sé la ricchezza del dinamismo perché venga raccolta da Parvaneh Scharafali. Ella, questa volta in guanti e calzini viola, cerca anche la terra, senza rinunciare a un elegante lavorio delle braccia. Accentua la flessuosità delle anche e regala gioielli di invenzione del movimento con quel suo procedere a gamba tesa con il piede poggiante sul tallone, con quel suo dondolio continuo, sinuoso, che prelude a uno stop in proscenio a braccia aperte.
Quand’ecco che sul fondo sopraggiunge trotterellando l’elemento nuovo del resto della troupe, tutta proveniente dalla Forsythe Company: è il forte e muscoloso Rauf “RubberLegz” Yasit, campione di hip hop. Qui alla sua prima entrata in scena, egli si limita, per così dire, ad avvolgere le poderose braccia guantate di rosso (i calzini sono arancione) ora attorno alla testa, ora attorno alle gambe, stupito nell’osservare i propri arti superiori, piegato su se stesso, e poi deciso a uscire di scena con una corsetta all’indietro che rende coreograficamente esatta la sua seconda entrata in palco quasi di soppiatto, come di chi non voglia farsi vedere. Questa volta Yasit è con Parvaneh: il loro confronto è breve ma comincia a mettere in primo piano le similitudini del balletto “à la Forsythe” e l’hip hop: due geometrie, due sistemi di movimento nella loro non dissimile natura matematica.
Quando il danzatore di hip hop si aggiudica la terza apparizione è di nuovo solo. Ma appare incerto tra posizioni mediane e alte: dubbioso nel suo tendere all’infuori gli arti superiori fiammeggianti, opposti al busto invece tutto grigio, e giocherellone nel far frullare le mani per poi andarsene con passo fiero a concludere il pezzo di Feldman.

foto di Bill Cooper

Nel brano del compositore americano c’è però molto di più. Jill Johnson, la già maestra delle “lezioni” di Forsythe, qui sfoggia guanti rosso/bordeaux e calzini rosso chiaro. Agisce di fronte, ama i petit battement, la rotazione di un braccio solo per raggiungere una prima posizione (ballettistica): segue la velocità e gli accenti di Feldman e poi dà il lasciapassare all’ex-compagno Christopher Roman, in guanti viola e calzini grigi, e al suo duetto, tutto maschile, con Ander Zabala. Braccia piegate, saltelli, un guardarsi per non copiarsi e poi un giro di valzer sottobraccio, altro meraviglioso input per l’assolo del portentoso Roman, con il suo bacino all’infuori, lo “strazio” del torso, e le braccia sempre in azione.
C’è anche l’incontro tra braccia viola e rosso/bordeaux: grazie alle due ballerine Parvaneh e Jill, si capisce bene che cosa sia la fluidità scossa da vibrazioni e distratta nello spazio, e invece la rigidità che ammette scossoni ma centellinati e addolciti dalle braccia en l’air. Un’ironia a portata di sguardo, una pulizia di movimento inarrivabile da pur bravi danzatori; Feldman ne esce trionfante.

foto di Bill Cooper

Col cinguettio del Vermont si presume che la fine della seconda parte, destinata a Dialogue / Duo (2015) si ricongiunga all’inizio. Invece il duetto, a suo tempo creato per l’addio alle scene di Sylvie Guillem (ne ricordiamo il partner, lo scaligero Massimo Murru) e ora meravigliosamente restituito da Brigel Gjoka e Riley Watts in canotta verde e marrone e pantaloni ghiaccio e azzurro. La loro è una spumeggiante esplosione di virtuosismo: balzi, giri vorticosi, pose da balletto stritolate in velocità da un arabesque-attitude-cambré con la testa che per un nanosecondo tocca il piede alzato; e ancora: dondolii, contorsioni, sfiorare terra non fanno che mettere in luce nella “proliferazione del perfetto disordine”, caro al coreografo, la purezza della danse d’école nuda e cruda, ma priva di ostentazione, di quell’odiosa patina narcisistica, tante volte presente anche nel miglior balletto, ma estranea alla naturalezza tipica e sempre riconoscibile in Forsythe.
La seconda parte comincia con tre danzatori in corsa. Questa volta hanno magliette pantaloni e calzini dai colori mescolati pur essendo ormai riconoscibili (sono Gjoka,Watts e Zabala). Con puntiglio cavalleresco seguono la musica, questa volta di Jean Philippe Rameau. È di nuovo un pezzo importante questo Ritournelle appartenente a Hyppolite et Aricie. L’intera tragedie lyrique, scritta da Rameau nel 1733, quando debuttò come operista a 50 anni, diede luogo alla querelle tra ramisti e lullisti. Essa conteneva, infatti, diverse innovazioni rispetto alle tradizioni lulliste, allora abbastanza “imbalsamate” e intoccabili.

