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La Scortecata. Emma Dante rilegge la fiaba nera di Basile

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La Scortecata di Emma Dante ha debuttato poche settimane fa al Festival di Spoleto 60. Recensione 

Foto Franco Lannino

Il buio è totale e prolungato, saturo di un’attesa che, quasi confidente, esonda in brevi sprazzi di applausi. Al centro della scena nera, la fosforescenza azzurra di un castello giocattolo, issato su uno sgabello, e due sedie di legno. Le luci si accendono all’improvviso, tingendo il pavimento di arancione, il silenzio si fa perfetto. Le sedie sono ora occupate da Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, i corpi ricurvi in abiti sbrindellati, agitati da un palpito indecifrabile, impegnati in un’operazione concitata che assomiglia al lavaggio dei denti.
La Scortecata di Emma Dante, visto al Teatro Caio Melisso, in occasione del debutto al sessantesimo Festival di Spoleto, inizia così: sulla scena è già posizionato tutto ciò che sarà essenziale alla fabula ma, come in un gradiente progressivo, l’atmosfera si addenserà a poco a poco. Il racconto-fonte è molto noto (ancora di più dopo i recenti successi di The Tale of Tales di Matteo Garrone): si tratta della decima fiaba della prima giornata de Lo cunto de li cunti overo lo trattenimiento de peccerille di Giambattista Basile, La vecchia scortecata.

Foto Franco Lannino

Carolina e Rusinella sono due vecchissime sorelle e condividono la solitudine di una reclusione domestica che le inselvatichisce; a spezzare il ménage arriva la profferta lusinghiera di un re, pazzamente innamorato della voce di una delle due, filtrata attraverso l’uscio. L’affaccendamento frenetico della scena iniziale si rivela così essere un esercizio di levigazione del dito mignolo che poi, «pronto per essere adulato», verrà concesso allo sguardo e al tocco del re attraverso la serratura. Quasi una sineddoche, ancora dolce, dello scuoiamento finale, al quale una delle due si sottoporrà, nella speranza disperata di recuperare, al di sotto del guscio irsuto dell’avvizzimento, la delicatezza della carne giovane. Nel mezzo una notte d’amore, avvolta dall’oscurità complice e sostenuta ironicamente dai ritmi di Mambo italiano, seguita dalla scoperta orrificata da parte del sovrano dell’aspetto della sua concupita. Prontamente la getterà dalla finestra ma la vecchia, appesa al ramo di un albero, sarà graziata dall’incantesimo di una fata che le restituirà bellezza e giovinezza (una trasformazione scenica giocata sui colori della fiamma, otticamente meravigliosa e, al contempo, percorsa da un’ironia allusiva all’estetica del cabaret), consegnandola finalmente ad un destino di amore e nozze. Alla sorella non rimarrà che tentare la scorticatura.

Foto Franco Lannino

Le tinte amare del paradosso sono intensificate da un disegno drammaturgico di avvicendamenti: D’Onofrio e Maringola impersonano – secondo una turnazione incoerente, scandita da poche ed efficacissime caratterizzazioni posturali e di posizionamento scenico – sorelle, re e fata. La loro corporeità, completamente votata alla resa della desolazione e della vecchiaia, conserva, per guizzi, una qualità muscolare e flessuosa che ne definisce una sorta di ipnotica antinomia, congeniale all’atmosfera di controsenso e dolente inestricabilità che si infittisce per gradi.
La tenuta della natura bifronte di questo habitat, surreale eppure terrigno, è favorita dal disegno luci di Cristian Zucaro, che contrappunta il linguaggio mimetico e quello simbolico con la precisione estetica del suo tratteggio e dalla seducente familiarità che via via lo spettatore conquista con l’utilizzo che Dante fa del napoletano seicentesco di Basile: una lingua arcaica ma mescidata a elementi di un lessico contemporaneo, all’inizio respingente e poi – lentamente e quasi per “apprendimento organico” – sempre più comprensibile e struggente.

La mascolinità chiamata ad interpretare la femminilità – oltre a ricalcare il modello teatrale pre Commedia dell’Arte e a mimare, con intenzionalità, la disgregazione, operata dal tempo, che quasi cancella le polarità sessuali – appare anche un dispositivo per portare in scena un grottesco ancestrale, privo di enfasi.
La Scortecata ha infatti il grande pregio di custodire un simbolismo sottile che opera in una tenue controluce, al di sotto della sua superficie completamente leggibile, nera ed umoristica insieme. L’esito è una partitura lieve, precisa e piena di pensiero, che chiede, del paradosso che inscena, una lettura progressivamente più profonda e pretende una riflessione tanto dolorosa quanto espansa e condivisa, come lo sono i fenomeni stessi della natura umana.

 

Ilaria Rossini

Teatro Caio Melisso – Festival di Spoleto – luglio 2017

LA SCORTECATA
dal testo di Giambattista Basile
scritto e diretto da Emma Dante
con Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola
luci Cristian Zucaro
una produzione Festival di Spoleto 60, Teatro Biondo di Palermo
in collaborazione con Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale

 

 

 

 

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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