foto di Bill Cooper

Tutto questo ha a che fare con Forsythe? Certo con il nuovo Forsythe che, ritornato al proprio amato e personalizzato balletto, ha rivolto l’interesse alle forme del rigido vocabolario del Diciassettesimo secolo, del periodo Barocco; l’epoca della codificazione delle cinque posizioni, del Re Sole e di Versailles. Lo ha fatto e lo farà presumibilmente ancora da par suo, senza rimuovere le mille tappe della sua ricerca, si è reimmerso nella sua prediletta «archeologia del sapere» del mai abbandonato Michel Foucault.
Qui il coreografo ci regala una suite di danze stupefacenti. Prima due coppie: l’iniziale termina un dialogo a distanza con l’educazione acquietata e cortese di un arabesque, come si conviene alla musica cortigiana di Rameau. La seconda s’appaga dolcemente delle sue posizioni statiche, nello scambio dei volteggi mai all’unisono. Poi un vero e proprio coup de théâtre. Roman e Yasuf appaiono quasi in penombra e stanno chini; quando avanzano si notano i tatuaggi dell’eroe dell’hip hop, ma non è questo a destare la nostra curiosità: gli incastri dei due corpi a terra, le gambe tese in alto a martello dell’uno vengono afferrate per inghiottire il torso dell’altro e fanno dei due interpreti un unico nodo umano allungato e tentacolare, aperto e chiuso e sulla dolcezza delle note di Rameau svaniscono nel buio, creando uno dei momenti più struggenti e alti di tutto lo spettacolo.
Certo dentro la baldanzosa esplosione orchestrale, con cenni ancora cortesi della quarta coppia di nuovo maschile, s’infila ancora l’hip hop a terra con gli spin di Yasit, e i due successivi assoli maschili (Watts e Gjoka) accendono di nobile velocità le note. Mentre i successivi duetti vogliono diagonali, rotondità nelle prese, un cercarsi senza mai cedere al suolo (Parvaneh e Zabala).

foto di Bill Cooper

Altra sorpresa: a braccia di nuovo inguantate (rosse e gialle) Watts soppesa la diversità di Yasit ancora in primo piano nel suo hip hop e ci si confronta: impeccabile nei piegamenti delle gambe e nel convincere il proprio partner di strada a una resa di schiena al pubblico. È però lo sfarfallio delle braccia ancora bianche di Parvaneh a convincere Yasit a impegnarsi in nuove prodezze a terra e a cercare nella compagna inedite convergenze tra mani e braccia. L’esplosione finale di tutti i corpi, con i loro guanti e calzini colorati, sancisce un nuovo trionfo: quello di Rameau.
Chi mai può dire che il compositore nato alla fine del Seicento e l’Americano scomparso nel 1987 qui non creino un incontro inaspettato, originale? Forsythe li ha accostati con cognizione di causa, e ineccepibile competenza musicale, per dar vita alle superbe disarticolazioni del suo balletto mescolate, non senza ironia, a quelle ingessate dell’età dei Lumi e di un secolo prima, e alle straordinarie contorsioni della danza di strada. La prima parte di A Quiet Evening of Dance (libera razionalità vigilata) è la continuità della seconda parte (istintiva veemenza liberata), senza sforzo, che pure c’è ma che, quando è nascosto, non fa che premiare l’inarrivabile professionalità degli interpreti.

foto di Bill Cooper

Così, anche tra cinguettii (autobiografici) e silenzi, A Quiet Evening of Dance ci appare colto e gioioso, introspettivo ed estroverso, ferocemente contemporaneo, più di una creazione concepita da un ventenne. Del resto, come si usa dire, ci vuole tempo per diventare giovani, ma in arte occorre possedere anche una caparbia, ossessiva volontà di ricerca per raggiungere questa freschezza. Forsythe ha affermato che «sperimentare è come uccidere il proprio lavoro più e più volte». Egli, in quasi mezzo secolo di lavoro, non ha mai smesso di essere il killer di se stesso.

Marinella Guatterini

A QUIET EVENING OF DANCE
coreografie William Forsythe

PROLOGUE
CATALOGUE (Second Edition)
EPILOGUE
Musica Morton Feldman, Nature Pieces from Piano No.1

DIALOGUE (DUO2015)

SEVENTEEN / TWENTY ONE
Musica Jean-Philippe Rameau, Hippolyte et Aricie: Ritournelle

Una produzione Sadler’s Wells London di William Forsythe
e Brigel Gjoka, Jill Johnson, Christopher Roman, Parvaneh Scharafali, Riley Watts, Rauf “RubberLegz” Yasit e Ander Zabala
Co-produzione Théâtre de la Ville, Théâtre du Châtelet e Festival d’Automne di Parigi; Festival Montpellier Danse 2019; Les Théâtres de la Ville de Luxembourg; The Shed, New York; Onassis Cultural Centre-Athens; deSingel international arts campus, Anversa

Debutto Sadler’s Wells, Londra, 4 ottobre 2018

Vincitore del premio Fedora – Van Cleef & Arpels Prize for Ballet 2018

Danzatori Brigel Gjoka, Jill Johnson, Christopher Roman, Parvaneh Scharafali, Riley Watts, Rauf “RubberLegz“ Yasit, Cyril Baldy (sostituto di Ander Zabala per il tour di febbraio 2019)
Compositore/Musica Morton Feldman, Nature Pieces from Piano No.1. From, First Recordings (1950s) – The Turfan Ensemble, Philipp Vandré © Mode (per Epilogue)
Compositore/Musica Jean‐Philippe Rameau, Hippolyte et Aricie: Ritournelle, da Une Symphonie Imaginaire, Marc Minkowski & Les Musiciens du Louvre © 2005 Deutsche Grammophon GmbH, Berlin (per Seventeen/Twenty One)
Design luci Tanja Rühl e William Forsythe
Design costumi Dorothee Merg e William Forsythe
Tecnico del suono Niels Lanz

Per il Sadler’s Wells
Direttore esecutivo e artistico Alistair Spalding
Produttore esecutivo Suzanne Walker
Responsabile Produzione e Touring Bia Oliveira
Produttore del Tour Aristea Charalampidou
Coordinamento Produzione e Touring Florent Trioux
Responsabile Marketing Daniel King
Ufficio stampa Senior Caroline Ansdell
Responsabile costumi Miwa Mitsuhashi

Staff tecnico
Direttore di produzione/Luci Adam Carré
Direttore di palcoscenico Bob Bagley

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